In vista del seminario di Time to Organize!, il seminario di Euromade del 15-16 marzo a Bologna, pubblichiamo la traduzione di Tania Rispoli dell’introduzione di The Politics of Operations. Excavating Contemporary Capitalism di Sandro Mezzadra e Brett Neilson (Duke UP, 2019). L’edizione italiana del libro è in preparazione per Manifestolibri”.

Di SANDRO MEZZADRA e BRETT NEILSON.

Immagina di viaggiare in autobus attraverso la pampa argentina. Sei distratto e stai leggendo un libro senza prestarci attenzione veramente, quando guardi fuori dal finestrino e vedi un cartellone gigante con su scritto «Intacta RR2 Pro». Sotto il nome del prodotto, appare uno slogan «Desafiar los limites en soja» (Sfidare i limiti della soia). Guardando in lontananza, vedi solo il verde dei campi di soia che si estendono fino all’orizzonte. Fai una rapida ricerca sul tuo telefono e scopri che Intacta RR2 Pro è un prodotto di Monsanto, parte di una nuova generazione di semi transgenici sempre più diffusi «persino nelle aree più marginali».[1] All’improvviso, provi un senso di disorientamento. Cosa significa marginale – ti chiedi – in un paesaggio così uniforme e indefinito? Continuando a leggere, capisci che, naturalmente, esistono aree marginali nella pampa, come altrove nelle campagne dell’America Latina e in altre parti del mondo. Continui a cercare e a leggere e vieni a sapere – nel caso non lo sapessi già – che questa coltivazione estensiva di soia, resa possibile da semi come Intacta RR2 Pro, ha degli effetti violenti e distruttivi sugli assetti sociali e spaziali, perché spinge all’espropriazione e all’espulsione delle popolazioni contadine, soprattutto indigene. Ti viene in mente il passaggio dei Grundrisse in cui Marx discute la «tendenza [del capitale] a creare un mercato mondiale», facendo apparire «ogni limite come un ostacolo da superare».[2]

E mentre i tuoi pensieri scorrono, rifletti sulle varie operazioni che sono necessarie prima che un attore capitalista come Monsanto possa estrarre valore e favorire il proprio processo di accumulazione in un’area come la pampa: manipolazione genetica, collaudi, prospezioni, pubblicità, vendita, uso della polizia o dei sicari per fare il lavoro sporco di espulsione e spossessamento, e così via. Pensi al lavoro vivo usato in queste operazioni e, magari, decidi di impegnarti per saperne di più sulla resistenza delle persone al loro sfruttamento. Infine, pensi a come il concatenamento di queste operazioni si leghi ai cambiamenti del mercato mondiale – ad esempio all’ascesa della Cina come potenza economica.

Questo semplice racconto ci conduce a molti degli argomenti che discuteremo nei prossimi capitoli. Fondamentali per questo nostro lavoro sono le nozioni di operazione e politica delle operazioni. Ma che cos’è un’operazione? E le operazioni hanno una politica? In caso affermativo, quali sono le conseguenze di queste politiche per il continuo radicamento del capitalismo su diverse scale e spazi, per le architetture istituzionali e le politiche esistenti e per le lotte che contestano e cercano di invertire quegli stessi processi di radicamento? Queste sono alcune delle questioni fondamentali di cui ci occupiamo in The Politics of Operations. Il libro si riallaccia, senza rimanervi confinato, alla retorica contagiosa dei big data e degli algoritmi che hanno fatto presa sui discorsi e le pratiche capitalistiche negli ultimi anni. Dal momento che abbiamo ampliato il nostro modo di intendere le operazioni oltre questo specifico campo per includere una grande varietà di processi storici e attuali, abbiamo voluto indagare le dimensioni operative del capitale e del capitalismo, individuando il loro significato politico e analizzando la loro importanza per una politica che cerchi di operare dentro, contro e oltre il capitale.

The Politics of Operations analizza il modo in cui le operazioni specifiche del capitale “toccano terra” non solo per fornire un’analisi dei loro effetti locali oppure globali ma anche per offrire un prisma analitico attraverso il quale indagare come l’intreccio o il conflitto con altre operazioni del capitale riorganizzi il mondo. Immaginiamo questo lavoro come uno strumento per scavare nel capitalismo contemporaneo, che significa rilevare e tracciare la storia e l’espansione delle operazioni del capitale al fine di dissotterrare ed esporre alcune delle tendenze più importanti che stanno dando forma ai processi attuali della transizione del capitalismo e dei suoi sconvolgimenti. Il libro è volutamente globale nei suoi propositi, perché si occupa di esempi tratti da una serie di contesti planetari ed esplora le risonanze che si danno tra loro, per lavorare costantemente tramite prospettive teoriche ed empiriche. Anche se attingiamo dalle nostre esperienze di ricerca, non immaginiamo questo libro come un resoconto di queste attività. Piuttosto, facciamo in modo che queste esperienze diano slancio alla nostra indagine anche oltre la discussione esplicita che di alcune di esse offriamo nei prossimi capitoli. I nostri casi di studio sono più ampi di quanto queste esperienze abbiano permesso di capire e comprendono gli sviluppi nella logistica portuale, l’estrazione mineraria, il data mining e la penetrazione della finanza nelle economie “popolari” e subalterne in molte parti del mondo. In ognuno di questi esempi, la nostra ricerca non si concentra solo sulle operazioni del capitale e sulle sue logiche sottostanti, ma anche sulle lotte e sulle contestazioni che emergono dalle profonde ripercussioni di queste logiche in specifiche circostanze materiali e sociali. In questa congiuntura, alcune delle tensioni più importanti tra gli aspetti di diversificazione e omogeneizzazione del capitalismo contemporaneo diventano evidenti. Dal momento che le nostre analisi sono rivolte a questa congiuntura, non cerchiamo di offrire un’analisi comparativa delle diverse manifestazioni di queste tensioni, identificate secondo le geografie prestabilite della mappa mondiale, ma di distinguere e seguire le risonanze tra tendenze e processi che attraversano molteplici confini, temporalità e scale.

Il ruolo degli assetti spaziali e scalari nel contribuire a questa differenziazione è tutt’altro che passivo. A questo proposito, è necessario specificare il significato dell’immagine concettuale che abbiamo adoperato prima e che molto utilizzeremo nei capitoli successivi – cioè, l’immagine del capitale che “tocca terra”. Quest’immagine potrebbe essere interpretata come una sorta di fulmine prometeico che distrugge con violenza e riorganizza le realtà dello spazio e della società. E non vogliamo certamente disconoscere la forza della suggestione di questa frase. Tuttavia, un esame più attento di quello che vogliamo afferrare con l’uso e l’elaborazione di questa immagine svela l’attenzione per le qualità della terra. La parola “terra” per come la usiamo è al contempo materiale e costruita in modo prospettico come una superficie operativa su cui interviene il capitale. La terra, infatti, non è soltanto suolo né terreno, ma registra la specificità delle formazioni spaziali, sociali, giuridiche e politiche con le quali il capitale deve scontrarsi mentre rimane invischiato in fitte costellazioni fatte di carne e polvere. Dovrebbe essere chiaro che non pensiamo che una simile superficie operativa sia uno spazio liscio, dal momento che la registrazione di tensioni, attriti e differenze lungo le frontiere del capitale è un elemento costante della nostra analisi. Intendiamo lo spazio in generale come campo di tensioni e lotte, in cui le formazioni spaziali prestabilite sono ben lungi dall’essere passive rispetto alle operazioni del capitale, mentre quelle stesse operazioni hanno spesso un effetto distruttivo sulla produzione dello spazio. Il capitale opera attraverso luoghi, territori e scale, impiegando una logica che è in fin dei conti planetaria ma deve continuamente confrontarsi con resistenze, frizioni e interruzioni che attraversano l’espansione delle sue frontiere e delle sue geografie.

The Politics of Operations trae la sua ispirazione materiale soprattutto da un’indagine sull’intreccio di tre aree predominanti dell’attività economica (e, ci terremmo a precisare, politica) contemporanea: estrazione, logistica e finanza. Nonostante sembri comodo trattare queste attività come “settori” distinti dell’economia globale, questa è una terminologia che tendiamo ad evitare, poiché non coglie a sufficienza i modi nei quali ognuna di queste tre aree negli ultimi anni abbia fornito orientamenti concettuali e griglie empiriche per l’analisi del capitalismo contemporaneo. Per questo, evitiamo di considerare estrazione, logistica e finanza soltanto come settori economici o come paradigmi per un’analisi delle operazioni capitalistiche, come tende ad accadere, per esempio, nei dibattiti in America Latina sull’estrattivismo.[3]  Trattiamo, invece, estrazione, logistica e finanza come insiemi di operazioni e pratiche che si intersecano e offrono punti di vista diversi e quadri per un’analisi ampia del mutamento della politica e del capitale. Lavorando su questi terreni operativi che si sovrappongono e si implicano reciprocamente The Politics of Operations, costruisce un quadro che si propone di esibire la razionalità distintiva e le logiche del capitalismo contemporaneo. Evitando di intendere in modo letterale l’estrazione come saccheggio delle risorse naturali, ci proponiamo di fornire una definizione più ampia che ci permetta di esplorare come al giorno d’oggi alcune tra le più importanti e potenti operazioni del capitale dipendano da pratiche materiali di prospezione ed estrazione. Pensiamo che questo sia il caso anche nei campi estremamente astratti dell’impresa capitalistica, come la finanza, alle cui operazioni sono spesso attribuite qualità quasi metafisiche e che troppo spesso vengono analizzate separatamente. L’idea di estrazione riveste naturalmente un ruolo così centrale nei nostri tentativi di distinguere le logiche del capitalismo contemporaneo, perché fornisce un modo di descrivere come le operazioni del capitale interagiscano con i loro molteplici “fuori” da cui traggono linfa. Intendere l’estrazione in questo modo offre anche uno sfondo sul quale indagare le trasformazioni dello Stato e della composizione delle lotte globali, specialmente sulla scia del movimento Occupy, delle rivolte arabe e di altre importanti contestazioni che sono esplose e paiono essere scemate nei primi anni di questo decennio.

Anche se nel secondo capitolo definiamo il concetto di operazioni e ne offriamo una genealogia, vale la pena già a questo punto soffermarsi rapidamente su tale nozione dal momento che costituisce la base del nostro approccio al capitale e al capitalismo. Il concetto di operazioni, nonostante le sue chiare origini etimologiche nel latino opus e l’elaborazione storica in campi diversi come l’esercito, la matematica e la filosofia – nei quali spesso è stato associato con la categoria di opera in quanto opposta al lavoro, come per esempio, negli scritti di Hannah Arendt[4] – è spesso considerato troppo semplice per meritare una seria ricerca. Per fare un esempio, i dibattiti sulla comunità e sulla politica che si sono sviluppati intorno al concetto di inoperosità, non hanno approfondito cosa un’operazione sia o faccia (approfondimento che sarebbe sicuramente necessario se dovessimo chiederci cosa significhi essere inoperosi).[5] Troppo spesso, l’operazione si riduce a un dispositivo di «realizzazione tecnico-economica»,[6] come se si trattasse di una semplice relazione causa ed effetto, oppure di input e output. Una prospettiva di questo tipo sottovaluta cosa l’operazione stessa possa fare, riducendo le interazioni complesse dello spazio e del tempo che si verificano tra quelli che sembrano i suoi momenti di causa ed effetto, input e output, a processi lineari e non lasciando la possibilità di comprendere come queste interazioni stiano in relazione con gli assetti di spazio e tempo esterni a quell’operazione. Per esempio, se intendiamo il funzionamento di un algoritmo finanziario come un’operazione in senso ristretto, è probabile che ci porremo domande sulla sua rilevanza per le dinamiche di mercato, ignorando la complessità del suo funzionamento tecnico e della sua dipendenza dalle trasformazioni più ampie del capitalismo, cui pure contribuisce.

Rispetto a quest’ultimo esempio, vale la pena notare che questo modo ristretto di intendere l’operazione è tipico non solo delle teorie filosofiche che esplorano i concetti di comunità e politica, ma anche della recente euforia sulle analisi predittive di dati e algoritmi che si basano su sistemi di elaborazione elettronica delle informazioni. Secondo noi, l’operazione non è mai soltanto tecnica. I suoi meccanismi, nel momento in cui forniscono un modo per aprire la discussione attorno al capitalismo contemporaneo, offrono anche uno strumento per analizzare gli intrecci passati di politica e capitale, come risulta evidente dal nostro studio della storia delle compagnie commerciali privilegiate nel terzo capitolo. Il punto importante da capire è che un’operazione non può essere equiparata né all’attività né alla potenzialità; ma, nel fornire un terreno concettuale che ci permette di pensare queste due dimensioni insieme, costituisce un modo teorico e pratico potente per interrogare i meccanismi del capitale. Una volta fissato questo terreno, possiamo cominciare a porci domande sulle interazioni del capitale con differenti tipi di istituzioni sociali, giuridiche e politiche; i suoi effetti sugli ambienti naturali e le possibilità politiche per la sua contestazione e il suo superamento.

Questa interpretazione delle operazioni del capitale ha importanti conseguenze per il nostro tentativo di riprendere e riformulare nel libro due importanti concetti marxiani: Gesamtkapital e sfruttamento. Marx utilizza ampiamente la nozione di Gesamtkapital (così come gesellschaftliches Gesamtkapital), specialmente nel secondo e nel terzo volume de Il Capitale, che sono rimasti incompiuti (un fatto che dovrebbe invitare a ulteriori lavori creativi nella critica dell’economia politica). Questo concetto permette a Marx di cogliere la generale configurazione e la logica del movimento del capitale. Per ragioni che diverranno chiare nel secondo capitolo, preferiamo tradurre Gesamtkapital come «capitale aggregato» piuttosto che come «capitale totale», che è il termine più comunemente utilizzato in inglese. Mentre Marx non offre mai veramente una teoria completamente sviluppata del capitale aggregato, noi siamo convinti che approfondire questo concetto possa essere particolarmente produttivo per comprendere i modi caratteristici nei quali il capitale costituisce se stesso come attore e anche come attore politico, vale a dire come un aggregato di forze.

Lo studio delle relazioni, delle tensioni e dei conflitti tra i «capitali individuali» (che Marx definisce anche come «frazioni» del capitale aggregato) ha sempre avuto una posizione di rilievo nei dibattiti marxisti – specialmente sullo Stato, ma anche sulle relazioni tra capitale e capitalismo. Attraversando questi dibattiti, proviamo a mappare la costituzione della politica e dello spazio del capitalismo globale contemporaneo, che ci sembra presa in una transizione tumultuosa e rischiosa che la sta spingendo oltre gli assetti stabiliti della territorialità e del capitalismo. Per dirla in breve, siamo convinti che il momento storico del capitalismo nazionale e industriale sia fondamentalmente finito. In quel momento, la mediazione dello Stato-nazione (il suo tentativo sempre contradditorio e mai compiuto di rappresentare il capitale aggregato nazionale) ha giocato un ruolo essenziale – per usare le parole di Henri Lefebvre[7]  – nel tentativo di «controllare flussi e azioni, assicurando il loro coordinamento» all’interno del mercato mondiale.  Nella congiuntura attuale, le operazioni estrattive come quelle che analizziamo nei casi della logistica e della finanza dominano la composizione del capitale aggregato e tendono a comandare e sottoporre altre operazioni del capitale alla loro logica – compresa quella industriale, che continua non solo a esistere ma anche a espandersi a livello globale. Le operazioni estrattive del capitale devono fare i conti con gli Stati-nazione, sebbene il loro ambito spaziale e le logiche di funzionamento non si possano in alcun modo contenere entro i confini nazionali.

Quando sottolineiamo l’importanza del concetto di capitale aggregato, non dimentichiamo mai – e questa potrebbe essere la ragione principale per cui siamo prudenti nel tradurre Gesamtkapital come capitale totale – che «il capitale non è una cosa, ma un rapporto sociale tra persone mediato da cose».[8] L’analisi delle trasformazioni contemporanee di questa relazione sociale – che significa anche della composizione del principale “altro” del capitale, il lavoro vivo, per riprendere una categoria che Marx sviluppa specialmente nei Grundrisse – è una delle poste in gioco principali di The Politics of Operations. Mappare queste trasformazioni comporta anche, secondo noi, analizzare i modi nei quali esse sono inscritte nello spazio e lo producono, rendendo la geografia del capitalismo contemporaneo molto più complessa di quanto suggerito dalle divisioni binarie, come Nord globale e Sud globale oppure centro e periferia. Inoltre, la nostra indagine delle «frontiere del capitale» che si espandono ci spinge a tornare a L’Accumulazione del capitale di Rosa Luxemburg e a proporre una nuova lettura della sua tesi sulla necessità che il capitale ha di trovare un “fuori” per le sue operazioni.[9]

Una volta che questo “fuori” è concettualmente riformulato in termini non letterali e non esclusivamente territoriali, come proviamo a fare nel secondo capitolo, diventa possibile individuare uno specifico insieme di operazioni del capitale, che punta ad aprire e occupare nuovi spazi e nuove temporalità per la valorizzazione e per l’accumulazione. In questo modo ci inseriamo in un dibattito sulla relazione tra il capitale e i suoi molteplici “fuori” che è stato particolarmente vivace negli ultimi anni – e che ha coinvolto, per esempio, geografi marxisti come David Harvey, critici postcoloniali dell’economia politica come Kalyan Sanyal e femministe come Nancy Fraser e J.K. Gibson-Graham.[10] Il nostro approccio all’interno di questo dibattito si contraddistingue per l’insistenza sulla necessità di ripensare il secondo concetto che abbiamo prima menzionato: lo sfruttamento. Lavorando sulla differenza ma anche sulle relazioni decisive tra sfruttamento, da una parte, e spossessamento, potere, dominio e alienazione, dall’altra, cerchiamo di salvare questa idea così importante dalla lettura “economicista” che ha a lungo prevalso nel marxismo. Come mostriamo nel quinto capitolo, la necessità di insistere sulla natura politica dello sfruttamento diventa chiara una volta che il concetto viene immerso nelle fitte relazioni materiali che circondano la produzione di soggettività. Una volta che si chiarisce il rapporto tra sfruttamento e soggettività, con il suo portato di materialità corporea e differenza sociale, la possibilità di considerare le questioni della razza e del genere come secondarie rispetto a una qualche contraddizione primaria del capitale e del lavoro semplicemente svanisce. Per questo, la trama concettuale di The Politics of Operations è attraversata da un intenso dialogo con i pensatori e le pensatrici antirazziste e femministe.

Continuiamo a lottare con il tentativo (e il bisogno) di dare nome al soggetto che costituisce il principale “altro” del capitalismo contemporaneo. Siamo consapevoli che l’idea di sfruttamento richiede un approfondimento concettuale ulteriore e un’indagine empirica dettagliata a sostegno di un tentativo di questo tipo. Come negli scritti precedenti, continuiamo a sottolineare l’eterogeneità come caratteristica fondamentale della composizione del lavoro vivo contemporaneo, che si riflette anche nell’eterogeneità delle lotte che si confrontano con le operazioni del capitale su scala globale. Non possiamo che ripetere – e proveremo a verificare questa affermazione nei capitoli che seguiranno – che questa eterogeneità è una fonte sia di potere che di vulnerabilità. Rimaniamo ancora scettici riguardo ai tentativi di individuare una singola figura come soggetto strategico nella lotta contro il capitalismo, sia essa il «lavoratore cognitivo» o «l’esercito industriale di riserva», la nuova classe lavoratrice da qualche parte nel «Sud globale» o il «precariato». Allo stesso tempo, siamo convinti che i dibattiti sulle somiglianze e sulle tensioni tra i concetti di classe e moltitudine offrano il terreno più fertile per individuare e produrre un soggetto politico adeguato ai tempi. Proponiamo di riprendere questi dibattiti e le relative ricerche all’interno del campo aperto della tensione che – sempre in riferimento a Marx – può essere pensata come costituita tra i due poli della «classe lavoratrice» e del «proletariato»:[11] il primo si riferisce al soggetto di una lotta «economica» interna al capitalismo e il secondo nomina il soggetto politico le cui azioni e la cui organizzazione contraddicono questo sistema e lo superano.[12]

Quello che ribadiamo in questo libro sullo sfondo della nostra analisi delle operazioni estrattive del capitalismo contemporaneo è che la cooperazione sociale – anche nella sua forma “astratta”, specialmente nei processi di finanziarizzazione – emerge come una delle forze produttive principali che stimolano i processi di valorizzazione e accumulazione del capitale. Il concetto di sfruttamento deve, quindi, essere riformulato in modo tale da prendere in considerazione questa dimensione sociale fondamentale delle operazioni del capitale. Cerchiamo anche di gettar luce – soprattutto sulla base dell’analisi di diverse lotte sociali e politiche nel quinto capitolo – sulle enormi lacune, tensioni, conflitti tra cooperazione sociale e lavoro vivo. In questo modo, rivolgiamo la nostra attenzione alle molteplici gerarchie, fratture e ostacoli che rendono a dir poco difficile l’appropriazione politica da parte del lavoro vivo dei rapporti sulla cui base la cooperazione sociale si organizza (per dirla nei termini che rievochino una definizione abbastanza precisa di cosa sia il comunismo nei testi di Marx).

Sollevare la questione del contrasto e delle discrepanze tra cooperazione sociale e lavoro vivo è il nostro modo per formulare un enigma politico che coinvolge molti intellettuali, attivisti e movimenti in diverse parti del mondo. Nei capitoli che seguono, ci impegniamo in diverse discussioni simpatetiche e, speriamo, costruttive con questi intellettuali e attivisti. Siamo d’accordo con Lawrence Grossberg, quando scrive che «la sinistra ha bisogno di nuove forme di cooperazione e organizzazione, dialogo e dis-accordo; nuovi modi di co-appartenenza nella lotta intellettuale, politica e trasformativa».[13] Molte parti di questo libro sono scritte nello spirito della «convivialità dissenziente» che Grossberg fa risalire agli interventi del gruppo di studi di donne del Center for Contemporary Cultural Studies a Birmingham alla fine degli anni ’70. Cerchiamo di chiarire e concretizzare i nostri argomenti, mentre allo stesso tempo approfondiamo e intensifichiamo una ricerca comune per una politica capace di affrontare efficacemente le operazioni del capitale contemporaneo e di aprire nuove prospettive di liberazione e di vita oltre il governo del capitale.

Condividiamo, per esempio, diversi obiettivi analitici e concettuali con il libro di Saskia Sassen, Espulsioni e più in generale con il suo contributo alla comprensione del carattere estrattivo della finanza.[14] Allo stesso tempo, sulla base della nostra idea di inclusione differenziale, ci distanziamo criticamente dal modo in cui Sassen costruisce la sua analisi sul binomio incorporazione-espulsione. Analogamente, abbiamo imparato dal lavoro di Maurizio Lazzarato sull’«uomo indebitato» e riconosciamo più in generale l’importanza del debito e dell’indebitamento nei meccanismi del capitalismo contemporaneo.[15] Tuttavia, stiamo attenti a non assolutizzare le logiche del debito, che spesso portano a minimizzare o persino negare l’importanza dello sfruttamento. Per lavorare in direzione di un re-inquadramento dell’idea di sfruttamento, che è invece una delle poste in gioco teoretiche e politiche principali di The Politics of Operations, riesaminiamo la distinzione formulata da David Harvey tra «accumulazione per spossessamento» e «accumulazione per sfruttamento».[16] In molti dibattiti e lotte attuali – per esempio, nei dibattiti in America Latina sul “neo-estrattivismo” che analizziamo nel quarto capitolo, ma anche nelle lotte contro la gentrification in molte parti del mondo – questa distinzione ha portato, anche oltre le intenzioni di Harvey, a un offuscamento del concetto e della realtà dello sfruttamento.

Nel nostro tentativo di affrontare l’enigma politico che riguarda le relazioni instabili tra lavoro vivo e cooperazione sociale – che sostanzialmente significa tracciare i contorni e la posta in gioco di queste relazioni e indicare le direzioni possibili per continuare a lavorarci – prendiamo anche in considerazione i dibattiti attuali sul postcapitalismo, comprese le varianti femministe e accelerazioniste.[17] Mentre pensiamo che questi tentativi teorici e le relative pratiche ed esperienze concrete siano importanti e diano speranza, troviamo discutibili, nelle descrizioni e nelle teorie che riguardano «la vita dopo il capitalismo», la mancanza di interesse nella problematica che nelle discussioni storiche marxiste è stata chiamata “transizione”. La ricerca di modi non capitalistici di organizzare la vita, la società e l’economia, che si basano su un’indagine delle reti comunitarie o sulle potenzialità della tecnologia, non può trascendere la questione di come confrontarsi con il governo e il comando del capitale nel presente. Riprendere la questione della transizione non significa ripetere il sogno di una sorta di condizione irenica o paradisiaca che segue il rovesciamento o il declino del capitalismo in qualche modo immaginato come inevitabile e preordinato. Una politica comunista oggi non può che prendere una radicale distanza da questi sogni millenaristici, che troppo spesso si sono trasformati in incubi. Come spieghiamo più avanti nel libro, una politica di questo tipo deve radicalmente fare i conti con le lezioni della storia. Ciononostante siamo determinati a contribuire all’apertura di spazi per l’immaginazione politica di orizzonti di vita dopo il capitalismo, nel punto d’incontro tra reinvenzione della libertà e radicalizzazione dell’uguaglianza. A questo proposito, a differenza delle teorie del postcapitalismo, mettiamo in risalto l’importanza del “dopo”, cercando di problematizzarlo e chiedendoci cosa significhi immaginare forme di organizzazione che possano confrontarsi, negoziare e possibilmente rompere il governo del capitale.

Vecchie questioni ricompaiono sotto nuove spoglie. Elenchiamone alcune. Qual è la relazione della democrazia con il capitale e il capitalismo? La democrazia è l’unico orizzonte della politica, come le teorie post-marxiste della democrazia radicale hanno suggerito a partire dagli anni ’80?[18] Che dire della distinzione tra riforma e rivoluzione? Qual è la forma assunta oggi da forme di organizzazione importanti, come lo sono il partito e il sindacato? Quali ruoli possono giocare, insieme ai movimenti sociali, in una più generale politica anticapitalista? Qual è la posizione dello Stato nei tentativi pratici di sviluppare una politica di emancipazione e persino di liberazione? Non sono pochi i pensatori politici, da Slavoj Žižek a Jodi Dean, che sottolineano, spesso utilizzando  concetti e  modi di dire lacaniani, la necessità di un nuovo partito di avanguardia, soprattutto in seguito alla “sconfitta”, del movimento di Occupy negli Stati Uniti.[19] Non ignoriamo il problema del partito – la politicizzazione di «una parte», per ricordare la formulazione di Dean.[20] Tuttavia siamo molto cauti rispetto a una semplice riabilitazione di vecchi modelli di partito che non prendono in considerazione né i loro fallimenti storici né la composizione soggettiva dei movimenti e delle lotte contemporanee – che era, per esempio, uno dei punti di partenza principali del Che fare? di Lenin.[21] Pensiamo sia più promettente interrogare i risultati e i limiti dei partiti esistenti nei paesi in cui la “sinistra” è stata capace di impadronirsi del governo (come è accaduto in molti paesi dell’America Latina e per un brevissimo periodo in Grecia) o ha almeno realisticamente tentato di farlo (come è accaduto con l’ascesa del partito politico di Podemos in Spagna). Questo è il compito che intraprendiamo nel sesto capitolo, sullo sfondo di un’analisi più generale delle trasformazioni dello Stato e del governo nell’attuale congiuntura del capitalismo estrattivo globale. Ripetiamo e confermiamo ciò che abbiamo scritto in un nostro saggio precedente: «Lo Stato non è abbastanza potente per fronteggiare il capitalismo contemporaneo; per riaprire politicamente una prospettiva di trasformazione radicale, è assolutamente necessario qualcosa di altro, una differente fonte del potere».[22]

Lavorando su questa affermazione, alla fine del libro delineiamo una teoria del «dualismo di potere», che combiniamo con il tentativo di creare un’immaginazione geografica rivoluzionaria che produca e occupi nuovi spazi oltre i confini dello Stato-nazione. Così facendo, cerchiamo di elaborare quello che Luxemburg una volta aveva chiamato «realismo politico rivoluzionario».[23] Concordiamo con una serie di altri pensatori che stanno cominciando a riflettere nuovamente sul nesso tra dualismo di potere e transizione di fronte alla crisi delle tradizionali teorie di sinistra su riforma e rivoluzione.[24] Sottolineiamo la necessità, in congiunture specifiche, di negoziare con lo Stato o alcune delle sue strutture e addirittura di “appropriarcene”; ma insistiamo sul fatto che ciò che serve è una politica che non sia centrata sullo Stato, ma una politica capace di affrontare il neoliberalismo e le operazioni estrattive del capitale a livello del loro radicamento invasivo nel tessuto materiale della vita quotidiana. In questo modo cominciamo a dialogare con diverse interpretazioni del neoliberalismo che insistono sulla necessità di andare oltre la sua usale interpretazione come insieme di teorie economiche e politiche che potrebbero semplicemente essere cancellate «prendendo il potere dello Stato».[25]  E affermiamo con forza che l’alternativa al neoliberalismo non può essere una sorta di ritorno a un “welfare state” più o meno mitico,[26] una forma di cui analizzeremo le condizioni, la costituzione materiale e i limiti nel terzo capitolo.

Non sappiamo se la nostra ricerca politica possa essere contenuta nel concetto di democrazia. Nonostante i vivaci dibattiti critici intorno al tema della «democrazia radicale», abbiamo assistito negli ultimi vent’anni – e ancora di più sulla scia della crisi del 2007-2008 – a un processo di svuotamento e di manipolazione della democrazia rappresentativa, così come all’ascesa di nuove forme e tecniche di governance «post-democratiche».[27] Allo stesso tempo, la democrazia mantiene un potere di mobilitazione, come diventa chiaro, per esempio, nei principali slogan del potente movimento di occupazioni di piazza in Spagna nel 2011: ¡Democracia real, ya! (Democrazia reale, ora!). Questo potere di mobilitazione non si può semplicemente ignorare dal punto di vista teorico. Inoltre, dibattiti come quelli stimolati dalla pubblicazione di Controdemocrazia di Pierre Rosanvallon[28] alimentano un’idea di “democrazia conflittuale”[29] che considerata come quadro politico stabile appare interessante dal punto di vista della teoria del «dualismo di potere». Persino Il potere costituente di Antonio Negri, che su questo tema consideriamo una vera e propria pietra miliare, inizia con una frase apodittica: «parlare del potere costituente è parlare di democrazia».[30] Per questo, anche se oggi non possiamo facilmente eliminare la problematicità di questo concetto, vogliamo trattare la democrazia con cautela. La vecchia e quasi dimenticata definizione di democrazia data da Aristotele nella sua Politica, che viene semplicemente equiparata al governo dei poveri è stata ripresa negli ultimi tempi da diversi pensatori che condividono con noi la ricerca di una nuova politica di trasformazione radicale.[31] Una volta messa in luce questa materialità e persino parzialità (dal punto di vista del suo soggetto) della democrazia, la questione controversa della sua relazione al comunismo può essere ripresa in condizioni completamente nuove, anche se non meno minacciose di quando questa discussione fu violentemente e drammaticamente interrotta.

Prima di descrivere lo sviluppo del nostro lavoro nei suoi singoli capitoli, può essere d’aiuto per i lettori avere un’idea di come The Politics of Operations si colleghi al nostro libro precedente, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale.[32] Non vediamo il presente lavoro come un sequel di quel libro. Tuttavia, nonostante gli obiettivi di The Politics of Operations siano specifici, continuiamo a utilizzare molti dei concetti sviluppati nel libro precedente – dalle «frontiere del capitale» alla «moltiplicazione del lavoro», per menzionare solo due tra gli esempi più importanti. La discussione e l’impegno nella politica delle migrazioni e la posta in gioco soggettiva che la attraversa, sono presenti anche nei capitoli che seguono, se si considera in che misura i movimenti migratori interagiscono con le operazioni del capitale e costituiscono un punto di rottura sempre più sensibile nella contestazione politica oggi. Ma i lettori che si avvicineranno a questo libro con l’aspettativa di ampliare o complicare l’analisi dei confini e delle migrazioni offerta in Confini e frontiere, rimarranno probabilmente delusi. The Politics of Operations segna un nuovo inizio, anche se il libro approfondisce lo studio dei cambiamenti delle formazioni temporali e spaziali del capitalismo, che avevamo già avviato nel libro precedente. Vi sono anche importanti continuità tra i due libri rispetto al metodo. Entrambe i lavori assumono un approccio volutamente ampio, che ricava esempi e casi di studio da una varietà di luoghi globali e in modo analogo combinano le nostre esperienze di ricerca con resoconti tratti da altre fonti. Mentre l’inclusione del termine “metodo” nel titolo originale inglese, Border as Method, costituiva un modo per considerare la prospettiva del confine come angolo epistemico attraverso il quale esaminare una serie di questioni rilevanti per l’analisi del capitalismo contemporaneo – e non solo quelle che riguardano frontiere e migrazioni – si può sostenere una cosa simile a proposito del nostro approccio alle operazioni in questo lavoro. Comprendere le operazioni come cerniera determinante tra i meccanismi del capitale presi in specifiche condizioni spaziali e sociali e la sua articolazione in prospettive più ampie significa che la nostra ricerca non si limita ai casi particolari in cui il capitale “tocca terra” ma si estende a una serie di ulteriori questioni decisive: il ruolo storico del capitale come attore politico, i dolori e le gioie delle lotte anticapitaliste e il ruolo mutevole dello Stato.

(Traduzione di Tania Rispoli)

English version


[1] Daniel M. Cáceres, Accumulation by Dispossession and Socio-Environmental Conflicts Caused by the Expansion of Agribusiness in Argentina, “Journal of Agrarian Change” 15 (1), 2014, pp. 116–47.

[2] Karl Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (Rohentwurf), Dietz, Berlin 1953, p. 311; Lineamenti fondamentali dell’economia politica, a cura di Enzo Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1970, II p. 9.

[3] Verónica Gago- Sandro Mezzadra, A Critique of the Extractive Operations of Capital: Toward an Expanded Concept of Extractivism. “Rethinking Marxism” 29 (4), 2017, pp. 574–91; Sandro Mezzadra e Brett Neilson, On the Multiple Frontiers of Extraction: Excavating Contemporary Capitalism, “Cultural Studies” 31(2–3), 2017, pp. 185–204.

[4] Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, tra. S. Finzi, Bompiani, Milano 1964 e ristampe.

[5] Jean-Luc Nancy, La comunità inoperosa, trad. A. Moscati, Cronopio, Napoli 2003; Giorgio Agamben, What Is a Destituent Power?, “Environment and Planning D, Society and Space” 32, 2014, pp. 65–74; https://www.sinistrainrete.info/societa/3401-giorgio-agamben-per-una-teoria-del-potere-destituente-.html.

[6] J.-L. Nancy, op. cit., p. 56.

[7] Henry Lefebvre, State, Space, World: Selected Essays, a cura di Neil Brenner and Stuart Elden, trad. Neil Brenner, Stuart Elden, and Gerald Moore, University of Minnesota Press, Minneapolis 2009, p. 226.

[8] Karl Marx, Il Capitale, libro I, cap. XXV, trad. D. Cantimori, ed. Rinascita, Roma 1952, I t. 3, p. 226.

[9] Rosa Luxemburg [1913], L’accumulazione del capitale, trad. B. Maffi, Einaudi, Torino 1972; Pgreco. Milano 2012.

[10] David Harvey, La guerra perpetua. Analisi del nuovo imperialismo, trad. it. G. Barile, Il Saggiatore, Milano 2006; Kalyan K. Sanyal, Rethinking Capitalist Development, Routledge, London 2007; Nancy Fraser, Behind Marx’s Hidden Abode, “New Left Review” 86 (2014), pp. 55–72; J. K. Gibson-Graham, A Postcapitalist Politics, University of Minnesota Press, Minneapolis 2006.

[11] Étienne Balibar, La paura delle masse, Politica e filosofia prima e dopo Marx, Eterotopia/Mimesis, trad. A. Catone, Milano 2001, pp. 123-140.

[12] Ibid., p. 126-127.

[13] Lawrence Grossberg, We All Want to Change the World: The Paradox of the U.S. Left. A Polemic, Lawrence and Wishart, London 2015, p. 261.

[14] Saskia Sassen, Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, trad. N. Negro, Il Mulino, Bologna 2015.

[15] Maurizio Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato, DeriveApprodi, Roma 2012.

[16] David Harvey, La guerra perpetua, cit.

[17] Paul Mason, Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro. Il Saggiatore, Milano 2016; J.K. Gibson-Graham, A Postcapitalist Politics, cit.; Nick Srnicek, Alex Williams, Inventare il futuro, trad. F. Gironi, Nero-Not, Roma 2018.

[18] Per un’analisi di questa tendenza, vedi per esempio Angela Mitropoulos e Brett Neilson, Cutting Democracy’s Knot, “Culture Machine” 8 (2006): http://svr91.edns1.com/~culturem/index.php/cm/article/viewArticle/40/48

[19] Slavoj Žižek, The Simple Courage of a Decision: A Leftist Tribute to Thatcher, “New Statesman”, April 17, 2013: http://www.newstatesman.com/politics/politics/2013/04/simple-courage-decision-leftist-tribute-thatcher ; Jodi Dean, The Communist Horizon. Verso, London, 2012. Per una discussione del tema, vedi The Party We Need, “Jacobin”, n. 23 (autunno 2016), numero speciale.

[20] J. Dean, cit., p. 245.

[21] Vladimir Ilič Uljanov (Lenin), Che fare? [1902], trad. L. Amadesi, in Opere complete, v. 5, pp. 319-490, Editori Riuniti, Roma 1958.

[22] Sandro Mezzadra-Brett Neilson, The Materiality of Communism: Politics beyond Representation and the State, “South Atlantic Quarterly”, 113 (4), 2004, p. 787.

[23] Citato in Frigga Haug, Revolutionäre Realpolitik – Die Vier-in-einem-Perspektiv in Radikale Realpolitik: Plädoyer fr eine andere Politik, ed. Michael Brie, Dietz, Berlin 2009, pp. 11–25, qui p. 12.

[24] Soprattutto Michael Hardt e Antonio Negri, Assemblea, trad. a cura di T. Rispoli, Ponte alle Grazie, Milano 2018; Fredriich Jameson, An American Utopia. Dual Power and the Universal Army, Verso, London, 2016, pp. 3-8.

[25] Vedi per esempio Pierre Dardot e Christian Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, trad. Ilaria Bussoni, DeriveApprodi, Roma 2013; Verónica Gago, Neoliberalism from Below: Popular Pragmatics and Baroque Economies, trans. Liz Mason-Deeze, Duke University Press, Durham 2017.

[26] Vedi anche Stuart Hall, Doreen Massey e Michael Rustin, After Neoliberalism: Analysing the Present,

in After Neoliberalism?: The Kilburn Manifesto, a cura di Stuart Hall, Doreen Massey, Michael Rustin, Lawrence and Wishart, London 2015, pp. 18-19; Gavin Walker,  The ‘Ideal Total Capitalist’: On the State-Form in the Critique of Political Economy, “Crisis and Critique” 3(3), 2016, pp. 435–454.

[27] Colin Crouch, Post-Democracy, Polity, Cambridge 2004.

[28] Pierre Rosanvallon, Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi, Roma 2017.

[29] Vedi Étienne Balibar, Europe, crise et fin? Le Bord de l’Eau, Paris 2016, pp.186, 206-207.

[30] Antonio Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, Sugarco, Carnago 1992, p. 7.

[31]Vedi, per esempio, Wendy Brown, Undoing the Demos: Neoliberalism’s Stealth Revolution.  Zone, New York 2015; Pierre Dardot e Christian Laval, Guerra alla democrazia. L’offensiva dell’oligarchia neoliberista, trad. di Ilaria Bussoni. DeriveApprodi, Roma 2016; Yanis Varoufakis, The Economic Case for Authentic Democracy, https://yanisvaroufakis.eu/2015/12/09/the.-economic-case-for-authentic-democracy-ted-global-geneva-8th-december-2015.

[32] Sandro Mezzadra-Brett Neilson, Border as Method, or, The Multiplication of Labor, Duke University Press Durham NC 2013; Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, trad. G. Roggero, Il Mulino, Bologna 2014.

 

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