di TONI NEGRI.

Rende furente Macron che i gilets jaunes in grande maggioranza non solo abbiano rifiutato di partecipare al “grande dibattito” ma anche di organizzarsi in forma politica. In un partito, ad esempio, per poter prender parte attraverso rappresentanti a quel processo di riorganizzazione sociale e politica della nazione che egli, sotto la loro spinta, ha promesso. Promessa che non manterrà – sta già infatti annunciando che i risultati del “grande dibattito” non li comunicherà prima di qualche mese… Considera tuttavia quel rifiuto di organizzazione come un insulto alla forma democratica dello Stato e lo definisce come uno sfregio alla definizione popolare dell’indirizzo politico della nazione.

I gilets jaunes considerano, da parte loro, radicalmente truccata, distorta ed imbrogliona quella partecipazione. Ora, sembra che il consenso (sempre oltre il 50 %) che i gilets jaunes ancora raccolgono, sia in buona parte collegato a questo rifiuto di rappresentanza costituzionale – forse addirittura in maggior misura dell’adesione alle radicali rivendicazioni salariali e di riequilibro fiscale che essi presentano. Le due cose – la critica fiscale e il rifiuto della partecipazione – nella coscienza pubblica francese vanno assieme: tutti comprendono infatti che lo Stato neoliberale di Macron (rappresentativo e costituzionale) sta distruggendo le politiche pubbliche e del Welfare, il “comune” dei francesi, che lo fa in forme democratico-rappresentative e che non può fare diversamente malgrado ogni ripensamento o resipiscenza. I gilets jaunes presentano dunque una proposta di radicali riforme di democrazia che non permettano di distruggere il “comune”, di cui il popolo francese gode, e che invece incidano su una più democratica organizzazione/produzione di ricchezza. La “democrazia diretta” che rivendicano, è da leggere in questo senso, e cioè come uno strumento politico (nazionale e/o europeo – questo è in questione) per affermare insieme salario sociale e una governance democratica dal basso – si tratta, insomma, di “democratizzare la democrazia”.

Consideriamo quanto è fin qui avvenuto in questi tre mesi di lotta. I gilets jaunes si riconoscono come un contropotere, che non vuole essere assorbito, o comunque esser reso organico alla macchina ed agli strumenti di neutralizzazione dello Stato-sovrano, ma vogliono funzionare sul terreno sociale per opporre a quella macchina un contropotere.

Per meglio comprendere, usciamo per un momento dalla cronaca di questi tre mesi di lotta e chiediamoci, in generale, che cosa significa contropotere. Significa, in primo luogo, costruire istituzioni di destabilizzazione del potere politico e di disarticolazione della sua capacità di comando sulla società. Il contropotere è cioè una capacità organizzata di resistenza, di disobbedienza, una potenza negativa dell’ordine legittimo. La manifestazione del sabato, ripetuta finora diciotto volte, è un’istituzione di contropotere. In secondo luogo, il contropotere si presenta come capacità di destrutturare la compagine economica del paese. I gilets jaunes hanno finora attaccato soprattutto la circolazione delle merci. I sabati di lotta nel centro delle metropoli danneggiano il mercato. E poiché produzione, circolazione, riproduzione sono ormai divenute funzioni di un ciclo continuo, i danni determinati dall’attacco alla circolazione sono rilevanti per la valorizzazione del PIB. L’aggancio ai sindacati che i gilets jaunes hanno parzialmente costruito e l’organizzazione di lotte autonome anche nei settori direttamente produttivi che i gilets jaunes hanno cominciato a promuovere, l’implementazione della “lotta del sabato” con nuove pratiche di sciopero stanno dunque permettendo al movimento dei gilets jaunes di presentarsi anche nella forma di contropotere economico. I sindacati – la base CGT in particolare – sembrano gradirlo e convergere nelle loro manifestazioni. In terzo luogo, contropotere vuol dire costruire organizzazione alternativa a quella della “politica” e della rappresentanza esistenti. Un lavoro efficace in questo senso, è quello che stanno conducendo le assemblee, i club, e le “assemblee delle assemblee”, insomma quella serie di nodi che cominciano ormai a collegare sul territorio le trame della resistenza.

Ma è chiaro che l’alternativa costruita dai gilets jaunes diverrà reale quando, con il perfezionamento dei meccanismi di organizzazione interna al movimento (e cioè con la costruzione di un meccanismo di decisione adeguato), il movimento comincerà a inventare, a sperimentare e a produrre anche un modello – necessariamente “altro” – dell’organizzazione del potere dello Stato.

Siamo a questo punto? No. Ma è la prima volta che una larga presa di coscienza – ad un livello davvero massificato – della necessità di “democratizzare la democrazia” appare in un paese certamente non sottosviluppato dal punto di vista del funzionamento dell’apparato pubblico e del governo rappresentativo. Questa “presa di coscienza” si è mantenuta lungo i tre mesi di lotta dai quali usciamo, malgrado le feroci calunnie e provocazioni (antisemitismo, putschismo, fascismo, ecc.) cui il movimento è stato sottoposto e malgrado il livello di violenza che hanno subito le manifestazioni, su ingiunzione del governo e legittimazione di un nuovo assetto legislativo. Questa “presa di coscienza” sarà accentuata dal rifiuto di riforme (radicali? Effettive? O anche solo propagandistiche?) che al termine del “grande dibattito” (sempre che non sia, com’è probabile, prolungato per coniugarlo alla campagna elettorale per le europee) Macron dichiarerà, il 15 marzo. Non ci sarà risposta sui grandi temi sollevati dai gilets jaunes – sul “costo della vita”, le diseguaglianze sociali, il fisco, i salari. Il movimento dei gilets jaunes allora si approfondirà. Macron lo sa. Ha ormai avviato un idillio con la destra per riconquistare una platea di sostegno. La repressione continuerà e si approfondirà. Se la resistenza e la lotta dei gilets jaunes contro le politiche neoliberali continuano, esse meritano, agli occhi del potere, un passo in avanti nell’autoritarismo e nella violenza del governo.

Io penso che, giunti a questo punto, il compito dei gilets jaunes sia quello di sviluppare il contropotere, emerso dalla resistenza, fino a costruirlo come doppio-potere – cioè come un programma di lotte e di istituzioni che si oppongano radicalmente al potere esistente.

Lo propongo, pur sapendo che nella loro maggioranza i gilets jaunes non aderiscono oggi a parole d’ordine radicali, che abbiano valenza rivoluzionaria. Sono convinto che, anche se il livello politico si è immensamente sviluppato in questi mesi di lotta, nella maggior parte i gilets jaunes rivendichino il benessere goduto prima della grande crisi ed uno sviluppo conseguente a quegli anni di relativa felicità, piuttosto che auspicare rivolgimenti e conquiste rivoluzionarie. E penso anche che i sostanziosi gruppi che si muovono su ipotesi radicali di democratizzazione della democrazia, siano in qualche modo marginali alla maggioranza dei gilets jaunes. Ma c’è marginalità e marginalità e quella dei gruppi radicali dei gilets jaunes è ben impiantata nella moltitudine. I rifiuti di Macron, la rigidità della macchina statale, l’approfondimento della crisi porterà ad una radicalizzazione dello scontro e ad un rafforzamento dei gruppi fin qui considerati marginali, e probabilmente alla loro egemonia. In ogni caso, già da ora, alla richiesta di mettere lo Stato al servizio delle rivendicazioni materiali e di democrazia che essi esprimono, si accompagna la richiesta di modificare lo Stato perché possa davvero esser messo al servizio della moltitudine in lotta – e ciò richiede una radicale riforma. Non si tratta tanto di “prendere il potere” ma di prenderlo “in maniera diversa”, e cioè riempiendo quella “presa” di forme e di contenuti che ridefiniscano il potere. Le forme di nuova democrazia, di democrazia diretta che si formano nel processo di lotta e di organizzazione del contropotere, vogliono riflettersi nella “presa del potere”, nella dissoluzione dello Stato-sovrano e nella costruzione di un’organizzazione federale dei territori e delle metropoli. Organizzare dunque il contropotere in questo senso, passando all’esercizio di un doppio-potere per organizzare una democrazia diretta – questo è il germe dentro questo eccezionale movimento.

La strada indicata dai gilets jaunes è assai saggia e forte. È noto infatti che nelle discussioni e nelle pratiche che si sono sviluppate dopo il 2011 attorno al problema dell’organizzazione dei movimenti, e dopo le esperienze di OWS e degli Indignados, non ha vinto la linea di organizzazione oggi sostenuta dai gilets jaunes. Si sono piuttosto espresse ed imposte proposte tradizionali di partito: una “parte” deve organizzarsi come avanguardia per organizzare “tutto” il movimento, per porsi come guida strategica nella conquista del potere. È la vecchia via socialista (avanguardista) o borghese (leaderistica): essa però non vuol esser percorsa (né sembra percorribile) dai gilets jaunes. Finora essi hanno escluso ogni soluzione partitica ed hanno denunciato come nemici del movimento coloro i quali la propongono. Non sembrano neppure avere simpatia per l’altra strada che è stata sperimentata: quella di esser organizzati non da un gruppo esterno ma da un’avanguardia sorta dall’interno del movimento stesso. Essa dovrebbe spiegare ai partecipanti dell’avventura movimentista, moltitudinaria, la necessità di una convergenza strategica e proporre di gestirla. Il principio è giusto e rispetta quel refrain da sempre presente nei movimenti vincenti: la strategia al movimento e la tattica al partito. Ma il timore che questa sana formulazione possa esser mistificata e rovesciata è forte e – per ora – impedisce che questa strada possa essere percorsa. Vi sono troppi esempi che dissuadono.

Consideriamo, ad esempio, l’esperienza di Podemos. Seguì quella via avanguardistica. Aveva grandi possibilità e le realizzò. Madrid, Barcellona, Saragozza, Valencia furono i comuni conquistati da Podemos oltre ad un’importante rappresentanza nazionale. Podemos è stato il formidabile prodotto del 15M, una costruzione moltitudinaria in forma di partito. Ma ora è in crisi, e la crisi è prodotta proprio da questo suo essersi fatto-partito. Un dibattito e un’opposizione dei vertici, ripetitiva delle vecchie patologie politiche, ha mostrato, anche in questo caso, come la forma-partito sia inadeguata a corrispondere (ad organizzare e a guidare) un movimento sociale di classe in lotta contro la struttura composta del capitalismo e del potere, dello Stato e del neoliberalismo. La soluzione populista di sinistra (nella fattispecie, un colpo di forza, una scelta “dall’alto” della forma organizzativa “partito”, da parte dei dirigenti di Podemos), contrastata con troppa benevolenza già dall’inizio dai movimenti autonomi (che costituivano la maggioranza del 15M), ha mostrato crisi ed impotenza, non appena la lotta si è fatta decisiva. Quando cioè le élites di centro e la destra spagnole hanno voluto farla finita con l’anomalia che Podemos aveva presentato, ci sono riusciti nella più vecchia maniera, mettendo l’uno contro l’altro i suoi dirigenti… gli stessi che, con assoluto cinismo, nell’illusione dell’“autonomia del politico”, avevano sganciato la forma-partito da ogni rapporto con la lotta di classe – bene, oggi, debbono considerare quel percorso un errore strategico che lascia detriti pericolosi.

Qual era invece l’unica via costruttiva per chi avesse voluto essere fedele al 15M? Era quella di affidarsi all’autonomia di classe, ed oggi è quella di ricostruire con i movimenti quel patto che la costruzione del partito aveva cancellato. Ecco un esempio – meglio l’esempio – di cosa avviene quando forti movimenti come il 15M, o di cosa potrebbe avvenire per movimenti ancor più forti come i gilets jaunes, vengono racchiusi dentro un’ottocentesca struttura di partito. Per la moltitudine dei lavoratori, il partito è ormai un apparato dissolutivo quando non sia una macchina di corruzione.

Il XVIII sabato (9 marzo) ha visto ancora migliaia di compagni sfilare nelle città francesi. Sabato prossimo (16 marzo) sarà il XIX sabato di lotta. Si prevede una grande concentrazione nazionale dei gilets jaunes su Parigi, per celebrare adeguatamente il rifiuto di Macron di rispondere alle loro proposte – dopo la promessa di studiarle nel “grande dibattito”. Si prevede che la manifestazione di sabato prossimo veda realizzarsi quella “convergenza delle lotte” che finalmente comincia a vedersi. Già il 9 marzo le donne, in corsetto fucsia, aprivano il corteo di Parigi. Molti sindacalisti di base erano nel corteo. Il comitato di Commercy ha dato appuntamento ai rappresentanti dei mille gruppi costituiti in Francia, in aprile, a Saint-Nazaire, centro operaio metallurgico. La lotta continua.

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