Di SANDRO MEZZADRA
Chiunque sia atterrato all’aeroporto internazionale di Hong Kong, sull’isola artificiale di Chek Lap Kok a ovest dell’isola di Hong Kong, fatica a credere che per giorni sia stato occupato e praticamente bloccato da migliaia di manifestanti nello scorso mese di agosto. Centinaia di voli cancellati, cariche della polizia all’interno dello scalo, crollo delle azioni di Cathai Pacific (la compagnia “di bandiera” di Hong Kong), e blocco della mobilità internazionale attorno a uno degli hub finanziari più importanti del mondo: bastano queste poche note a segnalare la potenza del movimento di massa che da oltre tre mesi – con una continuità impressionante e con una formidabile capacità di intrecciare diverse forme di lotta e iniziativa politica – sta scuotendo Hong Kong. Attorno a una composizione giovanile che appare l’elemento trainante delle mobilitazioni si sono via via attivati settori profondamente eterogenei della popolazione, le marce pacifiche si sono alternate all’azione diretta e all’attacco di massa alla polizia e ai simboli del potere, ondate di scioperi hanno bloccato servizi e attività produttive. Organizzato attraverso un uso sapiente della rete e dei social media, il movimento si presenta “senza leader” (per quanto non manchino naturalmente le figure che si propongono come sua faccia pubblica, non sempre particolarmente efficaci sotto il profilo delle strategie comunicative). Nell’insieme, potremmo dire che questi tre mesi di mobilitazione e lotta di strada a Hong Kong abbiano rappresentato l’esperimento di maggior successo (per certi aspetti, si può ben dire, senza precedenti) di uno sciopero sociale e metropolitano capace di paralizzare la circolazione e l’accumulazione in uno spazio cruciale per il capitalismo contemporaneo. Si capisce dunque che Hong Kong non può non riguardarci.
Ma, si dirà, i manifestanti portano in corteo bandiere britanniche e statunitensi, inneggiano a Trump, all’Occidente e alla ex potenza coloniale. Non si può certo negare questa circostanza. Si può però forse sostenere che sia ben lungi dal riassumere il significato complessivo di questi tre mesi di lotta, che esistano piuttosto – tra la composizione del movimento, i comportamenti, gli immaginari e i bisogni che esprime da una parte, e l’invocazione dell’Occidente dall’altra – potenti tensioni e irriducibili eccedenze. E che queste tensioni ed eccedenze appaiano in piena luce laddove vengano proiettate sulla Cina e sulla complessa transizione che il Paese sta attraversando nell’era di Xi Jinping. Hong Kong diventa così uno specchio in cui a riflettersi è proprio la Cina, aprendo una prospettiva di grande interesse sulle contraddizioni che ne segnano l’attuale fase storica e politica. È un motivo di più per interessarsi a quel che accade a Hong Kong, in un’epoca in cui l’attenzione alla qualità sociale dei processi che sostengono gli smottamenti del quadro geopolitico è una condizione imprescindibile per un’analisi politicamente efficace delle stesse dinamiche che interessano situazioni provinciali come quella italiana.
In un articolo uscito sul New York Times sabato 7 settembre, Steven Lee Myers, Chris Buckley e Keith Bradsher scrivono che la più profonda paura del governo cinese “sembra essere che le domande di maggiore trasparenza politica e di suffragio universale che risuonano per le vie di Hong Kong si diffondano attraverso una sorta di contagio nella Cina continentale”. A dire il vero, non sembrano esserci segni che questo stia accadendo: per quel che si capisce, il consenso nazionalista promosso e cementato da Xi tiene anche attorno ai fatti di Hong Kong, senza significative smagliature. Vale tuttavia la pena di seguire l’indicazione dell’articolo del New York Times, svolgendola in un senso diverso da quello suggerito dai riferimenti alla “trasparenza politica” e al “suffragio universale” (temi in ogni caso essenziali per le mobilitazioni di questi tre mesi) – cercando cioè di qualificare materialmente la lotta per la democrazia a Hong Kong e di comprendere che tipo di proiezione questa lotta potrebbe avere in Cina.
La Cina, ce lo racconta spesso efficacemente Simone Pieranni sulle pagine del Manifesto, sta vivendo una transizione con l’obiettivo di trasformarsi in grande potenza tecnologica lasciandosi alle spalle l’epoca in cui, dopo l’avvio delle riforme di Deng, è stata la “fabbrica del mondo”. In questi anni abbiamo seguito, attraverso gli scritti di ricercatori e militanti cinesi come ad esempio Pun Ngai, lo sviluppo tumultuoso della lotta di classe dentro e contro la Cina come “fabbrica del mondo”. Una nuova classe operaia, composta essenzialmente di migranti interni, ha finito per dettare con le sue lotte il ritmo dello sviluppo. E si può in qualche modo dire che, quasi secondo i9 dettami di un manuale operaista, il formidabile ciclo di scioperi del 2010, partito dallo stabilimento Honda di Foshan (nella provincia meridionale del Guangdong) e poi allargatosi fino a coinvolgere centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori, ha avuto un ruolo essenziale nel determinare l’avvio della transizione che il Paese sta oggi vivendo. Le lotte operaie sono tutt’altro che terminate (né si può pensare che scompaia la gigantesca struttura manifatturiera allestita negli scorsi decenni); ma queste lotte si collocano all’interno di una congiuntura nuova, in cui l’investimento e la compenetrazione del tessuto produttivo urbano attraverso le nuove tecnologie assegnano un’importanza particolare a quella che in altri contesti si è chiamata l’“economia della conoscenza” e a strati di lavoro cognitivo, essenzialmente giovanile. La domanda fondamentale da porre all’interno di ogni analisi della Cina contemporanea mi pare dunque essere quella relativa alle linee di antagonismo e conflitto che emergono in questa nuova congiuntura. Ed è questa domanda che vorrei tenere a mente anche tornando al movimento di Hong Kong.
In prima battuta, guardando al dibattito all’interno del movimento, i temi della democrazia e della sovranità si presentano indubbiamente come dominanti. Il “suffragio universale”, mai concesso dai britannici in età coloniale, è una rivendicazione di grande importanza (già al centro dello sviluppo del cosiddetto “movimento degli ombrelli” del 2014), inserita in un più generale desiderio di “autogoverno” coniugato con specifiche garanzie giuridiche. Non sembrano particolarmente promettenti in questo senso, tuttavia, le posizioni che si definiscono “localiste”, cresciute dopo la sconfitta del movimento del 2014 (e parallelamente alla crescita della presenza cinese continentale in tutti gli ambiti della vita della ex-colonia). Se da una parte si può certo imputare a queste posizioni (spesso in dialogo con l’indipendentismo diffuso a Taiwan) una sostanziale mancanza di realismo politico, dall’altra viene da chiedersi se valga la pena di lottare per l’indipendenza e la sovranità di un hub finanziario globale, dove i livelli di ineguaglianza sociale sono tra i più alti al mondo. Resta comunque molto forte in tutto il movimento questo desiderio di democrazia e di “autogoverno”. Occorre dunque domandarsi se vi siano le basi per svolgerlo in modo diverso da quel che fanno le posizioni “localiste”.
Possiamo cominciare con il ricordare che negli ultimi anni Hong Kong ha conosciuto un’intensa storia di mobilitazioni e lotte sociali. Ho ricordato il “movimento degli ombrelli” del 2014, preceduto e seguito da una iniziativa continua sul terreno delle rivendicazioni democratiche. Ma occorre menzionare anche il grande sciopero dei portuali del 2013, durato quaranta giorni e in ultima istanza vittorioso. A questo va aggiunto il ruolo essenziale svolto dalla “politica dei poveri” in una città violentemente diseguale, l’auto-organizzazione all’interno dell’economia informale e la lotta continua, sorda, contro gli sfratti in giganteschi quartieri popolari come Sham Shui Po a Kowloon. Questo insieme di esperienze stratificate nel tempo indubbiamente riemerge nel movimento di oggi, segnandone la composizione e i comportamenti. La partecipazione dei poveri e di settori della classe lavoratrice è attestata da molte cronache, ma quel che emerge in modo evidente ascoltando le voci dei protagonisti e delle protagoniste è l’enorme disagio di vastissimi strati giovanili (tanto studenti quanto appena usciti dalle università) di fronte a dinamiche di inedita violenza tanto sul mercato immobiliare quanto sul mercato del lavoro. L’aumento vertiginoso degli affitti spinge migliaia di giovani (non necessariamente “poveri”) a vivere in stanze di pochi metri quadrati ricavate attraverso la divisione degli appartamenti, mentre trovare un lavoro ben remunerato e non precario è sempre più difficile anche per chi ha titoli universitari più o meno prestigiosi.
A me pare che sia questa composizione del movimento di Hong Kong a renderlo particolarmente interessante ai nostri occhi. Attorno alla spinta di settori giovanili che si trovano a far fronte a condizioni materiali sempre più dure, un insieme eterogeneo di soggetti sociali (da settori della classe lavoratrice ai poveri urbani) converge dando vita a un corpo collettivo potente, a un’anomalia capace di riprodursi per mesi tenendo in scacco uno degli hub finanziari più importanti del mondo. Restano certo le bandiere britanniche e statunitensi, restano le posizioni “localiste”: mi guarderò bene dal sostenere che sono un mero “epifenomeno”! Ma certo il quadro è ben più complesso di quello che quelle bandiere e quelle posizioni lascerebbero pensare. E ci vorrebbe una conoscenza ben maggiore del dibattito interno al movimento per comprendere se e come gli elementi che definivo di “eccedenza” vi trovano spazio e articolazione.
Per intanto si può dire che, senza dimenticare la specificità di Hong Kong, dinamiche come quelle richiamate a proposito del mercato immobiliare e del mercato del lavoro interessano senz’altro anche molte metropoli della Cina continentale. A pochi chilometri da Hong Kong, ad esempio, già tre anni fa un articolo del Guardian segnalava a Shenzhen un aumento vertiginoso dei prezzi sul mercato immobiliare, definendolo il più rapido del mondo. È forse proprio qui che deve essere identificato il potenziale punto di risonanza delle mobilitazioni di Hong Kong nella Cina continentale. Un movimento democratico di rivolta impiantato nelle condizioni materiali di strati ampi di giovani avviati al lavoro cognitivo, capace di convergere con i movimenti dei poveri urbani e di altri settori delle classi lavoratrici: può forse essere un’anticipazione, o quantomeno un’ipotesi di lavoro, a proposito delle linee di antagonismo e conflitto che segnano l’attuale transizione cinese. E decisamente non si può negare che questa anticipazione, o ipotesi di lavoro, abbia molto da dire anche a noi.