Di LUCI CAVALLERO e VERÓNICA GAGO
La crisi economica che la pandemia sta portando con sé ha molteplici volti. Uno di questi, fondamentale, è la crisi abitativa. In queste settimane, a grande velocità, molte lavoratrici hanno visto il loro reddito drasticamente ridotto e, sotto forma di nuovi debiti, cominciano ad accumularsi gli affitti e i servizi di base non pagati.
Ciò che è chiaro è che l’imperativo #stiamoacasa come formula di protezione non è così facile da soddisfare per tutte. Le misure adottate dal governo nazionale, come il reddito familiare d’emergenza (IFE), insieme al divieto di sfratto e al congelamento degli affitti, cercano di rispondere a questa situazione. Tuttavia, gli sfratti continuano ad avvenire, a dimostrazione della mancanza di meccanismi per far rispettare queste norme. In questo modo, l’aumento dei debiti legati gli affitti genera quotidianamente situazioni di violenza.
Come sostengono da tempo i femminismi, il debito pubblico, che ha subito un’accelerazione esponenziale negli ultimi quattro anni, si è tradotto in politiche di aggiustamento che si sono riversate sulle famiglie sotto forma di debito privato. Così, insieme all’inflazione e alla conseguente perdita di potere d’acquisto di sussidi e stipendi, si è reso necessario indebitarsi per accedere ai beni più elementari come il cibo e le medicine.
Il debito privato è una bomba a orologeria nelle vite precarie. Oggi, il debito legato al pagamento dell’affitto esprime tutta la sua violenza proprietaria nell’abuso diretto dei proprietari e degli agenti immobiliari che approfittano della situazione critica per minacciare, intimidire, non rinnovare i contratti o sfrattare direttamente le inquiline. Questa situazione è ulteriormente aggravata quando si tratta di donne con bambine, lesbiche, travestiti e trans, traducendosi in forme dirette di violenza di genere.
Ma una simile violenza proprietaria si verifica anche nel mercato immobiliare informale, in cui le case sono stanze d’albergo o stanze in affitto in una baraccopoli o case condivise in insediamenti, dove generalmente non c’è alcun contratto né ricevuta di pagamento, ma i costi e l’adeguamento inflazionistico degli importi sono uguali o superiori a quelli che interessano l’affitto di un piccolo appartamento.
Questi debiti, inoltre, sono destinati a confiscare i redditi futuri fin da ora – che si tratti di stipendi promessi per la fine della pandemia oppure di sussidi – o, più direttamente, costringeranno a contrarre nuovi debiti con i circuiti familiari e informali. Essi diventano un bottino per quegli speculatori finanziari che stanno acquistando il debito per poi pignorare le proprietà.
Non è un caso che i quartieri che oggi fanno notizia a causa dell’aumento esponenziale del contagio siano le baraccopoli della città di Buenos Aires, dove la crisi abitativa è una priorità dell’agenda politica dei suoi abitanti. Nel caso di Villa 31 e 31 bis, nel cuore del centro di Buenos Aires, le organizzazioni sociali denunciano da anni che il governo della città non sta facendo progressi nella reale urbanizzazione di questi territori.
In particolare, l’Assemblea femminista di Villa 31 e 31 bis ha denunciato i meccanismi di sfratto attraverso il debito prodotti dai piani di urbanizzazione, basati su rilocalizzazioni forzate e nuove abitazioni costruite con materiali scadenti, e che sono propagandate come modello di modernizzazione del quartiere.
La stessa Assemblea femminista lo ha detto chiaramente proprio questa settimana spiegando, per esempio, che la raccomandazione “Mantenere la distanza sociale” è impossibile da soddisfare quando ci sono più di 40 mila persone che vivono in una situazione di sovraffollamento, o che la misura di base del lavaggio delle mani è impraticabile quando non c’è stata acqua nel quartiere per una settimana.
Altre compagne esitano a recarsi alle visite mediche per paura di essere sfrattate mentre vanno e tornano dall’ospedale; altre sanno che qualsiasi sospetto sulla loro salute le renderà passibili di ricatto sotto forma di aumento di quanto già pagano, a causa della loro presunta situazione “a rischio”.
Così, al maggior numero di denunce di violenza di genere che sono state sporte dall’inizio della quarantena, si aggiunge la violenza di genere su quante sono tenute in ostaggio dai loro padroni di casa che, sia nel mercato immobiliare formale che informale, speculano in mezzo alla disperazione e all’angoscia, rendendo la vita precaria a livelli insostenibili. Essere inquiline oggi significa essere in debito. Essere indebitate significa essere costrette a forme di lavoro più precarie e, ora, alla violenza domestica si aggiunge la violenza di genere, segnata dall’abuso proprietario.
Sappiamo che per molte il debito è il preludio allo sfratto e, allo stesso tempo, anche il modo per rinviarlo. Per molte persone, perdere la propria casa significa andare direttamente in strada o ritornare in case violente da cui sono riuscite a fuggire. Per molte significa sovraccaricare le famiglie e produrre situazioni di maggiore sovraffollamento e precarietà.
Questa settimana, l’organizzazione Inquilinos Agrupados ha reso pubblico l’aumento delle chiamate degli inquilini che denunciano situazioni di abuso, maltrattamenti e sfratti violenti. Insieme al collettivo NiUnaMenos, hanno dichiarato, in un testo condiviso, che la casa non può essere un luogo di violenza maschile né di speculazione immobiliare perché la casa deve essere un diritto, non un’impresa, e perché oggi non è ovvio che le case siano luoghi sicuri per tutte.
Ancora una volta, la casa è al centro di alcune questioni fondamentali: una de-romanticizzazione del suo essere un luogo di rifugio per tutte come il femminismo ha reso evidente e, allo stesso tempo, che pochi metri quadrati oggi costano quasi quanto l’intero stipendio (o tutto ciò che deve essere fatto per “mettere in insieme” il suo equivalente), a causa di una deregolamentazione immobiliare che permette livelli di redditività eccessivi.
Lo sciopero degli affittuari è una misura che sta guadagnando forza in diverse città del mondo, come parte di una crisi abitativa causata dalla colonizzazione dei terreni e delle abitazioni da parte di grandi fondi finanziari.
Proponiamo quindi un’agenda comune dei femminismi e delle organizzazioni sociali per estendere nel tempo misure pensate in modo transitorio, come il divieto di sfratto, e per esigere e assicurare il loro adempimento in questo momento. Anche l’attuazione di politiche di riduzione del debito per le inquiline e l’urbanizzazione reale dei quartieri, perché il debito non può essere la via per attraversare la crisi e perché non possiamo uscire da questa crisi più indebitate.
(Traduzione di Michele Spanò)
Questo articolo è stato pubblicato su Página12 l’8 maggio 2020. La versione in spagnolo è disponibile qui.