Ogni volta che muore una donna per mano maschile, non posso evitare di sentirmi coinvolto. Sono parte di un ordine sociale in cui la posizione del soggetto maschile risulta dall’accumulazione di secoli di violenza strutturale, che include la possibilità – statisticamente ricorrente – di dare la morte. È un ordine patriarcale, certo. Ma in una società capitalistica è in primo luogo un ordine proprietario. “La morale borghese”, scriveva nel 1921 la dirigente bolscevica Alexandra Kollontai, “con la sua famiglia individualistica ripiegata su se stessa e interamente basata sulla proprietà privata, ha coltivato con grande cura l’idea secondo cui un partner deve completamente ‘possedere’ l’altro”.

Da questo nesso tra patriarcato e proprietà scaturisce la violenza che continua a uccidere donne come Giulia Cecchettin. È una violenza strutturale, vale la pena ripeterlo. Il patriarcato non è, come si sente dire in questi giorni, una diffusa “distorsione” dei rapporti tra i generi o una “malattia del maschio”. Scrive Michele Serra, su Repubblica, che sarebbe ormai una“forma vuota” in Occidente, essendo venuto meno il suo ancoraggio legale. Ma decenni di teoria femminista ci insegnano che il patriarcato è ben lungi dal coincidere con la sua regolazione giuridica, che è piuttosto un sistema materiale di assoggettamento e controllo dei corpi femminili radicato nell’istituto familiare, nella divisione del lavoro riproduttivo, negli immaginari sociali.

Se c’è un fattore che ha contribuito a “svuotare” il patriarcato, sono state le lotte e le pratiche di libertà delle donne. Dove sono state più forti negli ultimi anni, più violenta è stata la reazione. Se si mette in primo piano il nesso tra patriarcato e proprietà privata, si guadagna una prospettiva che consente di coglierne l’ostinata resistenza. Ma si comprende anche come – al di là di interventi “educativi” e di “prevenzione” – sia il consolidamento di lotte, pratiche e comportamenti anti-patriarcali a indicare il terreno su cui le basi materiali della violenza maschile possono essere distrutte. Non è certo questione che riguardi soltanto le donne (o i soggetti “non binari”). La loro pratiche, lo ripeto, sono essenziali: ma altrettanto importante è una sollevazione maschile contro il patriarcato, un rifiuto di massa e radicale della posizione soggettiva che quest’ultimo attribuisce agli uomini – del miserabile privilegio del dominio.

Non una di meno, si è detto in molte parti del mondo dopo l’ennesimo femminicidio. Non è stato sufficiente, e in fondo lo si sapeva. Ma quel grido ha aperto un nuovo terreno di lotta, ha fatto emergere le diverse dimensioni della violenza di genere, ha diffuso il senso di intollerabilità non solo dei femminicidi ma delle basi materiali che li rendono possibili. È venuto il tempo di una massificazione della presenza maschile all’interno di questo terreno di lotta, al di là della semplice “solidarietà”. Mettere in gioco il proprio essere parte dell’ordine patriarcale, impegnarsi “a partire da sé” a sabotarlo e a bloccarne l’operatività, combinare la furia contro la violenza di genere con la gioia generata dalla costruzione di relazioni nel segno della libertà e dell’uguaglianza: nulla meno di questo è necessario.

Tra pochi giorni sarà il 25 novembre, una prima occasione per metterci alla prova.

Sottoscrivono il testo: Giso Amendola, Marco Assennato, Sandro Chignola, Girolamo De Michele, Fabio Gianfrancesco, Alberto Manconi, Sandro Mezzadra, Toni Negri, Ugo Rossi, Marco Silvestri.

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