Report di MARTINA TAZZIOLI della tre-giorni di Lampedusa.
Una Carta per rovesciare le geografie esistenziali e politiche inaccettabili inscritte dalle politiche migratorie, partendo dal presupposto che oggi le politiche di confinamento e di governo della mobilità giocano un ruolo fondamentale nella ridefinizione delle divisioni di classe e dei meccanismi di esclusione. Una Carta che tuttavia non é, solo, una carta: questo l’assunto condiviso da tutti coloro che si sono ritrovati a Lampedusa dal 31 gennaio al 2 febbraio per discutere, rielaborare e sottoscrivere la Carta di Lampedusa; e per iniziare a tracciare i percorsi futuri di lotte, pratiche e campagne di cui questo documento si propone di essere il motore propulsore e al contempo la cornice politica. Un assunto che si traduce immediatamente in un impegno, quello di ragionare su come fare diventare la Carta non semplicemente un manifesto di supporto alle lotte già esistenti ma una piattaforma attraverso cui rideclinare tali lotte alla luce di un “percorso costituente” fondato “sul riconoscimento che tutte e tutti in quanto esseri umani abitiamo la terra come spazio condiviso e che tale appartenenza comune debba essere rispettata”. Si può dire, in effetti, che la Carta di Lampedusa mette in atto fin dal preambolo una geografia rivoluzionata, rifutando di appoggiarsi sulle categorie e i limiti spaziali che strutturano il campo semantico delle migrazioni: spazio nazionale, stato, spazio transnazionale, tutti questi referenti spaziali sono stati volutamente evitati precisamente per non cascare nell’errore di tracciare nuove geografie esclusive, allargando immediatamente la prospettiva allo spazio della terra come spazio condiviso. Ma la Carta di Lampedusa si presenta al tempo stesso come un documento costituente geograficamente e politicamente situato, che nasce dall’esigenza di costruire una pratica politica condivisa, una risposta – evitando di posizionarsi però sull’onda dell’emergenza umanitaria – dopo i naufragi del 3 e dell’11 ottobre in cui hanno perso la vita centinaia di migranti. Per questo la Carta assume “il Mediterraneo come suo luogo di origine e, al centro del Mediterraneo, l’isola di Lampedusa”, prendendo le distanze in tal modo dalla designazione di “euromediterraneo” che nel suo prefisso “euro” racchiude un netto sbilanciamento verso la sponda nord del Mediterrano e la collocazione prioritaria dello sguardo assunto. Quest’ ultimo punto sarà in fondo anche uno dei nodi centrali da cui dovrà passare la discussione comune sulla Carta nelle prossime fasi, quando si tratterà di meglio configurare il piano su cui andare a costruire convergenze con lotte e collettivi al di fuori dell’Italia: a questo proposito nell’assemblea conclusiva di domenica si sono cominciate a individuare alcune strade possibili per costruire un percorso su scala europea – grazie essenzialmente agli interventi del gruppo tedesco Welcome to Europe e dei migranti del collettivo Lampedusa in Hamburg – orientandosi in particolar modo verso la marcia dei sans-papier prevista nei mesi di maggio e giugno che da piú parti d’Europa dovrebbe confluire a Bruxelles, in occasione delle elezioni europee e culminare con una protesta-occupy le sedi dell’Unione europea. Per quanto riguarda invece la connessione tra le due sponde del Mediterraneo é stato Imed Soltani, tunisino rappresentante dell’associazione La terre pour tous e di tutti i genitori e familiari dei migranti tunisini dispersi, a sottolineare come la retorica della vicinanza tra sponda nord e sud si rifletta in realtà nell’impossibilità per molti tunisini di partire senza rischiare la vita in mare e comporti, come segnalato nella Carta, “la sparizione dei corpi, imponendo forme di affetto e lutto dimezzate per parenti e amici”. La lotta delle famiglie tunisine ci suggerisce in fondo che una campagna per l’abolizione della politica dei visti, a cui la sezione Libertà di movimento della Carta fa riferimento, rappresenterebbe una mossa concreta per provare a ribaltare proprio quelle geografie esistenziali inaccettabili imposte dalle politiche migratorie che la Carta sottolinea. E il vertice euromediterraneo dei ministri che probabilmente si terrà in Italia a fine estate potrebbe essere uno dei momenti per iniziare una contestazone concertata delle politiche di mobilità selezionata sempre piú promosse negli accordi di vicinato tra i paesi delle due sponde. Il primo appuntamento che i partecipanti alle giornate della Carta hanno individuato é quello del primo marzo, con una serie di azioni sul territorio convergenti verso un obiettivo unico e molto preciso: quello dell’ “immediata abrogazione dell’istituto della detenzione amministrativa e la chiusura di tutti i centri, comunque denominati o configurati, e delle strutture di accoglienza contenitiva”.
Smilitarizzare il Mediterraneo e sottrarre Lampedusa al ruolo di isola di frontiera: questi forse, i due punti che maggiormente qualificano la Carta e che vengono rimarcati anche dall’associazione di Lampedusa Askavusa, che tramite l’intervento di apertura di Giacomo Sferlazzo ribadisce la necessità di inscrivere piú esplicitamente la questione migrazioni all’interno del funzionamento dell’economia attuale. Inoltre, se da un lato il ruolo di Lampedusa frontiera dell’Europa e la marginalizzazione dell’isola devono indubbiamente cessare, il collettivo di Askavusa sottolinea l’importanza di porre la questione della militarizzazione su scala nazionale e soprattutto mediterranea ed europea. Anche le donne di Lampedusa hanno messo in luce come la logica di confine e la militarizzazione impatti non solo sulle vite dei migranti ma anche su quella degli isolani, proponendo di convertire invece le risorse impiegate per spese militari nella costruzione di infrastrutture locali. “Smilitarizzazione”: questo il titolo di una delle sezioni della Carta su cui potrebbero nascere alleanze nei prossimi mesi tra i vari gruppi e anche tra le due sponde del Mediterraneo; in particolare tenendo conto del movimento NoMuos siciliano e dei piccoli collettivi che si formeranno a partire dalla Carta, tra cui un gruppo di donne e un gruppo che lavorerà alla produzione di una contro-mappa del Mediterraneo che si propone di rappresentare quello spazio per come é stato trasformato dai processi di militarizzazione. Tra questi vale la pena ricordare l’operazione Mare Nostrum lanciata dal governo italiano il 18 ottobre scorso, come risposta “militare-umanitaria” alle morti in mare e guidata dalla Marina Militare e la missione europea EUBAM in Libia che prevede l’addestramento di militari libici da parte delle forze italiane.
“La Carta di Lampedusa non é una proposta di legge o una richiesta agli stati o ai governi”. Una Carta che parte innanzitutto, come era stato stabilito negli incontri preparatori, da alcuni rifiuti, da alcuni “no” su cui si sono poi definite le adesioni di chi si riconosceva nel progetto della Carta: no prima di tutto a qualunque proposta di riforma dei Cie, e poi, tra gli altri, no al regolamento di Dublino II, no al discorso umanitario con cui vengono presentate le operazioni militari di Mare Nostrum, e no alle politiche di esternalizzazione dell’asilo. Su questo punto fondamentale c’é stato un consenso transversale, anche se poi nella discussione sulla seconda parte, quella che si propone di fare i conti con la realtà esistente delle politiche migratorie, il linguaggio si é spostato maggiormente sul piano dei diritti, di nuove forme di cittadinanza e di pratiche alternative di accoglienza reinscrivendosi in parte all’interno di un framework nazionale. Tuttavia, anche in questo stare sul terreno dei meccanismi effettivi di esclusione e confinamento la Carta é riuscita a non inscrivere il proprio discorso nella geografia esclusiva disegnata dalle politiche migratorie, fondata essenzialmente sul partage tra migranti economici e rifugiati, rifiutando inoltre ogni settorializzazione del problema (ad esempio tra politiche del lavoro, di asilo e di accoglienza). Al contrario, tutte le instanze relative asilo, lavoro e accoglienza, così come detenzione sono distribuite nel testo della Carta e riconfigurate sotto forma di “libertà di”: il lavoro, ad esempio, diventa tema centrale di alcune lotte per la “libertà di restare” che “non può in alcun modo essere subordinata allo svolgimento di attività lavorativa riconosciuta e autorizzata sulla base delle necessità del mercato del lavoro”. E insieme, il lavoro ricade anche sotto “libertà di movimento”, come nodo critico delle attuali politiche da contestare che legano le condizioni di ingresso sul territorio.
Senza essere un testo di legge e senza voler giuridicizzare ogni aspetto delle pratiche di mobilità, la Carta riconosce comunque la differenza in gioco tra migrazioni per necessità, legate ad esempio allo scoppio di conflitti, e altre modalità di migrare. Come aggirare dunque le procedure selettive della protezione internazionale che peraltro costringono le persone ad attraversare il Mediterraneo per fare domanda di asilo negli stati europei? “Percorsi di arrivo garantito” é stata la formula scelta per rovesciare l’esternalizzazione dei diritti e indicare il piuttosto diritto di chi migra per necessità di fare domanda di asilo in Europa stando nel paese in cui si trova per essere immediatamente trasferito con un mezzo sicuro in quello stato. Il campo di Choucha in Tunisia al confine con la Libia potrebbe essere un luogo concreto da cui partire per fare appello agli stati e all’ Unione europea affinché i migranti di Choucha vengano immediatamente reinsediati in Europa, senza distinzione alcuna tra rifugiati diniegati della protezione internazionale d UNHCR e gli altri.
Tra le altre pratiche di rovesciamento proposte e effettuate dalla Carta che merita menzionare vi é senza dubbio anche una rivoluzione nominale, o se non altro un tentativo di resistere, dove possibile, alla traduzione delle pratiche di movimento in flussi migratori da uno stato di origine a un paese di arrivo: tutti e tutte, persone, esseri umani, sono i termini spesso impiegati nel testo per indicare i soggetti di questa Carta.
Infine, un ribaltamento della stessa idea di spazio che solitamente si presuppone quando si fa nostro il linguaggio delle politiche migratorie. Infatti se spazio pubblico e spazio privato costuiscono la cornice entro cui solitamente avvengono le rivendicazioni per i diritti dei e delle migranti, la Carta di Lampedusa afferma al contrario la necessità di slegare il concetto di spazio “da ogni logica di proprietà e privatizzazione, inclusa quella propria della tradizione degli stati nazionali”; principio sufficiente per sostenere “la libertà di ogni essere umano di scegliere il luogo in cui abitare”.