di GIROLAMO DE MICHELE.
a proposito di: Wu Ming 1, Un viaggio che non promettiamo breve. Venticinque anni di lotte No Tav, Einaudi Stile Libero, Torino 2016, pp. 654
1. L’origine politica dell’infelicità
In un testo scritto nel 2014, Mark Fisher, un intelligente e acuto compagno inglese che da poco è mancato e che a lungo ci mancherà, descriveva il doppio vincolo che attanaglia i disoccupati inglesi – «per tutta la vita è stato detto loro che sono dei “buoni a nulla” e allo stesso tempo possono fare qualsiasi cosa vogliano» – come un dispositivo di depressione collettiva indotto dal potere:
Questa depressione si manifesta nella convinzione (indotta) che la situazione peggiorerà (per tutti, eccettuata una piccola élite), che siamo fortunati ad avere un qualsiasi posto di lavoro (quindi non dobbiamo aspettarci, per esempio, una dinamica salariale che stia al passo con l’inflazione) e che non possiamo pretendere uno stato sociale pubblico e universale. La depressione collettiva è il risultato del progetto di re-subordinazione messo in opera dalla classe dirigente contemporanea. Per qualche tempo, abbiamo accettato l’idea che non eravamo il tipo di persone che possono muoversi, agire. Non per una mancanza di volontà, ma perché la ricostruzione della coscienza di classe è un processo assai arduo, e la soluzione non può essere preconfezionata (Mark Fisher, Buono a nulla).
Fisher apparteneva a quella rara e straordinaria comunità intellettuale composta da coloro che riescono, a partire dalla propria sofferenza, a fare del personale un fatto politico: come David Foster Wallace o Ian Curtis, per intenderci. La depressione, scrive Fisher (riferendosi alle ricerche di David Smail sull’origine politica dell’infelicità), è il prodotto di indelebili impronte di classe:
Chiunque si muova fuori della sfera sociale cui è destinato è sempre in pericolo di essere soverchiato da sentimenti di vertigine, di panico e di paura: «isolato, tagliato fuori, circondato da uno spazio ostile, siete improvvisamente senza collegamenti, senza stabilità, senza nulla che vi sostenga; la vertiginosa, nauseante irrealtà prende possesso di voi; vi sentite minacciato da una totale perdita di identità, un senso di dolore assoluto; non avete il diritto di essere qui, ora, di abitare questo corpo, di essere vestito in questo modo; siete una nullità, “niente” è esattamente ciò che si sente di diventare».
Nondimeno, lo stesso impianto analitico di Fisher – una raffinata combinazione di spinozismo e teoria desiderante alla Deleuze-Guattari – si nega a una conclusione negativa. E infatti l’arduo processo di ricostruzione della coscienza di classe, «a dispetto di ciò che la nostra depressione collettiva ci indica, si può fare. Inventare nuove forme di coinvolgimento politico, facendo rivivere istituzioni che sono diventate decadenti, convertendo la disaffezione individuale in rabbia politicizzata: tutto questo può accadere. E quando accade, chi lo sa che cosa può succedere?».
Come attuare questa bozza di programma?
2. Narrare le lotte
Una risposta ci arriva dalla Val di Susa, attraverso la narrazione delle sue lotte che ci offre Wu Ming 1. Un libro-inchiesta, di conricerca vecchia maniera, col culo in terra, questo Un viaggio che non promettiamo breve: che è al tempo stesso una non-fiction autopoietica sul farsi di un libro sulle lotte No Tav senza ricadere nelle spire dell’io, il più lurido di tutti i pronomi; un saggio di sociologia della comunità valsusina come modello di comunità inclusiva, o “di cura”; e un frammento, interno a un discorso più vasto, di comprensione politica di alcune dinamiche della modernità liquida, in particolare di quelle che pongono al proprio centro una critica del concetto di tempo.
Niente male, per uno autore collettivo – anche se “solista”: perché ogni individualità è sempre un collettivo – che era stato definito “scrittore di romanzetti pseudo-storici e d’avventura” da un qualche critico emerito di poco merito, del quale ora come ora non mi sovviene il nome…
Volendo isolare, in modo artificiale, il tratto letterario, il Viaggio di WM1 è la narrazione di come si fa una narrazione: «In quell’estate del 2016, mi stavo ancora chiedendo come scrivere il mio libro. E intanto, lo avevo scritto» (p. 611). Come evitare il rischio di un’ipersoggettivazione che divora gli eventi, incombendo dall’alto come una stalattite sulle vite sottostanti? Evocando un Maestro che, pur essendo al cuore del libro, è fuori dal libro, e pur essendone fuori lo orienta e ne fornisce la conclusione. Se non che, «la conclusione non è nel testo, ma è cronologicamente e spazialmente giusto davanti al romanzo, che come un’antenna satellitare fa convergere una miriade di raggi di luci, voci o informazioni su quella soluzione centrale senza mai toccarla» (Christopher Hager, On speculation: Infinite Jest and the American Fiction after Modernism). Il Maestro è H.P. Lovecraft, con quale l’autore intraprende un intenso dialogo epistolare, nel corso del quale Lovecraft spiega che il mostro che assedia la Valle, l’Entità o Cronos
Può morire. Deve morire. Ma non nel Suo libro. Se l’entità è il progetto della Torino-Lione, morirà quando morirà il progetto. Ma nel momento in cui Lei consegnerà il libro, la lotta sarà ancora in corso. Non che la cosa mi riguardi direttamente, dato che sono morto da ottant’anni. Ma mi diverte (p. 579).
Ma l’astrazione del letterario sarebbe, per l’appunto, un’artificio, perché questa narrazione assume la struttura dell’inchiesta, della conricerca condotta sul campo e nella Valle, usa i mezzi della cooperazione fra soggetti differenti per ruolo e conoscenze in situazione, all’interno del contesto da indagare: «la ricerca stessa si muove dentro una realtà, formata, strutturata, ed ancora gerarchica e centrica perché la rete sta nel sistema e non viceversa» (Romano Alquati, Per fare conricerca). Ed essendo interna alla realtà indagata, l’inchiesta non è neutra: dunque si schiera in favore della resistenza che sta indagando, «secondo certi desideri ed una certa progettualità di liberazione e cosi sempre costitutiva, di nuovo e di diverso, di alterità (e per la resistenza del presente può essere costretta all’antagonismo)». Conricerca col culo a terra e il piede nelle Valli di Susa («al plurale: e non è solo questione di geografia»): ma senza mai commettere quell’errore epistemologico, dunque politico, di chi confonde l’inchiesta con la militanza, e finisce per ritrovare nell’oggetto indagato quella tendenza che esiste nella propria mente e nei propri schemi.
In tempi nei quali alle sensate esperienze taluni preferiscono andare alla ricerca della conferme dei propri sacri testi, fantasticando di allucinatorie proletarizzazioni populistiche dove la classe diventa “il popolo che s’è rotto i coglioni”, confondendo la ruggine dei propri neuroni con la Rust Belt e facendo dell’operaio del Wisconsin the new black casalinga di Voghera; in questi tempi confusi e un po’ gaglioffi, WM1 ci restituisce non solo la solida sostanza di volti, corpi, parole materializzate di una moltitudine di attivisti e valligiani, di oggi – da Nicoletta a Maurizio, da Filippo a Chiara e Marianna – e di ieri – da don Foglia ad Ada Gobetti. E ci ricorda l’importanza che forme di lotta sottovalutate e sottostimate, perché più carsiche e di lunga durata – «la nostra è una presenza come quella dell’acqua quando scorre in un ruscello, vedi e non te ne accorgi, però quell’acqua lì sta limando» (p. 478) – come i movimenti non violenti, le lotte per l’obiezione di coscienza, l’attivismo cristiano che a volte nelle lotte “scavalcano a sinistra” anche i militanti più politicizzati.
Fare conricerca significa rendere non solo la composizione di classe, ma le mille koinè che s’intersecano nelle Valli di Susa: «perché la valle era cattolica, ugonotta, eretica, ortodossa, italiana, occitana, urbana, montanara, contadina, industriale, guerrigliera, nonviolenta, rossa, bianca, mistica, anarchica, sempre animata da sincretismi» (258). D’altronde, «la valle non aveva schemi, modelli o piani di battaglia da proporre. Nemmeno Askatasuna aveva mai preteso di riproporre a Torino l’approccio adottato sette leghe più a ovest, un solo balzo del gatto con gli stivali» (p. 250).
Questi concatenamenti spiegano la forza del movimento No Tav, ma anche la debolezza di chi, credendo di poter saltare oltre il «duro e paziente lavoro» del movimento, ha creduto di risolvere il rompicapo del presente “facendo come in Val di Susa”, o praticando quel “turismo rivoluzionario” (il valsusismo) che finisce per «andare a contrastare la Torino-Lione e [ignorare] un’altra lotta No Tav a due passi da casa, o un progetto di grande opera inutile nel cuore della propria città».
La forza del movimento valsusino sta tutta nell’aver «fatto leva sulle peculiarità storiche, geografiche e sociali del proprio ambiente», che possono servire da ispirazione, «ma solo se ciascuna realtà avesse riscoperto il proprio passato, fatto riemergere le contraddizioni sepolte che continuavano a smuovere il terreno sotto i piedi» (p. 250).
Una forza che si estende sincronicamente, nello spazio di comunità, e diacronicamente, nella riappropriazione del proprio tempo.
3. Un antidoto alla comunità del rancore
Non può lasciare indifferenti la rete di solidarietà che ha sempre irretito e sostanziato la qualità delle relazioni nella valle. La solidarietà che permette di respingere, tutti insieme, gli attacchi contro ogni singol@ valsusin@ – da Nicoletta Dosio al barbiere di Bussoleno, dai nemici del compressore fino a Thomas Müntzer, inopinatamente chiamato in correità dal giudice Padalino – è la stessa che si stringeva attorno ai partigiani della resistenza, o ai militanti di Prima linea a cavallo degli anni 70/80: «Anche nella fase più cupa dell’emergenza terrorismo, quel territorio non aveva lasciato solo nessuno. Il Comitato parenti, famiglie e compagni dei detenuti della Valle di Susa era stato una presenza legittima circondata di solidarietà» (p. 236). La Valle è un esempio concreto di quella che Aldo Bonomi, nella sua tipologia delle comunità – o meglio, del “desiderio di comunità” – chiama comunità di cura, contrapposta alla comunità del rancore, cioè «un meccanismo in cui si dà cura nella prossimità e nella fraternità dentro i grandi processi di cambiamento. Una concezione della comunità imperniata sulla fragilità dei soggetti e nel riconoscersi nella sofferenza di prossimità dell’altro», e che affianca la comunità operosa «che prende corpo nella ristrutturazione dell’apparato produttivo, nella scomposizione del diamante del lavoro, nell’esplosione delle forme tradizionali di solidarietà e di mutualità» (Aldo Bonomi, La società circolare).
Ma la distruzione della comunità tradizionale (e quindi il suo desiderio) non produce solo le esperienze delle comunità di cura e operosa «intrecciate nella visione di un altro mondo possibile basato sul riconoscersi in una comunità di destino resiliente, ma anche comunità rinserrate nel rancore, resistenti al cambiamento e senza futuro, spesso inchiodate alla difesa del presente, immunizzate dal passato». Queste ricerche sul campo, Bonomi le va producendo da quasi un decennio, a partire dal suo Il rancore. Alle radici del malessere del Nord del 2008 (davvero chi ha creduto essere i processi di proletarizzazione rancorosa una “recente scoperta archimedica” dei “salotti di sinistra scandalizzati da Brexit e Trump”, riconducibile al campo discorsivo del “radicalismo bobo“, ha perso parecchi colpi, e soprattutto chiavi di lettura, nella sua rincorsa all’ultima teoria politica à la page).
Col linguaggio della teoria delle passioni, Mark Fisher non diceva cosa diversa, tre anni prima del voto sulla Brexit:
È necessario, prima di tutto, identificare i tratti distintivi dei discorsi e desideri che ci hanno condotto a questa torva e demoralizzante condizione, nella quale la classe è scomparsa e la solidarietà è impossibile, mentre il moralismo è ovunque e senso di colpa e paura sono onnipresenti: e non perché siamo terrorizzati dalla destra – perché abbiamo permesso ai modi borghesi di soggettivazione di contaminare i nostri movimenti (Mark Fisher, Exiting the Vampire Castle).
Detto per inciso, ma non per caso: il riflesso pavloviano che suscita in taluni il tema spinozista e materialista delle passioni, se per un verso ignora (o finge di…) il trentennale lavoro di costruzione di un’antropologia materialistica in luogo di una delle più fragili tematiche dell’ortodossia, quella dell’ideologia come rispecchiamento (alla quale sono condannati questi critici dogmatici); per altro finisce per far collassare l’una sull’altra l’odio di classe, che è una figura dell’indignazione, sul rancore, che è una figura del risentimento; la rabbia verso lo sfruttatore dei piani alti e la rabbia verso lo sfruttato della porta accanto. Davvero per costoro tale comprensione sembra impedita: da cosa? Gruppettarismo a conduzione familiare o sclerotizzazioni paleotrontiane? Concrezioni staliniane o sovranismo in salsa rosso-brunoise? O, più umanamente, il conato astioso e perverso di “regolare i conti” che sovradetermina l’intelligenza del presente rendendola insipiente?
A chi fraintende o sottostima il carattere politico delle passioni sarà a maggior ragione negata la comprensione della natura intrinsecamente politica della felicità e della gioia che in ogni forma di lotta si manifesta in Val di Susa e si respira nelle pagine di questo Viaggio. E che collide con le logiche della militanza come austera e un po’ tetra subordinazione, senza gioia ma con tanto sacrificio e disciplina, della propria coscienza infelice a un imperativo categorico (una cosa sempre molto pretesca e un po’ tribunalizia che va dai tribunali della ragione a Vysinskij): il che ricorda l’idea che il comunismo consista nello «stare in piedi su una zolla di terra a sudare piscia e sangue» (Rosso, n. 14, 1975), e ancor più alla pratica di dividere i fedeli alla linea (ribattezzati “militanti”) dai marginali “attivisti” in odore di nichilismo. Un distinguo crociano inapplicabile all’entusiasmo dei valsusini, «questa condizione essenziale che li [porta] a mobilitarsi e sentirsi protagonisti» (p. 219), ciascuno secondo le proprie capacità e i propri mezzi.
4. Batti il tuo tempo
Vivere all’interno del proprio spirito del tempo è, non a caso, uno delle concessioni al postmodernismo di cui si renderebbero colpevoli i militanti. Sarà… ma proprio l’esperienza della Valle dimostra che stare all’interno del proprio tempo può essere un’esperienza resistente: o forse è l’esperienza resistente che consente di comprendere cosa significa stare dentro lo spirito del proprio tempo? Il movimento No Tav, ci dice WM1 accompagnandosi a Walter Benjamin (Benjamin e Lovecraft uniti nella lotta, why not?), è un movimento che si è riappropriato del tempo entro cui vive:
Ecco cosa gli avversari e i denigratori della lotta No Tav non riuscivano né sarebbero mai riusciti a capire. Il movimento si era preso il proprio tempo. Non solo se l’era preso, ma lo faceva retroagire sul passato, sulle storie e le genealogie, sulle ascendenze in precedenti cicli di lotte (p. 180).
I tempi: rifiutarne l’eterodirezione, contestarli, rallentarli. La lotta «riattiva le memorie, soffia via la polvere dai fogli, sblocca la scrittura della storia» (p. 216): costruisce il legame fra il movimento operaio degli anni Settanta e il movimento No Tav, a prima ancora con le lotte dei decenni passati, prima e dopo la Resistenza. È stato detto che la politica non si costruisce sui NO, ma sul desiderio: il movimento No Tav afferma un NO che è pieno di SI – uno per tutti: a una vita degna di essere vissuta –, e produce il proprio campo sociale entro il quale è soggetto attivo non solo delle relazioni, ma della stessa temporalità, e con essa della memoria – che quella produzione di produzioni che Deleuze e Guattari chiamano “desiderio”, dove non si desidera mai da soli. In questa produzione di memoria, con le parole di Walter Ferrari e Daniele Pepino,
Le “libere repubbliche” di oggi e dell’altro ieri non [vanno] intese come “impossibili isole felici in un mondo marcio”, ma come “coni d’ombra” nelle mappe del dominio “in cui praticare autonomia e sperimentare libertà”, “roccaforti di resistenza e di alternativa, per liberare le retrovie indispensabili all’attacco” (p. 182).
Nella società della modernità liquida, scriveva Bauman, «il tempo è puntillistico, ossia frammentato in una moltitudine di briciole separate, ciascuna ridotta a un punto che sempre più si avvicina all’idealizzazione geometrica dell’assenza di dimensione», ciascuno dei quali «potrebbe essere pregno dell’occasione di un nuovo “Big Bang”». È su questo dispositivo temporale, imposto come un fatto, che si fonda l’ideologia delle grandi opere, del fare, della “distruzione creativa” che impone la dittatura “dell’adesso”:
Precisamente per questa ragione la vita “dell’adesso” tende a essere una vita “di corsa”. Nella vita “dell’adesso” condotta dagli avidi consumatori di nuove Erlebnisse (ossia di esperienze vissute), la ragione di affrettarsi non è la spinta ad acquistare e acquisire, ma a scartare e sostituire (Zygmunt Bauman, Vite di corsa).
«”Non credete all’ormai“, si era raccomandato lo scrittore Luca Rastello poco prima di morire. Perché in ultima istanza, quando il resto falliva, c’era il ricatto dell’ormai» (p. 10). L’ormai e l’adesso sono due dei dispositivi che la società delle norme utilizza per esercitare la produzione e il controllo dei processi di assoggettamento.
Riappropriarsi del proprio tempo significa farsi una memoria decidendone i contenuti da recuperare, contro l’imposizione dell’ormai: ormai tocca finirla, ormai si è andati troppo avanti… Riappropriarsi del proprio tempo significa destrutturare il dispositivo “dell’adesso”, esperire il tempo come possibilità, ossia secondo la propria potenza, e non come un fatto. Significa produrre il proprio campo sociale, le pratiche di soggettivazione, la forma delle relazioni e delle norme che in esso si giocano. Significa, di nuovo con Mark Fisher, inventare nuove forme di coinvolgimento politico, convertire la disaffezione individuale in rabbia politicizzata: Batti il tuo tempo, cantavano gli Onda Rossa Posse.
Nel maggio 2015 Mark Fisher aveva redatto un breve elenco di azioni per «usare le risorse scarse che abbiamo in modo più efficace se lavoriamo insieme con pratiche collettive di riabilitazione»:
1. Parlare ad altri precari di come ci sentiamo. Questo consentirà di re-introdurre la cura reciproca e l’affetto in spazi intesi solo per essere competitivi e isolati.
2. Parlare agli oppositori.
3. Creare occasioni di diffusione e scambio dei saperi.
4. Creare spazi sociali.
5. Usare i social media in modo pro-attivo e non reattivo.
6. Generare nuove figure di sdegno nella nostra propaganda.
7. Impegnarci in forme di attivismo che mirino alla distruzione logistica del capitale.
8. Sviluppare lotte strategiche.
(Mark Fisher, Abbandonate ogni speranza (l’estate sta arrivando)).
9. Non credere all’ormai, 10. Non cedere all’adesso potrebbero essere il coerente completamento del decalogo: se ci ragionate un minuto, vi accorgerete che sono tutte in atto in Val di Susa. E sono tutte raccontate in questo libro che non finisce, perché la lotta non è finita finché l’Entità non è sconfitta: We’ve got to fulfil the book.