Di MARIA TERESA ANNARUMMA

Avendo vissuto per periodi della mia vita all’estero, mi è capitato di accogliere amici di altri paesi che sceglievano Napoli per le loro vacanze e cercavano qualche dritta sulla città. Spesso, però, mentre passeggiavamo per il centro storico, allo stupore per le ricchezze del patrimonio artistico e la vivacità delle strade si accompagnava e accompagna un’osservazione: bella città, ma troppi graffiti ovunque.

Ho scelto di iniziare questo racconto per immagini con questa esperienza perché, nonostante cammini quasi quotidianamente per le strade del centro, non mi ero mai resa conto di questo fenomeno: non avevo notato le migliaia di iscrizioni, tag, graffiti e stencil in città e, soprattutto, quanto crescessero costantemente di numero, creando una macchia confusa nel panorama urbano a cui lo sguardo si abitua, come fanno le orecchie con i rumori costanti e la confusione che caratterizza la mia città.

Inevitabilmente, la mia attenzione a questo fenomeno è cresciuta e, allo stesso modo, non ho potuto fare a meno di notare che il loro affollamento fosse proporzionale all’affollamento turistico del centro di Napoli, quasi come se crescessero al crescere dei visitatori.

È ben noto il boom turistico che sta coinvolgendo molte città italiane e in particolare Napoli (gli sbarchi all’aeroporto di Capodichino sono passati dai 5 milioni del 2014 agli oltre 12 milioni del 2023), ma se è vero che lo spazio che abitiamo si relaziona con le persone antropomorfizzandolo grazie alle relazioni intersoggettive[1], questa accumulazione visiva di immagini e simboli, può essere correlata “all’invasione turistica”?

Napoli, come un corpo umano, sta reagendo con una reazione cutanea allo stress del turismo che si manifesta sulle sue mura-derma con questa miriade di segni, graffiti e murales?

Possiamo parlare di una reazione sociale, la cui lettura può avere diversi piani narrativi oltre a quelli di cui siamo soliti parlare in tema di graffiti? È possibile includere fra questi una lettura storica legata ai comportamenti che i partenopei hanno avuto di fronte al susseguirsi delle diverse dominazioni (e quindi anche di quella turistica)?

Certo, ci troviamo di fronte a fenomeni contemporanei e vanno letti sotto questa lente, anche se disegnare sui muri è una pratica antica: se ne trovano tracce in reperti archeologici preistorici, così come nella vicina Pompei, un uso che ha caratterizzando costantemente la vita delle comunità nel corso dei secoli. Tuttavia, credo che negli ultimi anni Napoli abbia prodotto dinamiche specifiche che fanno nascere quesiti interessanti, forme di resistenza individuale così come di speculazione parassitaria che possono rivelare la complessa relazione che i napoletani hanno verso la propria città ed in particolare il centro storico, da sempre fulcro di battaglie sociali e di tentativi di speculazione. Comportamenti che possano andare oltre l’esame specifico e ispirare riflessioni più generali sul futuro delle città e soprattutto delle dinamiche sociali ed economiche dei loro centri.

Il centro storico di Napoli, ha una storia che parte dalla fondazione della città in epoca greca, ma ha avuto infinite traversie identitarie e superato tentativi di sventramento che per miracolo lo hanno portato a rimanere quasi immutato nella sua struttura urbanistica. Ci sono stati vari i progetti di speculazione, così come vario è stato il sentimento dei napoletani verso il centro storico cha ha subito decenni di disinteresse e svalutazione: cuore delle battaglie sociali dei movimenti degli anni ’70, ha vissuto anni di degrado, atteggiamento cambiato solo dalla metà degli anni ’90 con politiche comunali (e non solo), che hanno scelto di tutelarlo e promuoverlo come centro di arte e cultura.

Si tratta di un centro storico in cui ci sono sedi universitarie (e quindi molti studenti) e vivono ancora moltissimi abitanti di ogni classe sociale, un’area enorme con strade strette e centinaia di monumenti e musei importanti.

La vita di Napoli guarda da lontano il mare e i boulevard immaginati a fine ‘800 così come da lontano la maggioranza della borghesia si arrocca nei quartieri alti[2], mentre la vita si concentra in queste strade strette e spesso buie dove il turismo si affolla, cercando la Napoli vera, o quella che immaginano come tale.

A questa domanda dei turisti, i napoletani non si esimono e assecondano ogni stereotipo che possa accontentarli e portare guadagno. Come diceva Pino Daniele “Napule è tutto nu suonno e a’ sape tutto o’ munno, ma nun sanno a’ verità”[3] (Napoli è tutto un sogno, la conosce tutto il mondo ma non conoscono la verità).

Si, perché un’attitudine tipica è quella del generico disprezzo del “governo”, ma con una limata propensione ad assecondare il potere economico, politico o anche popolare/populista (da parte dei politici o poteri economici) sempre per ottenere benefici, che spesso in verità, si rivelano molto temporanei. Persino la rivolta di Masaniello del 1647 contro le tasse degli Asburgo di Spagna, era mossa dal motto “Viva ‘o Re ‘e Spagna, mora ‘o malgoverno” (nel senso di vediamo di migliorare la nostra situazione ma per il resto “viva il Re”).

Quindi, anche quando si parla degli effetti negativi del turismo di massa in città, c’è un doppio atteggiamento: una parte di napoletani, che vivono da sempre di attività saltuarie per via della scarsità di lavoro endemica, si è lanciata in un generico assalto al turista (nei limiti delle possibilità di ciascuno), fra bancarelle, ambulanti e case vacanza, mentre un’altra parte, economicamente più fragile, si ritrova in serie difficoltà con il rincaro dei prezzi e gli sfratti che avanzano.

In realtà in questo scenario non ci sono vincitori: in entrambi i casi, (sia di chi sfrutta il momento, sia di chi per il rincaro dei prezzi e gli sfratti non riesce più a vivere il centro) credo siano sempre i napoletani le vittime di una politica miope che non ha immaginato (fino ad ora) possibilità per rendere sostenibili le due realtà ed è incapace di ipotizzare un futuro ed un presente che non sia solo un adeguarsi agli eventi: nel primo caso, si naviga alla cieca, senza regolamentazioni (e quelle poche che ci sono, non sembrano aver sortito effetti) cercando di approfittarne finché possibile, e magari vendere alla prima multinazionale che arriverà, nel secondo caso  si lasciano i cittadini nel completo abbandono ed il centro storico nelle mani degli speculatori.

E denare fann venì ‘a vist‘è cecate [4] (i denari fanno venire la vista ai ciechi)

Certo, le multinazionali legate al turismo si stanno avventando, ma come una recente indagine di Fanpage ha dimostrato[5], anche i napoletani, non solo borghesi, si stanno attivando: si vedono sempre più “bassi” o addirittura case comunali e popolari come case vacanze (gli abitanti le lasciano per fittarle illegalmente ai turisti per poi trasferirsi in periferia)  oppure piccole realtà locali (salumerie, trattorie) che, visto l’aumento esponenziale degli incassi, stanno adeguandosi ai turisti alzando i prezzi[6].

Un esempio di queste dinamiche economiche è il famoso murales di Maradona che, nonostante fosse presente nei quartieri spagnoli dal 1990, solo negli ultimi anni con il boom turistico, ha generato un mercato abusivo che occupa l’intera piazza antistante oltre a centinaia di gadget illegali (senza autorizzazione della famiglia del calciatore) venduti ovunque soprattutto, se non esclusivamente, ai turisti. Questo caso, ma altri ancora, vedono i murales come mezzo per attirare turisti in cerca del pittoresco e vendergli cibo o gadget.

“I p’ me e tu p’ te” (io per me e tu per te) canta Geolier, quasi a sintetizzare in una canzone d’amore un atteggiamento che vede primeggiare storicamente l’io.

Questa è una delle tante espressioni della relazione ambigua che da sempre i napoletani hanno con la loro città: certo, le speculazioni edilizie degli anni ’60 e ’70 venivano dalla borghesia, ma il centro storico è da sempre uno spazio fagocitato dai suoi stessi abitanti, sfruttato e raramente rispettato dove, se nei noti esempi di centri sociali si professano i beni comuni, la stragrande maggioranza dei cittadini non si interessa a questi temi.

Spesso, si sente parlare di Napoli come di una città anarchica, ma nella realtà, nel vivere quotidiano e nella sua storia, l’interesse per il bene comune e la crescita collettiva non è un valore, e la dimensione associazionistica ha sempre vissuto vicende alterne, non riuscendo mai ad affermarsi socialmente, rimanendo un campo frequentato da una minoranza di intellettuali o attivisti, come nel caso storico ed emblematico del tragico epilogo della Repubblica Napoletana[7].  Ogni angolo è preso d’assalto da un cannibalismo predatore, a partire da una pratica comune di appropriazione dello spazio pubblico di fronte al basso in cui si vive, fino ai locali commerciali che occupano abusivamente marciapiedi e strade.

Tutto ciò, sta creando un malessere sociale ed economico diffuso e credo che l’esplosione di graffiti e murales, nelle loro diverse tipologie, possa essere sia espressione di questo “individualismo culturale”[i] sia espressione del rapporto antagonista dei napoletani verso la cosa pubblica, in questo momento di esplosione turistica: una necessità di esprimersi e farsi ascoltare che cerca spazio sule mura, sotto lo sguardo distratto dei cittadini e dei turisti.


[i] in realtà si tratta solo di una percezione di individualismo in quanto l’azione di ciascuno è sempre frutto anche dei condizionamenti sociali

Ogne cap è ‘nu tribbunale[8] (“ogni testa è come un tribunale” nel senso che ogni individuo è un mondo a parte)

Un affastellamento continuo di immagini, loghi, tag, un confuso scenario che, come dicevo all’inizio, sfugge agli occhi in una macchia confusa, divenendo invisibile e quindi tradendo l’intento dei sui autori che li hanno certamente creati per un desiderio di affermazione personale. Una confusione, una folla di immagini che sembra essere la risposta/reazione all’invasione del turismo di massa: allo spazio sottratto per passeggiare, allo spazio sempre più caro per affittare o per prendere un caffe, corrisponde la ricerca di spazio-presenza sui muri dei tanti palazzi storici. 

Tutto è avvenuto progressivamente e sotto gli occhi di tutti nella totale accettazione dei cittadini, delle autorità e delle organizzazioni private che, in più di una occasione, hanno dimostrato anche di supportarli con commissioni di nuovi murales (sempre più grandi) e l’organizzazione di visite guidate di quelli più noti.

C’è come una sociale accettazione che questa sia una dimensione di libertà dell’individuo, non la si percepisce come vandalica, ma neanche come reazione. Crescono al crescere del prezzo degli affitti, delle case e del costo della vita. In pratica, si ignora o si fa l’occhiolino.

Anziché capire il perché di un fenomeno, si è scelti di normalizzarlo assecondandolo tacitamente (tranne in situazioni specifiche che vedremo in seguito) e ignorando completamente la tutela del patrimonio storico artistico, quasi fosse impossibile conciliare entrambi.

Emblematico di questa specifica relazione tra città, graffiti e consumo è il caso dei due stencil di Bansky  del 2010: al clamore per la scomparsa di uno dei due, la reazione è stata quella ontologicamente avversa allo stencil (che per sua natura deve essere precario, temporaneo e non musealizzato nella sua fruizione) ma coerente con la mentalità locale, appropriarsene, incorniciarlo metterlo sotto vetro e aggiungere anche una targa.

Appropriazione come forza motrice e allo stesso tempo immaginare di renderla motivo di speculazione economica turistica (anche se l’intento dichiarato dai promotori dell’iniziativa era quello di preservarlo) a cui si aggiungono una miriade di adesivi pubblicitari di varie attività col tentativo di accalappiare il turista di passaggio.

Piglia tiempo e campa: ca ‘o tiempo ‘a ogne male scampa[9](prendi tempo e vivi perché il tempo scampa ogni male)

Il centro storico come epicentro del turismo e dei graffiti, ha creato inevitabilmente un corto circuito che la politica locale, e non solo, (come nel caso dell’amministrazione dello spazio pubblico libero o delle case vacanze) o ignora, o cerca molto maldestramente di regolare sempre in punta di piedi, per il timore che possa interferire in questa sorta di finto benessere dopato (perché non strutturale e neppure diffuso) che sta amplificando limiti sociali che la città già aveva.

Quando si parla dei centri storici abbandonati dai suoi abitanti, si pensa a Venezia Firenze e Roma, ma credo che Napoli in questa lista rappresenti una peculiarità. Si tratta, infatti, di un centro storico diffuso ampio e abitato ancora molto centrale nella vita dei suoi abitanti che lo consumano e abusano da sempre: parlo di un consumo e abuso molto materiale, che parte dalla storica pratica dell’uso di pietre di edifici precedenti per costruirne di nuovi, all’aver sventrato e rimpicciolito abitazioni spesso di valore storico (senza cura del patrimonio artistico) per soddisfare eredi con beni che si sfruttavano e non ci si curava di far fruttare. Un atteggiamento che continua con il turismo, un cannibalismo di luoghi, monumenti e persone che si manifesta in maniera parossistica nel graffitismo.

Un’altra caratteristica peculiare di Napoli è quella della diffusione dei murales ritratto: tutto è iniziato con il dilagamento di volti di personaggi famosi o meno, brandizzati da Jorit Agoch (parlo di brand perché in questo caso è chiaro l’uso dell’immagine altrui per promuovere il proprio lavoro attraverso un messaggio debole). In particolare, l’uso dei social media per documentare i propri viaggi ha reso famoso il san Gennaro a Forcella fatto usando il volto di un giovane del quartiere: posizionato in punto cruciale del centro e veicolando un messaggio semplice e stereotipato, è divenuto molto popolare sui social media.

Tutto ciò ha destato immediatamente interesse, muovendo un numero notevole di richieste pubbliche e private di murales simili di volti, che ormai, sono ovunque a Napoli (come sempre si sceglie la via facile e popolare senza domandarsi il perché e l’eventuale risultato che si otterrebbe)

In questo desiderio contemporaneo di apparire, che possiamo far rientrare nello stesso ambito di quello dei “selfie”, del conformismo sociale e della problematica dell’individualità all’interno di strutture sociali compromesse,  questi ritratti hanno creato un effetto a catena: si è visto un dilagare di murales di volti che, nel caso dei volti famosi erano o volti zeitgeist per significare i luoghi oppure murales acchiappa foto per turisti, nella speranza di avere la stessa fama del san Gennaro.

Nu latitante nun tene cchiu niente, luntano rr’o bbene a nascuse da gente[10](il latitante non possiede nulla lontano dal bene e nascosto dalle persone)

Come anticipavo, il successo dei ritratti ha messo in moto il desiderio di imitazione e quindi la diffusione una serie di murales di volti di persone comuni, in genere scomparse, in una sorta di versione pop e contemporanea del culto dei morti che è storicamente presente in città.

In particolare, è interessante notare cosa è accaduto con il mondo della criminalità, da sempre sensibile alle dinamiche pop e che da anni è già mescolata nella narrazione musicale, con alcuni cantanti neomelodici che romanzano la vita dei camorristi.

In questo caso, a scatenare l’uso del ritratto-murales da parte delle organizzazioni criminali è stato un episodio di cronaca dai risvolti ancora non chiari: si tratta dell’omicidio di Ugo Russo avvenuto nel 2020 per mano di un carabiniere in borghese durante una rapina finita male e il cui murales era stato realizzato nei quartieri spagnoli.

Essendo un evento drammatico dai contorni ancora ambigui che ha scosso molto l’opinione pubblica (seri dubbi sono stati avanzati sul comportamento del carabiniere), il clamore aveva animato un forte dibattito cittadino sull’opportunità o meno di avere un murales celebrativo. Tutto ciò ha scatenato un moto di autoritarismo che ha portato, prima alla cancellazione di una serie di murales di camorristi defunti che nel frattempo erano stai dipinti, tramite una serie di decreti del prefetto di Napoli del 2021 per giungere solo nel 2023 alla cancellazione di quello di Russo.

Manco a dirlo, anche qui si tratta di un’operazione di facciata in quanto, fra altarini, murales e statue sembra che nel comune di Napoli ve ne siano 15.000 dedicati a camorristi[11], un mare di volti di criminali morti che arredano lo scenario urbano.[12]

Nel caso dell’iconografia ossessiva su Diego Armando Maradona, credo che invece si possa parlare di una sorta di sintesi dell’atteggiamento sociale e culturale di una città, che vede la dimensione collettiva e la condivisione, quasi esclusivamente nei momenti di festa o di lutto legati a fenomeni popolari.  

Alla folla per lo scudetto, corrisponde la folla per la morte di Totò o Pino Daniele.

Possiamo immaginare Maradona come la sua sintesi estrema (in quanto espressione di momenti di lutto e di gioia),è rappresentato ovunque in città come memento di sentimenti molto napoletani: da una parte la possibilità di eccellenza, avvertita come effimera, e dall’altra il rifiuto di ogni forma governo, il desiderio di ribellione costante a tutto[13].

Lo si idealizza a prescindere dal calcio, rappresentandolo in vesti divine o da guerriero romano, per fissarlo in una dimensione atemporale. I murales del calciatore come affermazione naïve di rivolta e di identità, un gesto di ambizione indirizzato soprattutto ai turisti (i napoletani in realtà, non hanno bisogno di ricordarlo) che cercano le tracce di Maradona in città come se cercassero le tracce di un artista come Caravaggio o Luca Giordano.

Anche qui, come anticipavo, riguardo al mercato illegale sul calciatore argentino, il murales fa un passo oltre creando addirittura selfie point, dove sedersi e fotografarsi con el pibe de oro dipinto.

Le città italiane, e non solo, si domandano come far fronte al boom turistico senza svuotare i propri centri dei loro cittadini (anche se in città come Firenze o Venezia, vista la loro più limitata dimensione, sembra che non ci sia un via di ritorno) e far divenire i centri solo scenografie di un parco giochi a tema. Napoli in questo contesto reagisce e, come spesso hanno fatto nella sua storia, i cittadini si adeguano e cercano di trarne guadagno senza domandarsi cosa ne sarà in futuro. È un modo di essere e di non amministrare, un mezzo di consumare senza preoccuparsi di cosa si lascerà, ma nel frattempo tutto questo eccesso fatto di visitatori, di speculazioni e di denaro si manifesta/sfoga attraverso il caos di immagini e segni sui muri.

Un caos che riflette la totale assenza di una politica dall’alto o dal basso, capace di andare oltre la protesta e ipotizzare un costruire.

Napoli può rappresentare una diversa forma di individualismo mosso da un costante senso di provvisorietà, e quindi molto contemporaneo, che si contrappone a quello promosso dal modello neoliberista?

Tutto ciò, a mio parere, ci pone quesiti importanti: possiamo immaginare forme di resistenza e di produzione del comune che partano dall’ascolto del singolo?

Possiamo immaginare una controcultura che sia ispirata ad una visione del fare storia di ispirazione braudeliana?

Credo che la moltitudine stia gridando in cerca di ascolto e che a Napoli si stia facendo sentire rumorosamente.

Ciononostante, la relativa assenza di “ibridazione” del “rumore” visivo del paesaggio urbano riflette la solida stratificazione che esiste all’interno della società napoletana, una società che abita lo stesso spazio, ma che allo stesso tempo si oppone a condividere un’idea di comune o di spazio condiviso.

Separazioni che, a differente titolo, forse non erano già del tutto sconosciute agli idealisti della Repubblica Napoletana.


[1] Gianfranco Marrone, “L’efficacia simbolica dello spazio: azioni e passioni”, in “Le Forme della testualità. Atti del congresso italiano dell’Associazione di Semiologia”, P. Bertetti ed. Torino, Testo&immagine, 2001.

[2] Toni Negri sulla vacuità della borghesia napoletana in Storia di un Comunista a cura di Girolamo De Michele, Ponti delle Grazie, Milano, 2015, p. 131.

[3] Pino Daniele, “Napule e” dall’album “Terra Mia”, EMI, 1977.

[4] Citato in “Proverbi e modi di dire napoletani” di Sergio Zazzera, ed Newton&Compton,Roma 1996, p. 87.

[5] https://www.fanpage.it/napoli/sfrutta-napoli-cosi-il-turismo-sta-aggredendo-la-citta-anche-le-case-del-comune-diventano-bnb/

[6] E’il caso della trattoria Nennella: da piccola trattoria economica dei quartieri spagnoli, dopo il boom dovuto al turismo, ha scelto di aprirsi un nuovo locale più grande tra Burger King e KFC vincendo la concorrenza di queste catene internazionali.

[7] La Repubblica Napoletana del 1799 fondata sui di principi di uguaglianza, del diritto universale allo studio e dei diritti condivisi fu combattuta principalmente dallo stesso popolo napoletano e meridionale assoldato dai Borboni attraverso il Cardinale Ruffo.

[8] Citato in “Proverbi e modi di dire napoletani” di Sergio Zazzera, ed Newton&Compton,Roma 1996, p. 59.

[9] Proverbio citato in “Proverbi Napoletani” di Altamura e Giuliani ed Fausto Fiorentino, Napoli, 1966, p. 310.

[10] Tratto dalla canzone “Nu Latitante” dell’album neomelodico di Gianni Celeste “Nuvole”, 2009.

[11] https://www.ilpost.it/2021/11/25/napoli-murales-altarini-camorristi/

[12] Mentre scrivo questo articolo ci sono stati i primi arresti per le infiltrazioni camorristiche nelle attività di ristorazione del centro storico https://www.rainews.it/tgr/campania/video/2024/05/camorra-e-riciclaggio-sequestrata-la-pizzeria-dal-presidente-b64c7df7-894a-4f90-aa90-983f62509de1.html

[13] Un articolo fra tanti: https://www.gazzetta.it/Calcio/25-05-2015/maradona-contro-fifa-blatter-parco-giochi-corrotti-un-dittatore-vita-110971356906.shtml

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