Esce oggi, nella collana “Gli autonomi” di DeriveApprodi, il volume a cura di Roberto Demontis e Giorgio Moroni, Autonomia operaia a Genova e in Liguria. Parte prima (1973-1980) . Pubblichiamo di seguito la Postfazione di Sandro Mezzadra, che costituisce al tempo stesso il prologo alla seconda parte dell’opera, in uscita a maggio e dedicata agli anni 1981-2001.
Di SANDRO MEZZADRA
Il libro che avete appena finito di leggere è il primo di due volumi che compongono un’opera unitaria. Il secondo volume è dedicato alla storia dei movimenti “autonomi” a Genova fino al 2001. Anzi, si sarebbe dovuto trattare di un unico libro se i materiali, le testimonianze, le analisi non si fossero accumulati sino a renderlo impossibile. Alla base di quest’opera c’è un azzardo, una scommessa. Le esperienze documentate nei due volumi non trovano immediatamente un criterio di unificazione, al di là del fatto che molti dei protagonisti di quelle ricostruite nel primo hanno poi a vario titolo partecipato a quelle narrate nel secondo. È evidente, tra i due, il radicale cambiamento di scenario, sia per quel che riguarda le pratiche politiche di movimento sia per quel che riguarda il contesto più generale. Più facile sarebbe stato limitarsi al primo volume, documentando la storia dell’Autonomia operaia genovese fino alla chiusura della sua storia, nel 1981. Ne sarebbe venuto fuori un libro da accostare ad altri che negli ultimi anni hanno ricostruito quella storia in altre città e regioni italiane. La scelta dei curatori è stata invece da subito diversa: senza alcuna presunzione di poter tracciare le linee di una presunta continuità, hanno deciso di guardare oltre e di seguire lo scomporsi e il ricomporsi del riferimento all’autonomia nell’azione dei movimenti genovesi nei vent’anni successivi, fino al G8. I due volumi vanno letti insieme: così facendo, è in fondo la stessa vicenda dell’Autonomia degli anni Settanta in Italia a caricarsi di diverse valenze. E a venire in primo piano è la necessità di comprendere quanto vi sia di specifico e irripetibile in quell’esperienza e quanto invece in essa, in forme anche radicalmente mutate, abbia continuato a circolare e a ispirare generazioni successive di attivisti e militanti in diverse parti del mondo – fino a oggi. A questa questione sono dedicate le pagine che seguono. Nessuna pretesa di completezza, evidentemente: solo il tentativo di impostare un ragionamento sul problema.
L’Autonomia operaia organizzata, nonché le stesse pratiche che hanno fatto riferimento all’autonomia con la “a” minuscola, è stata certo tra le componenti del movimento rivoluzionario italiano quella che ha interpretato nel modo più lucido il passaggio d’epoca che pochi intravedevano ma che era pienamente avviato alla metà degli anni Settanta. Tra lo sganciamento del dollaro dall’oro (1971) e la crisi petrolifera (1973) avevano preso forma i tratti fondamentali di una controffensiva capitalistica che puntava a chiudere i conti con le lotte operaie degli anni Sessanta in Occidente, con la rivolta anticoloniale e antimperialista nel “Terzo mondo” e con il Sessantotto globale. Conosciamo gli effetti che questa offensiva avrebbe dispiegato nei decenni successivi: rottura della centralità della fabbrica in Occidente, distensione sociale della valorizzazione, nuove architetture logistiche, nuova geografia globale della produzione, processi di finanziarizzazione, per limitarci all’essenziale.
Certo non si può dire che l’Autonomia abbia colto l’insieme di questi effetti (né sarebbe stato del resto possibile). Tuttavia, comprese perfettamente il significato della fine della centralità della fabbrica e tentò, anche sulla spinta del movimento del ’77, di rovesciare la forza accumulata dalle lotte operaie sul terreno sociale su cui stava riorganizzandosi la produzione. Una categoria derivata dall’operaismo del decennio precedente, quella di composizione di classe, guidò la ricerca (l’inchiesta e la “conricerca”) sulle nuove figure proletarie emergenti, secondo modalità diverse nelle diverse esperienze autonome ma comunque convergenti nella tensione verso un rinnovamento profondo della teoria e della pratica della lotta di classe. Senza alcuna nostalgia per la centralità della fabbrica (letta semmai attraverso il filtro di quel “rifiuto del lavoro” che in particolare una nuova generazione proletaria praticava), l’Autonomia interpretò dunque la grande trasformazione che si annunciava nel segno dell’apertura di un nuovo continente di lotte e di possibilità rivoluzionarie – nel segno dell’attualità del comunismo.
All’interno di questo nuovo continente si giocarono le sfide politiche più importanti di fronte a cui si trovò l’Autonomia. Certo, la questione dell’uso della forza – nella prospettiva di consolidare ed estendere il “contropotere” e l’“autovalorizzazione” della classe operaia in lotta – resta qualificante nell’esperienza dell’Autonomia, tanto più per via della pressione esercitata dalle Brigate Rosse e da altre “organizzazioni combattenti”, che puntavano non senza efficacia a quella “verticalizzazione dello scontro” che gli autonomi ritenevano suicida (anche al di là di una discriminante come quella del rifiuto dell’omicidio politico). Ma più in generale fu sulla questione dell’organizzazione che cominciò a profilarsi, dopo il ’77 e dopo il sequestro Moro, la crisi dell’Autonomia: le due principali proposte formulate nel 1978 (quella del “Partito dell’Autonomia” promossa dalla rivista “Rosso” e quella dei Comitati Autonomi Operai di Roma, intitolata “Per il Movimento dell’Autonomia Operaia”) fecero emergere differenze di fondo, evidenti nell’opposizione tra partito e movimento, richiami a Lenin e al consiliarismo. Nessuna delle due, in ogni caso, riuscì a determinare un polo di attrazione capace di risolvere quel rompicapo del rapporto tra eterogeneità dei soggetti in lotta (e delle rivendicazioni: si pensi solo alla fondamentale questione del femminismo) e necessaria unità dell’azione che proprio la crescita impetuosa dell’Autonomia negli anni precedenti aveva fatto emergere, qualificandolo materialmente.
I contributi raccolti nel primo volume di quest’opera si diffondono a sufficienza sulle operazioni repressive contro l’Autonomia che presero avvio il 7 aprile 1979, bloccando violentemente un dibattito politico e una ricerca che stavano esplorando inedite possibilità (tra l’altro attraverso nuove riviste, come “Autonomia”, “Metropoli” e “Magazzino”). Non è quindi il caso di tornarvi qui. Per molti versi la storia dell’Autonomia operaia organizzata in Italia finisce con queste operazioni, per quanto in diverse città l’azione dei collettivi autonomi si sia prolungata ben oltre il 1979 e abbia in alcuni casi posto le basi per esperienze politiche molto significative nel decennio successivo. Il passaggio d’epoca di cui si parlava in precedenza, in ogni caso, assumeva ora tratti più precisi – sia a livello globale, con le vittorie elettorali di Margaret Thatcher in Inghilterra (1979) e di Ronald Reagan negli Stati Uniti (1980), sia in Italia, con la sconfitta operaia alla Fiat nel 1980 e con il profilarsi del “craxismo”. Intanto, ed è un punto sottolineato in molti capitoli di questo e del secondo volume, i quartieri proletari venivano travolti dal flagello dell’eroina, che colpiva purtroppo anche molti militanti autonomi e che comunque toglieva spazio all’intervento politico e alla lotta sociale. Incalzata dalla repressione e colpita nei suoi referenti sociali, l’Autonomia o concludeva il suo percorso (come è avvenuto a Genova) o si attestava su posizioni di resistenza (ad esempio in Veneto).
Così ricostruita, sia pure soltanto per accenni, la storia dell’Autonomia appare peculiarmente italiana, sia per quel che riguarda l’eredità teorica a cui quasi tutte le sue componenti si sono riferite (l’operaismo degli anni Sessanta) sia per quel che riguarda le specificità della storia della lotta di classe (e della storia politica) in Italia negli anni Settanta. È tuttavia un’impressione che si tratta immediatamente di ridimensionare nella prospettiva di comprendere le molte forme in cui quella esperienza si è riprodotta nei decenni successivi. Scriveva nel 1980 Christian Marazzi, nell’introduzione a un volume che ha avuto una notevole diffusione nel mondo anglofono (Autonomia: Postpolitical Politics, New York, Semiotext(e), 1980, p. 12): “quelli che possono essere considerati i più originali contributi allo sviluppo dell’operaismo italiano hanno avuto origine all’estero”. Marazzi si riferiva qui a quella che possiamo definire la preistoria dell’Autonomia, e sottolineava in particolare l’importanza per lo sviluppo dell’operaismo delle lotte operaie in Francia e delle straordinarie esperienze di lotta e di organizzazione operaia nera a Detroit, tra fabbrica e quartiere (“Detroit Revolutionary Union Movements”). Tanto nel primo caso quanto nel secondo, la lotta operaia si presenta nel segno della differenza (migrante, nera), una questione che in Italia si era in qualche modo manifestata attraverso le migrazioni interne ma che esploderà solo molto più tardi – sotto la duplice spinta del femminismo e delle migrazioni internazionali.
L’Autonomia ebbe comunque negli anni Settanta manifestazioni non effimere anche in altri Paesi europei, in particolare in Francia (dove fu importante il ruolo di Félix Guattari e Yann Moulier Boutang) e in Germania occidentale. In quest’ultimo Paese un nucleo di organizzazione autonoma si formò nei primi anni Settanta attorno alla rivista “Autonomie. Materialien gegen die Fabrikgesellschaft” (1975-1985) e a storici militanti come Angelika Ebbinghaus e Karl Heinz Roth. La rivista avviò un lavoro di rinnovamento della storia sociale in qualche modo parallelo a quello di “Primo maggio”, mentre molti dei suoi redattori intervenivano nelle fabbriche in una prospettiva che privilegiava i cosiddetti “Gastarbeiter”, i lavoratori migranti reclutati dalle grandi imprese tedesche (italiani, spagnoli, turchi, jugoslavi etc.). In Germania occidentale, tuttavia, l’Autonomia conobbe anche una sua seconda (e diversa) stagione iniziata con le grandi occupazioni di case (in particolare a Berlino e Amburgo, ma anche in altri Paesi nordeuropei come l’Olanda) dell’inizio degli anni Ottanta: è allora che nacquero gli Autonomen, spesso privi di riferimenti alle esperienze autonome del decennio precedente e caratterizzati da un’originale cultura politica, in cui il linguaggio e i temi dell’anarchismo erano talvolta predominanti (una differenza significativa rispetto alla storia dell’Autonomia italiana, che si identificava semmai nello slogan “Per l’autonomia, per il comunismo”). Seguendo i percorsi degli Autonomen e le loro ripercussioni al di fuori della Germania si arriva tra l’altro a comprendere la formazione del black bloc come forma di organizzazione durante le manifestazioni in molti Paesi europei e negli Stati Uniti.
La dimensione internazionale dell’Autonomia risulta ulteriormente arricchita laddove si guardi alle similitudini tra le pratiche politiche e le modalità di organizzazione delle lotte, indipendentemente da riferimenti e rapporti diretti. Restando agli anni Settanta, si può ad esempio vedere un’anticipazione della pratica autonoma del contropotere nel black power statunitense, e in particolare nella concezione territoriale dell’autodifesa che caratterizzò l’esperienza del “Black Panther Party”. In un diverso contesto, la guerriglia di fabbrica che si sviluppò a metà degli anni Settanta nel grande polo industriale argentino di Villa Constitución risuona con molte esperienze autonome italiane per il tentativo di consolidare politicamente – in una prospettiva offensiva – il nesso tra fabbrica e territorio. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Anche limitandoci a questi due casi, comunque, si vede bene nuovamente che assumendo sull’Autonomia una prospettiva “esterna” siamo di fronte a potenti risonanze ma allo stesso tempo a significative differenze: il primo esempio mostra nuovamente il rilievo della “razza”, il secondo invita ad allargare lo sguardo al di là di una concezione rigida della “divisione internazionale del lavoro” e dell’idea che, per citare le celebri parole di Mario Tronti, sia “là dove è più potente il dominio del capitale” (ovvero nei Paesi “avanzati”) che “più profonda si insinua la minaccia operaia”.
Sono solo alcuni accenni, utili a comprendere come l’esperienza dell’Autonomia debba essere inquadrata all’interno di un più generale sviluppo di lotte e pratiche rivoluzionarie nel mondo negli anni Settanta. In questa prospettiva, del resto, emergono immediatamente una serie di questioni – a partire da quella della “differenza”, di “razza” così come di genere – che i movimenti dei decenni successivi hanno messo al centro della loro azione in molte parti del mondo, in forme difficilmente componibili con il discorso e con le pratiche politiche dell’Autonomia (si pensi ad esempio al concetto e alla pratica dell’“intersezionalità”). Molti altri aspetti concorrono a mostrare come quell’esperienza non sia riproponibile al di fuori del contesto storico in cui è nata. L’organizzazione del lavoro “illegale”, in particolare, si impiantava indubbiamente sul terreno dell’“illegalità di massa” e puntava a collegarsi con comportamenti proletari diffusi, ma si inseriva all’interno di una tradizione che imponeva compartimentazione e istituiva gerarchie tra militanti che oggi difficilmente sarebbero accettate all’interno dei movimenti. Più in generale, nella storia dell’Autonomia l’intervento politico nelle lotte ha sempre puntato ad alzare il livello dello scontro portandolo al punto in cui ogni mediazione diveniva impossibile. Questo poteva certo avere un senso in una situazione in cui si riteneva che fosse immediatamente data la possibilità della rivoluzione, risulterebbe tuttavia difficilmente comprensibile oggi, quando in questione è semmai la ricostruzione di un orizzonte rivoluzionario che non si può assumere come dato. Ancora: le trasformazioni della composizione di classe che l’Autonomia aveva interpretato in senso offensivo (sulla base della spinta proveniente dall’accumulazione del potere operaio in fabbrica e nella società negli anni precedenti) si sono poi dispiegate in forme che, pur confermando la correttezza di molte intuizioni, hanno accentuato processi di frammentazione e divisione che richiedono modalità di lotta, organizzazione e intervento politico molto diverse da quelle che hanno caratterizzato l’Autonomia.
Nessuna ripresa lineare della storia dell’Autonomia è dunque possibile. Troppo radicalmente, come si è appena detto, è del resto cambiata la realtà della lotta di classe in questi decenni. E tuttavia, ben al di là degli anni Settanta, quella storia ha continuato a ispirare militanti, attivisti, movimenti. Il secondo volume di quest’opera ne dà molte esemplificazioni rispetto a Genova. Ma ancora una volta, lo sguardo va allargato, andando oltre la stessa esperienza italiana (a cui si fanno molti cenni nei capitoli del secondo volume di quest’opera) e assumendo una prospettiva globale. Diversi movimenti specifici e particolarmente importanti, negli ultimi anni, si sono definiti “autonomi”, non di rado con un riferimento diretto (anche se non esclusivo) all’esperienza italiana. È accaduto ad esempio in Argentina, nei mesi successivi alla grande rivolta del 19 e 20 dicembre del 2001, e di nuovo in Spagna, nel contesto del 15-M, ovvero dell’occupazione delle piazze cominciata in 58 città il 15 maggio del 2011. In entrambi questi casi, una “politica dell’autonomia” ha contribuito a orientare movimenti tra i più significativi degli ultimi vent’anni. Altri esempi si potrebbero fare, magari rintracciando anche in questo caso tonalità autonome all’interno di movimenti in cui il riferimento diretto all’Autonomia italiana è assente o marginale. Occorre in ogni caso sottolineare che il successo internazionale di Impero (2000) di Michael Hardt e Toni Negri ha determinato una grande circolazione non solo dell’operaismo italiano, ma anche dell’esperienza dell’Autonomia, con cui si sono confrontati negli anni successivi non solo intellettuali ma anche movimenti sociali che agiscono in tutto il mondo, ricavandone ispirazione e appropriandosi selettivamente di quell’esperienza. Molti di questi movimenti del resto, penso ad esempio a quelli indigeni, a quelli femministi, a quelli antirazzisti e a quelli che si battono contro l’“estrattivismo” in America Latina e altrove, rivendicano e praticano forme di “autonomia”, certo in un senso diverso rispetto a quello dell’Autonomia italiana ma ponendo comunque le basi per dialoghi spesso molto produttivi.
Quali sono dunque gli aspetti dell’eredità dell’Autonomia che risultano oggi maggiormente attuali e che, pur modificati, si prestano a funzionare da base per “linee di fuga” che possano dar luogo a diverse combinazioni e a diversi innesti nel tentativo di definire una pratica politica all’altezza delle sfide di fronte a cui ci troviamo? Credo che in primo luogo la lettura dinamica della lotta di classe e dello stesso concetto di classe che ha caratterizzato la storia dell’Autonomia mantenga, opportunamente aggiornata, tutta la sua attualità. Negli ultimi anni, non solo in Italia, non solo in Occidente, abbiamo assistito a una vera e propria esplosione del rapporto di lavoro standard (il lavoro salariato “libero”), all’insorgere di una molteplicità di nuove figure che all’interno del nostro dibattito abbiamo cercato di definire attraverso un gran numero di concetti (per fare solo qualche esempio: intellettualità di massa, lavoro cognitivo, lavoro riproduttivo, lavoro migrante, moltiplicazione del lavoro). Ne è risultato uno sfumare dello stesso confine tra lavoro e non lavoro (o tra lavoro e vita, se si preferisce), che il femminismo marxista e autonomo aveva indicato fin dagli anni Settanta – a partire dalle campagne per il “salario al lavoro domestico” – e che oggi ad esempio le operazioni delle piattaforme digitali portano all’estremo. In questa situazione l’azione politica non può rinunciare a strumenti capaci di discriminare le posizioni dei diversi soggetti e di individuare quelli le cui lotte possono avviare processi di convergenza con altre figure sfruttate e dominate dal capitale. Questi strumenti possono certo fare riferimento al concetto di composizione di classe, aggiornandolo tuttavia in modo che sia in grado di rendere conto dell’ambivalenza della “differenza”, certo strumento di divisione ma anche terreno di politicizzazione, come in particolare i movimenti neri, migranti e femministi non cessano di mostrarci.
La stessa nozione di autonomia ha in secondo luogo, come già accennavo, una grande importanza e una notevole attualità. Si potrebbero discutere a lungo le diverse valenze che questa nozione ha assunto nella storia politica moderna (ancora una volta, senza limitarsi all’Occidente, considerato che la rivendicazione e la pratica dell’autonomia sono state basi fondamentali per le lotte anticoloniali e contro la schiavitù). Non va certo dimenticato, del resto, che autonomia è concetto fondamentale nella storia del liberalismo. Ma qui mi riferisco al modo in cui l’autonomia operaia è stata interpretata, sulla base di una originale lettura di Marx, dall’operaismo italiano: la forza lavoro, “catturata” nel rapporto di capitale (e dunque “dentro” questo rapporto), appariva come la base per la formazione di quella classe operaia che manteneva sempre una essenziale autonomia, capace dunque di rivolgersi “contro” il rapporto di capitale. Resta preziosa, questa indicazione, che costituisce una potente critica a ogni teoria della piena integrazione del lavoro (anche di quello sociale, diffuso, frammentato) nel capitale. Credo però che questa nozione di autonomia possa essere interpretata anche in senso estensivo, tanto più in una situazione in cui la differenza tra lavoro e non lavoro è spesso in discussione. In questo senso fa riferimento a una potenza di azione collettiva indipendente che si esprime in ogni grande movimento sociale, entrando spesso in conflitto con la presenza e con i condizionamenti di attori istituzionali.
Il problema che si pone è qui quello del consolidamento di questa autonomia nell’azione dei movimenti, della distensione temporale della loro azione. È a questo proposito che si può riprendere un terzo elemento dall’esperienza dell’Autonomia negli anni Settanta, ovvero il concetto di contropotere. Si tratta ovviamente di ripensarlo profondamente, secondo una prospettiva che abbiamo recentemente indicato con un “Quaderno” della rete “Euronomade” (liberamente scaricabile all’indirizzo euronomade.info). Lungi dal definire le proprie funzioni soltanto in un senso offensivo, il contropotere dei movimenti può oggi combinare negoziazione, resistenza e attacco nella prospettiva di favorire processi di convergenza tra figure eterogenee e di praticare immediatamente la trasformazione sociale. Al tempo stesso dispositivo che permette lo stabilizzarsi organizzativo di una composizione del lavoro vivo profondamente eterogenea e strumento che interviene nel vivo dei rapporti sociali, il contropotere indica altresì una via per la ricostruzione di un orizzonte rivoluzionario.
Composizione di classe, autonomia, contropotere. Sono i tre termini tratti dall’esperienza dell’Autonomia che a mio giudizio permettono, insieme ad altri, di pensare il nostro tempo dal punto di vista dell’abolizione dello “stato di cose presente”. Non pretendo certo che la mia selezione sia esclusiva: altri e altre sceglierebbero senz’altro diversi termini per costruire le proprie “linee di fuga”. La mia scelta ha piuttosto valore esemplificativo, e intende in ogni caso mostrare quanto sia felice e opportuna la scommessa su cui è costruita quest’opera. Oltre l’esaurimento di un’esperienza storica quale quella a cui è dedicato il primo volume, l’Autonomia ha continuato, più o meno sotterraneamente, a circolare, si è scomposta e si è ibridata in una molteplicità di incontri. Il secondo volume mostra come questo sia avvenuto a Genova, tra il 1981 e il 2001, in forme del tutto specifiche che sono analizzate nei capitoli che lo compongono. Ma questa storia non si è conclusa, ed è destinata a continuare anche in futuro nelle lotte incessanti per la liberazione. E sulla sconfitta dell’assalto al cielo messo in atto dagli autonomi negli anni Settanta possiamo ripetere le parole di Rosa Luxemburg, scritte all’indomani della sconfitta dell’insurrezione spartachista a Berlino, nel gennaio del 1919: “poggiamo i piedi proprio su quelle sconfitte, a nessuna delle quali possiamo rinunciare, ognuna delle quali è una parte della nostra forza e consapevolezza” (R. Luxemburg, L’ordine regna a Berlino, in Ead., Scritti scelti, Torino, Einaudi, 1975, p. 680).