di GIROLAMO DE MICHELE.
Il 4-5 febbraio si è svolto a Padova il convegno “Globalizzazione e crisi. Lavoro, migrazioni, valore” [qui la sua presentazione di Sandro Chignola e Devi Sacchetto]. Quello che segue è un report degli interventi, redatto sulla base dei materiali distribuiti e degli appunti presi. Ho scelto di far parlare una sola voce collettiva, per focalizzare l’attenzione sul quadro d’insieme piuttosto che sui singoli interventi, rimandando al programma, nella sua interezza, per il dettaglio degli argomenti [G.D.M.]
È probabile che la migliore sintesi di questo convegno sia stata l’affermazione di uno storico: «ho imparato più qui ascoltandovi per due giorni, che in tre mesi di studio e letture». Affermazione in apparenza paradossale: quale presa di parola può avere lo sguardo dello storico su un tentativo sincronico e orizzontale – o comunque definito da un arco temporale ben più ristretto di quello dello sguardo storico – di descrizione dell’intreccio fra migrazioni, lavoro e produzione di valore? Ad esempio, la messa in discussione dello “statocentrismo” implicito in alcuni studi migratori, nei quali il globale sembra essere considerato come qualcosa di esterno allo Stato; e la contestazione di quel “colpo di Stato linguistico” che derubrica e occulta i movimenti migratori locali rispetto a quelli a largo raggio: laddove questi ultimi emergono invece da un pulviscolo di movimenti locali. In definitiva, anche lo sguardo dello storico – così come molti degli interventi svolti – focalizza la propria attenzione sull’adeguatezza del prisma interpretativo dei movimenti migranti. Come hanno mostrato sia le testimonianze dirette delle lavoratrici e dei lavoratori, sia le inchieste che sostanziavano alcuni interventi, ci sono concetti, o categorie interpretative, che si irrigidiscono nello schematismo di un’apparente chiarezza semplificatrice, e che l’inchiesta e l’immersione nel lavoro vivo mostrano nella loro complicazione, costringendo a rimodulare il prisma interpretativo del reale. Le coppie Nord/Sud, Europa/Mediterraneo, logistica/produzione, i concetti di lavoro autonomo e/o precario, capitalismo finanziario e/o predatorio sono fra questi: e la loro messa a fuoco significa determinare l’oggetto su cui fare scienza, ovvero il soggetto dell’inchiesta.
Questo soggetto è la forza-lavoro intra-europea, il lavoratore multinazionale, che emerge dalla lente che esamina i processi di riorganizzazione produttiva nel nuovo mercato integrato del lavoro, e rappresenta una riserva di sapere su lavoro e strategie migranti, che detta il metodo della sua analitica: un approccio transnazionale alle modalità e categorie dello Stato neoliberale – in una battuta, il passaggio dalla working class agli hired labours.
Fondamentale diventa, in questo quadro, la comprensione delle dinamiche distributive/produttive della logistica, nel cui campo si è operata una vera e propria rivoluzione: la formazione di uno spazio politico-economico poroso e proteso verso la dimensione globale, in transizione anche geografica. Esemplare il progressivo spostamento verso l’est europeo degli hub logistici e produttivi – si vedano il caso di Foxconn nella Repubblica Ceca o di Amazon in Polonia. Lo spazio europeo si costituisce come una formazione politica inedita, espressione delle interconnettività produttive nelle quali si legittima l’organizzazione sovranazionale all’interno di relazioni mobili e flessibili con il territorio, i confini, le appartenenze e i diritti. È questo lo spazio discorsivo nel quale collocare la crisi dell’Europa: per rimanere all’attualità, la sospensione di fatto di Schengen va inquadrata in un quadro più generale, che deve poter rendere conto non solo dello scardinamento del quadro dei diritti sancito dal Welfare europeo, ma anche dalle moltitudini di ingovernabili che transitano per l’Europa, inseguiti dalla costrizione sociale e dall’austerity, e al tempo stesso ad esse ribelli.
L’estensione transnazionale della logistica, che è al tempo stesso condizione della produzione e produzione essa stessa, cioè un vero e proprio sistema nervoso di quella riarticolazione dei flussi produttivi che ridefiniscono i processi di gerarchizzazione, razzializzazione e mobilità, esemplifica l’estensione del sistema produttivo in catene globali secondo dinamiche di deterritorializzazione e riterritorializzazione. Questa estensione ha avuto molteplici conseguenze:
a] La destrutturazione delle cornici istituzionali all’interno delle quali si era costituita la mediazione con la forza lavoro (ovvio, ma tutt’altro che banale, pensare al compromesso sociale su cui si fonda la Costituzione italiana “fondata sul lavoro” del 1948). La migrazione mette infatti in crisi il presupposto simbolico dello Stato-nazione nell’interazione col suo soggetto presupposto – il “cittadino” –, mettendolo fuori asse. Lo Stato rinuncia a fornire tutele costituzionali ai cittadini, sostituendole con una regolamentazione amministrativa il cui oggetto è sia il soggetto occasionale (il migrante), sia il soggetto presupposto (il cittadino). Non è certo un caso che sia più volte risuonata la cogente definizione della condizione migrante formulata da Saskia Sassen, come di colui che si sposta fra l’essere autorizzato, ma sempre meno riconosciuto (le limitazioni del welfare e dei servizi sociali ne sono un esempio), e l’essere non autorizzato (cioè privo dello status giuridico di cittadinanza), ma sempre più riconosciuto nel mercato del lavoro (attraverso le specifiche segmentazioni e la normazione attraverso le differenze). In questo paradosso – nel quale si sostanzia il crepuscolo della cittadinanza – lo Stato rinuncia a rappresentare l’universale.
b] La modifica della composizione di classe e dei rapporti di lavoro. La disponibilità e valorizzazione del lavoro sono inseparabili dalla costruzione di differenze sociali sotto forma di gerarchie di razza, classe e nazione – cioè di differenze, che a loro volta sono intrecciate con i processi di ristrutturazione produttiva: valorizzazione del brand e invisibilità del lavoro vivo migrante si congiungono in un perverso legame. Accade così che nel caso dei lavoratori cinesi nel tessile italiano, la loro apparente docilità e passività si spiega col legame fra etnicizzazione della forza-lavoro ed esternalizzazione globale della riproduzione sociale sottoposta all’imperativo della fast-fashion. Lo spazio produttivo si riconfigura – nel contesto del tessile italiano, dove “italiano” comprende tanto il tessile lavorato dai migranti in Italia, quanto il tessile prodotto nelle manifatture delocalizzate nell’est Europa – secondo il modello del Mobile Emplacement, fra l’infra-firm stasis e l’inter-firm mobility, entro il quale il processo di etnicizzazione è giocato come compressione della diversità della forza-lavoro. Nondimeno, proprio nel segmento della comunità migrante cinese si manifesta una recente tendenza allo spostamento della verso la piccola imprenditoria o il lavoro autonomo.
c] I nuovi processi di soggettivazione e di rimessa in discussione delle identità. Basterà pensare all’irriducibilità della figura del lavoratore migrante rispetto al lavoratore salariato “classico” che assumeva centralità in testi e analisi antecedenti non solo allo scioglimento dei Beatles, ma anche alla loro fase psichedelica. Il lavoratore migrante multinazionale è in costante contrattazione della propria identità – in altri termini, in un continuo gioco dell’elastico fra processi di soggettivazione e assoggettamento – in un’ambivalente intreccio fra precarizzazione crescente (aumento del lavoro informale retribuito “off the books” attraverso il reperimento della risorse in periodo di disoccupazione e integrazione dei salari erosi dalla crisi), e crescente vulnerabilità (permesso di soggiorno, accesso al welfare, rispetto dei diritti del lavoro) dentro cui si giocano le segmentazioni di genere, classe, età, lingua e cultura.
Ma si pensi anche a quella proliferazione di figure della modernità richieste dalla migrazione (l’oggetto specifico d’inchiesta riguardava i migranti indonesiani in transito verso la Malesia): lo scafista, il broker, l’interprete, la guida, l’informatore sul campo sono tutti agenti di opportunità, agenti sul campo all’interno di uno spazio di mobilità che pone nuove questioni. Fra queste, la costituzione di un’economia morale (a partire dalla rivisitazione di Didier Fassin di questo concetto thompsoniano) indissociabile dall’economia politica, entro la quale si dà una costruzione di sé come soggetto morale socialmente accettato.
d] La riterritorializzazione dei flussi finanziari secondo dinamiche che determinano i processi di valorizzazione attraverso la determinazione finanziaria della produzione, e la messa a valore dell’immaterialità. Le trasformazioni delle imprese – si pensi al gruppo Exor [vedi grafico a destra], il portfolio della famiglia Agnelli, nella cui composizione giocano un ruolo di primo piano le attività di valorizzazione finanziaria (servizi finanziari e immobiliari) e dell’immateriale (sport, tempo libero, editoria) – non corrispondono solo a un mutamento di domande e servizi, ma anche a mutamenti nella strategia di accumulazione fondata sull’incremento di valore finanziario del capitale: la disponibilità di denaro a costo zero consente ad es. il finanziamento a tassi d’interesse rilevanti (TAEG, TAN) dell’acquisto ratealizzato della merce. Non è di poco rilievo osservare che nell’arco di un quarto di secolo il rapporto quantitativo tra finanziarizzazione e volumi occupazionali ha subito una evidente inversione.
Trova, in queste analisi, conferma la comprensione della relazione capitalistica come relazione sociale in continua ricerca di un compromesso sociale e temporale che consenta un’accumulazione (relativamente) durevole. Valorizzazione e disponibilità del lavoro sono inseparabili dalla costruzione di differenze sociali: da cui la proletarizzazione di nuove fasce di popolazione (donne e migranti), l’eterogeneità e il deterioramento delle condizioni di lavoro. Nondimeno, la riorganizzazione del capitale non può essere (benché vi tenda) del tutto footlose: il lavoro non va dunque assunto come mero dato passivo, dal momento che è esso stesso in grado di influenzare le dinamiche del capitale globale. Concentrare lo sguardo sull’apertura della forbice fra ricchi e poveri, e la disparità nella distribuzione delle ricchezze, rischia ha di rimuovere lo sguardo dai rapporti di lavoro nei quali si agitano le quotidiane insorgenze del lavoro vivo. In altre parole, leggere il lavoro come dato invece che come processo non consente di comprendere la natura ambivalente delle differenze, e al tempo stesso rischia di creare la falsa alternativa fra lotte per l’uguaglianza economica e lotte per i diritti, laddove l’inchiesta nelle lotte dimostra come questi due piani siano distinguibili solo per comodità analitica – o per un pregiudiziale rifiuto di cogliere gli elementi di novità e di trasversalità che la composizione del lavoro vivo migrante aggiorna di continuo. Si veda, a titolo esemplare, la lotta per l’uguaglianza di condizioni degli outsorced workers dell’università di Londra 3 Cosas Campaign: qui le nuove organizzazioni del sindacalismo Wobblie si incontrano con le nuove istanze della classe lavoratrice transnazionale.
Attraverso le politiche dell’emergenza, la crisi è governata sul piano giuridico e istituzionale affinché sia rilanciato il processo di produzione e accumulazione: la recessione è l’elemento centrale nella gestione globale dei processi produttivi. Il carattere globale dell’uso politico della crisi dimostra che la chiave di lettura che presuppone che il potere sia dappertutto – che le funzioni di comando siano distribuite analiticamente attraverso il processo di distribuzione che è ormai irrelato con quello produttivo – non implica in alcun modo una qualche concessione a teorie “deboli” del potere che vorrebbero l’evaporazione del comando, ma una più acuta intelligenza analitica del comando.
Interna a questa intelligenza è la critica delle basi informative della politica attraverso quella governance attraverso i numeri che pre-struttura il territorio sul quale si andrà ad esercitare la decisione politica, e si contrappone all’idea della democrazia come sistema di apprendimento (sconnessione fra esperienza e politica, inibizione della risalita in generalità delle esperienze dei soggetti). Riducendo il lavoro a ciò attraverso cui è calcolata l’occupazione – e i lavoratori stessi a “forze di lavoro” – si eclissano la qualità del lavoro e il suo (ipotetico) contributo all’effettivo esercizio della cittadinanza, mentre le forme quantitative della governance assumono l’aura di una procedura tecnica dall’indiscussa autorità: in altri termini, nell’investimento in forme della governance attraverso i numeri si riproduce quella scissione fra Storia 1 e Storia 2 di cui aveva scritto Chakrabarty.
La composizione del lavoro vivo contemporaneo dev’essere qualificata nelle differenze che la percorrono, scrivevano Chignola e Sacchetto nella presentazione del convegno, «affinché queste differenze possano essere tradotte in una composizione politica soggettiva all’altezza del capitalismo contemporaneo». In altri termini: dar voce ai processi di soggettivazione che rompono con le loro lotte la riduzione del lavoro vivo a mero capitale variabile, far parlare questa differenza nel suo rivendicare – con le parole di Appadurai con le quali si è chiusa la seconda giornata – il diritto alla capacità di aspirare, alla ricerca, in altri termini a quel dato soggettivo, culturale e sociale al tempo stesso, che è il futuro.
Questo report viene pubblicato in contemporanea su connessioni precarie.