di ALESSANDRO TAGARIELLO.

Bruno sta alla finestra di una casa di campagna, occupato a stimare il numero dei maiali di un grosso branco che vaga nel prato di fronte. A Sylvie che gli chiede quanti essi siano risponde:
– Circa mille e quattro.
– Intendi dire circa mille – lo corregge Sylvie –. Non è giusto dire “e quattro”, non puoi essere sicuro dei quattro!
– Non potevi fare errore più grosso! – esclamò Bruno trionfante – È proprio dei quattro che sono certo; sono qui sotto la finestra! Semmai è dei mille che non sono sicuro!
Lewis Carroll, Sylvie and Bruno

Il problema non è sapere come si è entrati nel Cuore di Tenebra dell’orrore, semmai è come se ne è usciti.

Da Conrad a Coppola, il personaggio Kurtz confessa l’orrore più a se stesso, nello stesso istante in cui sembra averne visto la luce più scura. Nella pellicola si è al capolinea, mentre fuori dell’Angkor Wat – come in un quadro di Hieronymus Bosch – la dissolutezza eliogabalica di un culto barbarico preannuncia “TheEnd”: quella del colonnello, dei villaggi vietnamiti e cambogiani soffocati dal napalm, dei soldati consumati dalle droghe e, due anni dopo la guerra, quella dei “quadri” della Rote Armee Fraktion (R.A.F.) che di quell’invasione imperialista ne fecero il primo momento di radicalizzazione politica. Da un capo all’altro, il buio auto-isolamento del mercante/soldato, e la spietata luce sotto-vuoto della Camera Silens1 per i dissidenti perpetui (Foucault). Tardiva auto-coscienza da Viaggio al termine della notte in Kurtz, e salto oltre il bordo che inghiotte la morte nella lotta armata. Umano, troppo umano.

La vaiolazione dell’orrore sarà uno dei temi contro i quali, in America e nel cuore dell’Europa, montano le lotte studentesche che, in qualche modo, culmineranno nel tragico epilogo del 18 ottobre 1977, giorno in cui i componenti della R.A.F. persero la vita presso il carcere di massima sicurezza di Stammheim, a Stoccarda.

“18. Oktober 1977”, questo il titolo dato alla serie di 15 tele dipinte dal pittore Gerhard Richter, partendo dagli shots fotografici sulla loro morte raccolti in quel cupo autunno.2 Undici anni dopo, l’artista sente che è giunto il momento di ripescare dal suo immenso archivio fotografico (Atlas3) quelle “cose non finite”4 pubblicate, all’epoca dei fatti, dalla rivista Stern. – «Non vi è stato un evento particolare che mi ha portato a decidere. Avevo collezionato delle foto e avevo questa idea da diverso tempo. È cresciuta sempre di più, fino a quando ho pensato: devo dipingerla. Io vengo dalla Germania dell’Est e non sono marxista, quindi all’epoca non avevo simpatie particolari per le idee o per l’ideologia che queste persone rappresentavano. Non potevo comprenderle, ma ne ero comunque impressionato. Come tutti, ne ero toccato. È stato un momento molto particolare per la Germania».5Dichiarazione piuttosto generica, poco ragionata, se si vuole, ma smentita dalla straziante, incisiva bellezza di un ciclo di opere che parlano il linguaggio di un uomo che antepone l’inconscio pittorico come antidoto all’ipostatizzazione ideologica. 1988, a 56 anni, dunque, Richter prende commiato dalla spina nel fianco dell’ex-RFT e affronta – come egli stesso preciserà più tardi – il tema della sofferenza e della morte, il tema artistico par excellence.6

Nato a Dresda, l’artista ha vissuto le terribili ricadute ideologiche del nazismo e del totalitarismo sovietico nei confronti dei suoi familiari7della censura dell’uno, e della pittura di partito (realismo socialista) dell’altro. Il momento di svolta arriverà quando visita la mostra documenta II a Kassel nel 1959: virulenza liberatoria dell’Informale (Jean Dubuffet e Jean Fautrier) ed espressionismo astratto (Jackson Pollock) determinano la sua fuga, prima a Monaco e poi a Düsseldorf, poco prima che il muro venga eretto. Da quel momento si dichiarerà rifugiato politico.

Dovrà ripartire da zero; abbandonare il manierismo dilagante, acquisire uno sguardo disinvolto, e soprattutto imparare a disimparare. La ferrea pratica accademica degli anni adolescenziali avrebbe dunque costituito la porta da “scassinare”. L’avvento della pop-art, l’amicizia con l’artista-sciamano Joseph Beuys e il gesto liberatorio di John Cage (al quale dedicherà una serie di dipinti) avrebbero tracciato, in seguito, la via verso l’astrattismo geometrico. Nel mezzo, la densa produzione delle foto-pitture.

A questa pressoché ventennale invenzione appartiene il ciclo “18. Oktober 1977 “. Con l’impassibilità di un coroner Richter annota: «7 dicembre 1988. Cosa ho dipinto. Tre volte Baader, morto. Tre volte Ensslin, impiccata. Tre volte la testa decapitata di Meinhof. Una volta i Meins morti. Tre volte Ensslin, neutre (quasi come una pop star). Poi un seppellimento non specificato, una cella dominata da una libreria, un silenzioso registratore grigio, un ritratto giovanile della Meinhof, sentimentale in maniera borghese, due volte l’arresto dei Meins costretti ad arrendersi al potere dello Stato. Tutte le immagini sono monotone, grigie, molto sfocatee rarefatte […]».8

La questione non risolta di cui Richter parla non si può certo circoscrivere alla sola Germania. In ambito artistico, già dai primi attentati incendiari del 1968 ai magazzini di Francoforte, la coppia Baader-Ensslin scatena qualcosa che tocca le corde di una generazione composita. Matteo Galli parla di isotopia pop: si va dal logo R.A.F., stampato sulla maglia di Joe Strummer dei Clash esibita nel concerto bolognese, al brano omonimo firmato da Brian Enonel singolo-appendice del monumentale Before and After Science. Nel 1972, Beuys espone a documenta V un’installazione dai toni provocatori con una scritta che riporta: “Dürer, io guido di persona Baader+Meinhof attraverso documenta V “.9 Nel 1977, la coppia Dario Fo/Franca Rame firmano un testo-denuncia sul tema della repressione e sulla pratica della tortura. Titolo: “Ulrike Meinhof”.10

Se la coppia Baader-Ensslin produce nell’immaginario di molti – confezionato dai media esteri – una sorta di mitologia alla Bonnie&Clyde, laddove si cerca di decontestualizzarne in qualche modo la carica eversiva contro lo Stato, all’insegna della guerriglia metropolitana (sulla scorta dei Tupamaros in Uruguay, del manuale di guerriglia di Carlos Marighella in Brasile, etc.), la Meinhof ne rappresenta, piuttosto, il corrosivo punto di sintesi. Punto – sostenuto dai movimenti studenteschi e dalle sinistre extra-parlamentari – che tocca il nervo scoperto della gestione politica della fase post-bellica, ma soprattutto che mette in luce l’adesione armata a fianco delle lotte che agitano il Terzo Mondo, e, sul fronte interno, della difesa dei marginalizzati.

Giornalista investigativa del Konkret (mensile militante, vicino al movimento contro il riarmo nucleare sull’asse franco-tedesco), Ulrike Meinhof abbandona la carta stampata nel 1969, dopo averne colto – scrive – la sostanziale debolezza, a fronte di un’escalation di fatti contrassegnati come effetti di uno “stato di polizia”.11 Negli stessi anni in cui butta giù la sceneggiatura per un documentario-inchiesta (Bambulé) – girato nell’istituto di rieducazione di Eichenhof a Berlino – lascia intendere nell’ultimo articolo quale sarà la sua posizione: «Il divertimento è finito. La protesta è dire non mi piace. La resistenza è metter fine a ciò che non mi piace». Il 14 maggio del 1970 libera Baader dal carcere escogitando, complice il legale, la sua fuga. Ulrike Meinhof compie “il salto”.

Ma come mai si ha, da più parti, questo accrescimento di interesse e di partecipazione attorno ad una vicenda così estrema? Cerchiamo di ripercorrere alcune linee di pensiero che passano nelle vicinanze di punti singolari, per vedere come queste costituiscono, in taluni casi, figure opposte, incommensurabilmente distanti, forse oblique, e che ineriscono a problematiche di vasta portata.

Richter_18.Oktober 1977_2È bene precisare che – al netto della “letteratura” sulla R.A.F.12, cui forse mancherebbe ciò che la legislazione archivistica tedesca tiene secretato, a fronte degli accadimenti blindati nel bunkerdi Stammheim – si intende, qui, riportare – al di là del bene e del male – alcuni punti:

1) La questione R.A.F. disegna e feconda il terreno sul quale si impiantano le lezioni che Foucault terrà a partire dal 1977 e per tutto il 1978-1979. È qui che il filosofo potrà parlare di genesi del “modello tedesco”, analizzando il discorso che il futuro cancelliere Ludwig Erhard pronuncerà il 21 aprile 1948 a Francoforte: sconfitta dalla storia, la Germania, seppur divisa, reinventa una nuova figura dello Stato partendo dalla sua natura: se lo Stato non ha alcuna essenza, nessuna forma d’interiorità, ma è sempre preso in un processo di statalizzazione, ebbene potrà e dovrà divenire semplice garante del gioco economico neo-liberale. Mediante il primato della politica monetaria, il graduale processo di liberalizzazione dei prezzi – allargato agli scambi per il commercio estero (America e Inghilterra) – la regolamentazione della concorrenza, e l’istituzione del concetto dell’unità-d’impresa, co-prodotto dall’incessante consenso che passerà tra gli individui che di quell’unità ne saranno, a vario titolo, i punti di condivisione e diffusione, lo Stato tedesco si sgancerà dalla temporalità storica, per assumere un’altra veste, quella economica. Il senso di colpa post-bellico, con tutto il suo carico politico, viene, così, estroflesso e neutralizzato in uno spazio di possibilità non-statale, il Mercato. Si passa, in definitiva, ad una specifica arte governamentale, con la formazione di un quadro giuridico-istituzionale nel quale le azioni regolatrici e ordinatrici renderanno sempre più possibile l’adeguamento della società intera alle leggi del Mercato.13

Questo quadro, inscritto nello spazio della geografia politica tedesca, si tradurrà in una “curvatura” governamentale variabile, la cui linea neo-liberale passerà (tenendo conto dell’area qui affrontata) nelle vicinanze della prima Große Koalition (CDU-SPD) nel dicembre del 1966, rendendo, così, “incompossibile” il passato nazista del cancelliere Kiesinger.

2) All’interno del quadro, inoltre, l’ordine sociale sarà calibrato sull’ordine economico (Wirtschaftsordnung), attraverso una riscrittura dello stato di diritto (Rechsstaat) inscritto nello spazio formale della legge (Costituzione economica). Alla luce della lunga tradizione tedesca, questa nuova figura dello stato di diritto dovrà essere lontana tanto dalle “ingiunzioni coercitivedella potenza pubblicadi un sovrano”, quanto da quella di uno stato di polizia. In breve, si costituirà uno stato di diritto economico (F. A. Hayek).

Esso, dunque, funzionerà come regolatore formale del gioco economico, imponendo dei limiti alla potenza pubblica che dovrà, pertanto, agire nel quadro della legge.14

Rispetto a questo potente spostamento, le azioni e le analisi della R.A.F. sarebbero andate in una direzione affatto diversa, perché agite da un sapere e in una lingua che avrebbero prodotto alcune contraddizioni. A cominciare banalmente dal fatto che ritenevano di trovarsi già in uno stato di polizia.

All’indomani del rapimento del presidente del padronato tedesco Schleyer operato dalla cellula-R.A.F., l’ambasciatore francese a Bonn O. Wormser, avrebbe inscritto, suo malgrado, il timore espresso sulle pagine del Le Monde seguendo curiosamente il medesimo frame di Baader-Meinhof,e mettendone, così, in luce forza e limiti: se lo scambio richiesto tra i “quadri” rinchiusi a Stammheim e Schleyer fosse avvenuto, avrebbe irrimediabilmente indebolito l’immagine del governo federale; in caso contrario, la R.A.F. avrebbe indotto, in un sol colpo, il governo a rinunciare allo stato di diritto avvallato dagli alleati occidentali, con la conseguente regressione verso la violenza di uno Stato autoritario prossimo al nazismo.15

3) In realtà, seguendo ancora le tesi di Foucault, la figura dello Stato era tutt’altro che poliziesca, men che meno nazista. Rispetto ad una sua “riduzione” a forza regolativa, come effetto mobile del biopotere, le azioni terroristiche sarebbero andate nella direzione di una fobia di stato – interiorizzandone pienamente l’immagine statuale – e mettendo, così, in moto il “fantasma” della ragion di Stato. Anche qui, nella tradizione teorica seicentesca, la ragion di Stato era legata al mantenimento dell’integrità della “cosa pubblica”. Ma prima di tutto, era tutt’uno con la necessità che lo Stato si conservasse in sé. La politica della necessità che si fosse imbattuta in un evento che avesse attentato al funzionamento dello Stato, decomponendolo, negandone l’esistenza o parte di esso, avrebbe messo in campo quello che G. Naudé aveva definito colpo di Stato. Il colpo di Stato non avrebbe rappresentato una eccezione, bensì avrebbe coinciso esattamente con «l’affermazione della ragion di Stato», pura «automanifestazione dello Stato». Ed è per questo che la sua violenza «non [era] altro che la manifestazione irruente della sua ragione», uno stato di necessità che aveva a che fare con la salvezza dello Stato. Di fronte ai «perturbatori della tranquillità pubblica» (Chemnitz), la violenza del colpo di Stato avrebbe mostrato l’eccedenza della sua ragione rispettoa qualsiasi legge e diritto, perché la sua arte sarebbe stata derogatoria in prossimità di un limite: la sua stessa sopravvivenza.16

Mentre la guerriglia urbana della R.A.F. va collocata, semmai, nel punto di “insicurizzazione” del patto tra Stato e popolazione – patto che continua a nutrirsi del legame che tiene insieme protezione e obbedienza; e dunque non si sarebbe trattato più di scardinare il governo del territorio secondo una ragion di Stato, perché quest’ultimo era già alle prese con tecnologie di sicurezza che avrebbero tenuto saldo il rapporto tra l’oggetto-popolazione e il suo ambiente, triangolando con la ragione governamentale. Ecco perché il patto legittimava lo Stato a debordare dalle leggi, mettendo in campo misure ad hoc,17 a fronte delle pratiche di prevenzione, gestione, normalizzazione, e – sul piano della gestione penale del crimine – dello strumento dell'”enforcement.18

In definitiva, il coinvolgimento e l’interesse esterno verso ciò che accadeva nella RDT stava reagendo a più livelli al tema dei temi – e con le contraddizioni di chi non ha ancora parole e nuove griglie analitico-strategiche per nominare ciò che lo sopravanza: lo sviluppo, ovunque, delle società sicuritariee dei suoi effetti striscianti nella vita di ognuno.

Nel 1988, Richter dirà: «Sono rimasto colpito dall’energia dei terroristi, dalla loro determinazione che non ammette compromessi e dal loro estremo coraggio. Tuttavia, nel profondo del mio cuore, non riuscii a condannare lo Stato per la sua risposta dura. Questa è la natura di uno Stato, e ne ho conosciuti di ben più spietati. Le morti dei terroristi, e gli eventi relativi sia prima che dopo, rimangono un orrore che mi angoscia e mi perseguita sin d’allora, come una questione non risolta, nonostante tutti i mie sforzi per reprimerla».19

L’artista aveva bisogno della distanza storica per circoscrivere quel momento, spegnerne l’effervescenza emotiva e mettersi, così, al lavoro. Ricerca «le foto delle vite private dei militanti della Rote Armee Fraktion, le loro operazioni, documenti di polizia», e giunge a restringere il campo in modo istintivo. Ma come verrà risolta con i mezzi precipui della pittura, la “bruma” che avvolge la loro morte? Innanzitutto, perfezionando una praxis meccanica che attinga dello strumento fotografico l’impersonalità e l’automatismo, qualità che costituiscono quella fascinazione warholiana verso il mezzo a cui strappare, secondo un senso tutto tedesco, «una bellezza molto seria».20

È bene ricordare che quando la fotografia appare (XIX sec.), la pittura ne riconosce presto il regime di visibilità, l’immediatezza, se si vuole, brutale nel cogliere ogni dettaglio accanto ad altri dettagli, e reagisce, così, attraverso una graduale ma decisiva virata verso l’autoconsapevolezza dei propri mezzi, la definizione di uno statuto di possibilità tecnica, evitando il pericolo di confinamento degno di un reparto d’étagère. Insomma, con l’invenzione fotografica si riesce ad ottenere un universo di immagini con tale tecnica istantaneità da far impallidire il lungo apprendistato pittorico che aveva portato, in passato, ad inventare, ad esempio, il come si dovesse dipingere un nudo.

Ora, l’invenzione delle foto-pitture – intrapresa già dagli anni Sessanta – rappresenta per Richter, prima di tutto, il desiderio di fare dell’atto pittorico non qualcosa che mimi la fotografia – raggiungendo banalmente l’iperrealismo – né tantomeno un materiale di partenza da trasfigurare (per intenderci, alla Bacon), bensì un dispositivo autonomo, informale che, dello strumento, ne possa estrarre analogicamente l’essenza, lo stesso funzionamento: dalla foto come effetto, al suo interno macchinale, a quel processo pulviscolare a metà strada tra una reazione chimica e il trasferimento fisico dell’immagine sul supporto-carta. Ci si trova, così, in una zona di “mezzo”.

Se la fotografia è «la Contingenza suprema, spenta e come ottusa, la Tyche» (R. Barthes), quella «Tale cosa così com’è-esattamente» perché il suo referente, ovvero ciò che è fotografato, non è altro che Spectrum (al contempo, ciò che che è visto e ciò che ritorna come spettro o cosa già morta in quanto segno indiziale, traccia o impronta luminosa) – ebbene, cosa accade quando è la morte stessa ad esser fotografata?21

Richter_18.Oktober 1977_1Già il cinema con Wenders aveva tentato l’esperienza di riprendere la lenta agonia della morte (Lightning Over Water- Nick’s movie), contravvenendo alle regole di André Bazin sull’impossibilità di filmarla, pena l’oscenità (o-skenè). Ma qui, ci si trova di fronte l’orrore statico di frammenti scattati dalla polizia come reperti subito mediatizzati – e, dunque, con il problema della compulsiva partecipazione in quanto martiri (testimoni, nell’etimo) anestetizzati. Ecco la necessità di Richter di «trasformare l’orrore in qualcosa di più vicino al dolore»22, approfondendo quanto aveva già iniziato a fare in passato: forzare la riserva di giudizio di amorfi spettatori – con la loro lettura passiva – e portarli ad una partecipazione attiva servendosi della tecnica della sfocatura e delle tonalità di grigio.

Intanto, sarà necessario eliminare «gli artifici di forma, colore e composizione» presenti in una foto, per tradurli in pittura, dando «ai quadri un carattere il più possibile non-artistico, impersonale e distante».23

La mancanza di colore negli shots utilizzati gli permetterà di seguire meglio l’idea secondo la quale il grigio in sé “non è né visibile né invisibile”. Ci si trova, così, prossimi al nulla, dice Richter. Del resto, nella fotografia, la lenta apparizione dell’immagine in b/n (immagine latente) non è altro che l’effetto del rivelatore (bagno di sviluppo) che permette una reazione chimica in cui avviene uno scambio tra elettroni (riduzione) dell’alogenuro d’argento a vantaggio dell’argento metallico (gamme di grigio/nero). E dunque, in un processo di assimilazione analogica, la costruzione pittorica di questa sensazione, mediante il grigio, restituisce in pittura l’impercettibile palpito o l’esalazione della vita (oggetti compresi, come nel caso di Plattenspieler, il giradischi di Baader).24

Banalmente, ci sono due modi per ottenere il grigio: il bianco e il nero (colori acromatici, freddi e dalla resa piatta), ed uno colorante (Deleuze) – grazie al dosaggio dei primari – che permette una sorta di modulazione equilibrata rispetto alla fonte luminosa. Richter segue quest’ultima modalità per sovvertire la sensazione depressiva, permettendo, così, il passaggio attivo dello sguardo.

Se la fenomenologia dei grigi è il materiale luminoso che misura la temperatura della visione, la tecnica della sfocatura ne rappresenta la sostanza concettuale.

È soprattutto nei quadri Erhängte (Impiccata), Zelle (Cella), Festnahme 1 e 2 (Arresto I e II) e Beerdigung (Funerale), che vediamo svilupparsi potentemente questa tecnica. Qui, nel duplice trattamento iniziale del materiale fotografico di partenza (solventi o processo seriale della fotocopiatrice), e sulla tela (l’uso dell’episcopio, prima, e l’offuscamento pittorico, dopo), c’è del lucore diffuso che rende opalescente ogni zona. La smarginatura dei contorni, in orizzontale o in verticale – per il tramite di pennellate, ora vigorose e rapide, ora vellutate – mostra una sorta di progressiva eutanasia della vista; o meglio, ciò che accade agli occhi quando mancano la messa a fuoco (al contempo, presbiopia e miopia). Essenziale, pertanto, è fissare il movimento apparente tra il vicino e il lontano. E questo ci condurrebbe a ciò che avviene anche nell’universo sonoro: un massimo di amplificazione corrisponde scientemente ad un minimo di emissione vocale. Pura risonanza, alone visivo. La praxis pittorica, in definitiva, diviene pittura fotografante, piuttosto che fotografica. E di colpo il nostro sguardo di fruitori precipita in quell’istante fenomenico illocalizzabile, prima che l’irreparabile giunga, e del quale “18. Oktober 1977”ci conserva, sfocandosi in superficie, il simulacro di un esperienza visiva impossibile da riferire. Adesso, non ci può essere orrore, riserva di giudizio, di fronte alla cronaca, perché siamo tutti dentro un’esperienza comune. Non conta più il modo in cui si muore, né il dove, perché non si cessa di morire. Del resto, non è forse vero che «l’occhio è l’evoluzione biologica di una lacrima»? (A. Grifi)

Dice Richter: «Non ho mai trovato che mancasse nulla in una tela sfocata. Anzi, vi si possono vedere molte più cose rispetto ad un’immagine ben messa a fuoco. Un paesaggio dipinto con esattezza impone di vedere un numero determinato di alberi, chiaramente differenziati, mentre in una tela sfocata possiamo percepire tutti gli alberi che vogliamo. Il dipinto rimane più aperto».25

La sfocatura, quindi, permette e dispone di un’apertura. Ma in che senso?

Ebbene, ci sembra si possa affermare quanto Umberto Eco aveva ben visto a proposito dell’arte contemporanea: l’opera d’arte – con le dovute cautele e verifiche tra “stimolo immaginativo” e risultato pittorico, nel passaggio analogico dalla “visione delle cose implicita nella nozione metodologica a quella manifestata dalle nuove forme”– è una “metafora epistemologica” delle scienze moderne. Queste hanno fornito alla visione estetica un mondo fenomenico discontinuo, mettendo “in crisi la possibilità di una immagine unitaria e definitiva”. Alla univocità del significato di un messaggio ridondante e chiaro – come avveniva in passato, si è dunque sostituito la «proliferatività ambigua, imprevedibile, disordinata», che può esser pienamente compresa secondo la teoria dell’informazione: quanto più la sintassi interna di un’opera risponderà a questi parametri, tanto più ricca sarà la sua potenza comunicativa. Se l’opera d’arte si muove in un “campo” di «possibilità interpretative» (fruizione), «di stimoli dotati di sostanziale indeterminatezza» (atto ideativo), è perché ha tradotto, nel suo specifico, una radicale messa in crisi delle «logiche a due valori, dei rapporti di univocità, del principio del terzo escluso».26

Difatti Richter ci ricorda che: «I quadri che possiamo interpretare e che contengono un significato sono cattivi esempi di opere d’arte. Il quadro di per sé è confusione, assurdità, incongruenza. Ci priva delle nostre certezze perché priva ogni cosa di qualsiasi nome o significato. Ci rivela invece l’universalità e la pluralità di significati che impedisce di formulare un singolo giudizio e un solo parere».27

Se ogni opera d’arte è un’analogia di qualcosa, e non ha l’ottusa presunzione di fornire una interpretazione del mondo – quanto, piuttosto, di costruire un suo proprio regime di verità molteplice – allora si tratta di sapere quale possa essere la soglia metaforica, o quell’impensato epistemologico che, muovendo dal ciclo delle 15 tele, ha tracciato nuovi territori. Si potrebbe azzardare un’ipotesi: lungo l’antico e tortuoso sentiero del paradosso logico, da quello del Sorite (Eubulide di Mileto) alla più moderna logica fuzzy (Lotfi Zadeh), si fa strada il problema di cogliere e risolvere ciò che passa tra più gradi di verità nei termini di una formalizzazione logico-matematica, e che possiamo trasporre, analogicamente, in un quesito: ancora una volta, quando davvero inizia e/o termina qualcosa, un insieme, a partire dalla morte di un corpo? Ma qui, prima che il problema matematico si risolva nel grado di esattezza, di precisione (le diverse applicazioni del fuzzy set nelle scienze applicate), il regime di visibilità della logicasfocata resta visibilmente aperto, producendo non solo un altro sguardo (l’effetto blurred28), e – ahinoi – certa “cosmesi” plebiscitaria d’oggi (applicazioni fotografiche negli smartphone), quanto piuttosto la ripresa di una continua cattura, dei tentativi di inclusione, insomma, l’interminabile battaglia, tutta politica, tra la dialettica a due termini, e la vaghezza di una linea a n-dimensioni che l’attraversa: binarizzazione del sapere con i suoi dispositivi di potere, da un lato, e fuzzyzzazione dell’indeterminato, dall’altro.

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  1. Cella totalmente isolata, schermata dal buio o da una luce continua che altera in modo irreversibile le funzioni neuro-vegetative del carcerato. Per approfondimenti vedi: → 9 maggio. Ulrike Meinhof. Rapporto della commissione internazionale d’inchiesta sulla sua morte

  2. La serie fu esposta nel 1989 al Museum Boymans-van-Beuningen di Rotterdam suscitando molte critiche, e, nel 2001, a New York, dopo gli attacchi al World Trade Center. Il ciclo è stato acquistato dal MoMA nel 1995, dove tutt’ora è custodito. 

  3. A proposito dell’archivio/mappa – autentica opera d’arte a sé, che conta, ad oggi, più di 5000 immagini, collage, schizzi, disegni e progetti – Dietmar Elger, segretario e collaboratore dell’artista, scrive: «L’Atlas nacque dalla necessità. Dalla fine degli anni Sessanta, Richter sentiva il bisogno di analizzare e organizzare la massa di materiale visivo che aveva accumulato, e di renderla presentabile. [Richter]: – Da principio, cercai di metterci dentro qualunque cosa, dall’arte alla spazzatura, che in qualche modo apparisse di rilievo, e che sarebbe stato un peccato buttare via». Tratto da: Dietmar Elger, Gerhard Richter, A life in painting, University of Chicago Press, nuova ediz. del febbraio 2010, pag. 84. 

  4. È ciò che Richter dice relativamente alla genesi delle opere. Tratto da una conversazione con Jan Thorn Prikker. Il testo di riferimento, ricco di interviste, appunti, manifesti dell’artista è: Hans Ulrich Obrist, Gerhard Richter. La pratica quotidiana della pittura, Postmedia Srl, Milano, 2003, pag.141. 

  5. Interview with Gregorio Magnani, 1989. Gerhard Richter: Text. Writings, Interviews and Letters 1961–2007, Thames & Hudson, London, 2009, p. 22; vedi anche → l’agile sito web dell’artista da cui è tratta l’intervista. 

  6. Hans Ulrich Obrist, Gerhard Richter. La pratica quotidiana della pittura, pag. 143. 

  7. Due dei tre fratelli della madre persero la vita in guerra, mentre sua zia fu rinchiusa in un ospedale psichiatrico e lasciata morire di fame. Su di lei furono, tra l’altro, effettuati esperimenti eugenetici. 

  8. Op. cit., pag. 133. 

  9. L’articolazione del discorso affrontato dal prof. Matteo Galli, che porta il titolo: Da Ofelia a Maria Stuarda: l’iconizzazione di Ulrike Meinhof, è contenuto nella raccolta curata da V. Fortunati, D. Fortezza, M. Ascari, Strategie di rappresentazione della guerra nella cultura contemporanea, Meltemi ed. 2008, pag. 272. 

  10. Questo testo dattiloscritto e rivisto da Dario Fo, rientra nell’ampio corpus di riflessioni ed azioni che Franca Rame stava conducendo in quegli anni sulla questione femminile, ovvero Tutta casa, letto e chiesa – 1977 Monologhi satirici sulla condizione della donna. Vedi anche il → Testo per la presentazione di “Ulrike Meinhof”

  11. Riportiamo un paio di episodi significativi che la Meinhof denuncia con forza dalle pagine del Konkret:
    – Berlino Ovest, 2 giugno 1967. Durante la manifestazione studentesca contro l’imperialismo americano in Vietnam, la polizia tedesca dà una mano al servizio di sicurezza iraniano che carica la folla, pressata dietro le transenne, durante la visita dello Scià di Persia; nella fuga, un poliziotto spara alla testa dello studente tedesco Benno Ohnesorg.
    – Berlino Ovest, 11 aprile 1968. Il leader del movimento studentesco, Rudi Dutschke viene ferito in un attentato da uno studente di destra, Josef Bachman, nei pressi della sua abitazione. Lo studente porta con sé un articolo ritagliato dallo Nationalzeitung (giornale di destra) in cui si incinta palesemente a fermare il leader del movimento. Ne seguirà, presto, l’incendio, da parte di alcuni compagni di Dutschke, di alcuni camion della Springer Publishing Company, casa di distribuzione della testata. La Meinhof mette in evidenza le connessioni tra le azioni del governo e la campagna d’odio della Springer Publishing, per il tramite del sindaco di Berlino, Klaus Schütz.
    – Per gli stralci degli articoli, e per altri punti affrontati qui, ci si rifà al saggio del Dipartimento di Studi Strategici presso il King’s College London: → Ulrike Meinhof: un caso di terrorismo locale nella Germania Ovest. In questo studio, tra l’altro, si riportano le tesi sostenute da due sociologi italiani, Donatella Porta e Mario Diani, secondi i quali il processo di radicalizzazione politica della Meinhof sarebbe da attribuire ad un frame ideologico che si snoda attraverso tre elementi: diagnostico – prognostico – motivazionale. A tal proposito – e in una direzione opposta – abbiamo l’orrida vicenda legata alla pratica anatomo-patologica operata sul cervello della Meinhof all’indomani della sua morte (1976); pratica che rientra nel doppio dispositivo di secretazione e disciplinamento, intrapresa rispettivamente dal professor Jürgen Pfeiffer e dallo scienziato Bernhard Bogerts; tutto questo in uno degli articoli della acritica stampa italiota: → Il giallo del cervello rubato di Ulrike Meinhof

  12. Senza dubbio il testo più consultato da più parti è quello del giornalista Stefan Aust, amico della Meinhof, nonché collaboratore nel mensile Kronkret: Stefan Aust, Rote Armee Fraktion. Il caso Baader-Meinhof, Il Saggiatore ed., 2009. Con un taglio più “intimista”, e con un’ analisi trasversale alle dinamiche ideologiche interne al gruppo terroristico e’ quello di Agnese Grieco, Anatomia di una rivolta. Andreas Baader, Ulrike Meinhof, Gudrun Ensslin. Un racconto a più voci, Il Saggiatore ed. 2010. Più diretto, è il bel libro scritto da uno dei sequestratori del presidente della confindustria tedesca Hans-Martin Schleyer: Peter Jürgen-Boock, L’autunno tedesco. Schleyer – Mogadiscio – Stammheim, Derive/Approdi, sul quale vedi la → recensione di Daniela Bandini su Carmilla

  13. Michel Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli ed. 2012, pp. 78-83. 

  14. Op. Cit. pp. 141-143. 

  15. La dichiarazione dell’ambasciatore viene pubblicata il 5 novembre 1977. Si è tenuto conto della nota riportata a pag. 306 del testo succitato, in riferimento alla lezione del 21 febbraio 1979. 

  16. Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli ed. 2010, pp. 189-192. 

  17. A partire dal 1968, nella RDT, si ha l’inasprimento delle norme eccezionali per l’ordine e la sicurezza (Notstandgesetze), come il Radikalenerlass – che vietava al pubblico impiego qualsiasi frequentazione con formazioni politiche estremiste, pena il licenziamento (Berufsverbot); il blocco dei contatti esterni tra i prigionieri della R.A.F. e gli avvocati, dopo il sequestro Schleyer (Kontaktsperre), e, infine, la riforma del codice di procedura penale che limitava il diritto di difesa ai terroristi, nonché la facoltà data al tribunale di sospendere quegli avvocati sui quali ci fosse il sospetto di complicità con i detenuti in attesa di giudizio; tutto questo, porta uno degli avvocati del gruppo Baader, Klaus Croissant, estromesso dal collegio difensivo, arrestato e dopo un anno scarcerato, a riparare in Francia chiedendo asilo politico. Croissant aveva anche chiesto che si costituisse una commissione di inchiesta sulla morte per impiccagione (indotta o mascherata?) della Meinhof nel supercarcere di Stammheim, e proprio in Francia troverà una platea di intellettuali (Sartre, Genet, Deleuze, Guattari e Foucault) attenti al suo caso e all’intera vicenda, soprattutto quando, nonostante la richiesta d’asilo, viene arrestato nuovamente, estradato e consegnato alle autorità giudiziarie tedesche nel novembre del 1977. Sull’affaire Croissant, si cristallizzeranno alcune posizioni di metodo e di linguaggio che determineranno, ad esempio, la rottura dei rapporti tra Deleuze/Guattari e Foucault. Dalle pagine de Le Nouvel Observateur, Foucault prenderà le distanze dal consenso e dal peso che Deleuze e Guattari avevano attribuito al terrorismo come strumento rivoluzionario, a fronte di un modello, quello tedesco, che, secondo loro, era divenuto repressivo, e sarebbe stato, ben presto, esportato in tutta Europa. Non solo, è proprio da quelle pagine che Foucault inizia ad elaborare quello che diventerà il diritto dei governati, il diritto dei diritti, distinguendo nettamente l’idea inderogabile di permettere a chiunque di esser difeso, dalla adesione ideologica al terrorismo quando questo è circoscritto ad un gruppo che agisce in nome dei “tanti”. Altra cosa, dirà, sono le sollevazioni di popolo contro un potere, lì dove l’uso della violenza può assumere un valore, come nel caso del movimento rivoluzionario islamico in Iran nel 1979, da lui stesso seguito. Per la ricerca sulle leggi d’emergenza e per altri punti, ci si è rifatti al testo RAF: per noi era liberazione. Un’intervista con Irmgard Möller su lotta armata, galera e sinistra (→ qui il pdf), pubblicato dal collettivo autistici.org. La seconda parte di questa nota, invece, è ripresa dall’intervento del curatore Michel Senellart, posto in chiusura delle lezioni di Michel Foucault: Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), pp. 276-279. Sulla posizione di Foucault durante l’affaire Croissant vedi la Prefazione di Sandro Chignola a Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-1979), a cura di S. Chignola, ombre corte, Verona 2006, pp. 7-12. 

  18. In un passo, Foucault definisce così l’enforcement (dispositivo di traduzione e regolazione sul corpo sociale e politico dell’interdizione legislativa penale): «L’enforcement della legge è l’insieme degli strumenti di azione sul mercato del crimine, che oppone all’offerta del crimine una domanda negativa», Michel Foucault, Nascita della biopolitica, 209-211. 

  19. Gerhard Richter: Text. Writings, Interviews and Letters 1961–2007, Thames & Hudson, London, 2009, p. 202. 

  20. Tratto da Interview with Christiane Vielhaber, 1986. Op. Cit., p. 191. 

  21. Si è tenuto conto sia delle preziose disamine di Roland Barthes presenti in: La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, 2003, pp. 8-11; sia del saggio di Philippe Dubois, L’atto fotografico, Quattroventi, 1996, pp. 48-49. Dubois, pur partendo da alcune analisi semiologiche di Barthes, le aggiorna secondo il lessico espresso da C.S. Peirce, superando così l’idea mimetica e oggettiva della fotografia in relazione al suo referente. 

  22. Hans Ulrich Obrist, Gerhard Richter. La pratica quotidiana della pittura, pag. 145. 

  23. Dietmar Elger, Gerhard Richter. A life in painting, University of Chicago Press, nuova ediz. del febbraio 2010, pag. 176. 

  24. Il giradischi – reso in modo molto sfocato – conteneva, con ogni probabilità, l’arma da fuoco con la quale si ipotizza che Baader si sia ucciso. Lo afferma anche Richter in: From a letter to Edy de Wilde, 23 February 1975. Gerhard Richter: Text. Writings, Interviews and Letters 1961–2007, Thames & Hudson, London, 2009, p. 92. 

  25. Interview with Irmeline Lebeer, 1973, op. cit., p. 81. 

  26. L’opera d’arte come campo problematico in relazione alle modificazioni dell’episteme scientifica moderna è stata splendidamente affrontata da Umberto Eco nel capitolo: “L’opera aperta nelle arti visive” in Opera Aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Bompiani, Milano, 1993, pp. 153-168. 

  27. Interviews and Letters 1961–2007, pp. 32-33. 

  28. Interessanti per via della morbida espressività – che annulla e indirizza la vista sul piano dell’ascolto – gli effetti blurred utilizzati, ad esempio, in alcuni video-clips musicali come nel brano soul-step di James Blake → The Wilhelm Scream, o nella fotografia d’arte di → Michael Ackerman