Segnaliamo l’uscita del nuovo numero di Zapruder – Rivista di storia della conflittualità sociale (http://storieinmovimento.org/2018/07/05/quarantaseiesimo-numero/), che propone una prospettiva eterogenea e multi-situata sul tema “logistica”. All’interno di un crescente dibattito critico che adotta, soprattutto a livello internazionale, la logistica quale produttiva lente analitica per inquadrare i conflitti e le nuove spazialità globali, nonché per ri-definire l’agire politico contemporaneo, questo numero ha il merito di riportare in Italia tali discussioni. La logistica viene infatti qui indagata nella sua polisemia e prismaticità. Dagli immaginari di bruciante accelerazione che si esprimono nelle infrastrutture come Hyperloop alla Nuova via della seta, dai nuovi paradigmi applicati alle migrazioni alle genealogie logistiche, passando per i conflitti emersi negli ultimi anni nel settore del trasporto merci così come nella nuova logistica metropolitana esemplificata dai rider, e giungendo alle trasformazioni metropolitane sospinte dalla logistica, questo numero di Zapruder intreccia tutti questi fili apparentemente sconnessi mostrandone la comune matrice logistica quale complessa intelaiatura, ricorrendo ad approfondite analisi, interviste, reportage fotografici e inchieste. Nel numero è inoltre contenuto un “Manifesto di critica logistica” a cura del gruppo di ricerca Into the Black Box (http://www.intotheblackbox.com/) e un’intervista a Manuela Bojadžijev e Sandro Mezzadra, della quale riportiamo alcuni estratti.
D: Terza domanda, più politica se si vuole, anche a partire dalla cosiddetta “estate delle migrazioni” del 2015. Come possiamo pensare l’autonomia delle migrazioni attraverso le lenti della logistica? Pensate inoltre possano essere utili alcune posizioni che si stanno sviluppando in proposito come ad esempio l’idea di “contro-logistica” o dei “mobile commons”?
MB: Guardando a quanto avvenuto nel 2015 all’interno di una dimensione temporale più ampia e a partire dall’approccio dell’autonomia delle migrazioni, risulta piuttosto chiaro che la trasformazione nella gestione europea delle migrazioni si è data anche a partire da uno spostamento di focus che non si limita più solo al controllo delle persone in movimento, ma che fissa anche come target le persone che aiutano i migranti che trasgrediscono i confini. Ora, se si guarda all’ammontare dei profitti che sono stati sviluppati nell’industria delle migrazioni – da un lato da parte di chi facilita i movimenti migratori e dall’altro di chi tenta di fermarli o regolari (si pensi al sistema di software necessari per prendere le impronte digitali o per gestire i dati che vengono raccolti sui confini, o anche all’apparato logistico militare che si sviluppa sui confini europei e oltre i suoi territori) – vi sono molte inchieste che mostrano come su entrambi i lati i profitti siano davvero molto alti. Dunque stiamo osservando che attraverso la fissazione quale obiettivo dei trafficanti di esseri umani, ossia il concentrarsi da parte dei sistemi logistici di controllo delle migrazioni sulle persone che facilitano la logistica dei migranti, ecco che lo sguardo logistico ci aiuta a osservare queste forme di mobilità anche come un sistema di profitto. Questo è stato un importante elemento da portare in rilievo per aggiornare la prospettiva dell’autonomia delle migrazioni e per discutere un’altra serie di nodi critici, soprattutto per le questioni in qualche modo legate allo spazio del politico o alle politiche. L’autonomia delle migrazioni era legata in modo analogo alle trasformazioni della cittadinanza, a come sono organizzati i confini, e dunque di base a come lo Stato e le istituzioni sono organizzate. Ora, se introduciamo il tema del profitto o dell’industria delle migrazioni, o se si vuole del capitale attraverso la logistica, questo passaggio diventa una sfida rispetto a come concettualizzare la domanda dell’autonomia, perché in fondo quest’ultima è una categoria politica.
SM: Io penso che l’importanza di questa domanda sull’autonomia, davvero molto generale, e certamente non nuova, approcciata all’interno dell’autonomia delle migrazioni, imponga di ricordare che, pur all’interno di molti differenti usi e prospettive, noi abbiamo sempre enfatizzato l’autonomia delle migrazioni, e non dei migranti. Ciò significa che abbiamo sempre cercato di concepire l’autonomia in termini sociali, e non a partire dagli individui. Penso che questo sia molto importante, e nell’uso che è stato fatto negli ultimi anni della frase “l’autonomia delle migrazioni” c’è stato a volte un certo fraintendimento, o sovrapposizione tra i due. Questo espone al rischio del ritorno di una concezione davvero tradizionale di autonomia, in termini liberali. Io penso che l’angolo logistico ci aiuti a enfatizzare di nuovo questa dimensione sociale dell’autonomia, che deve sempre essere indagata e compresa attraverso i modi in cui il movimento delle migrazioni si confronta con il controllo delle agenzie governamentali e del capitale. È in questo momento di incontro e/o scontro che l’autonomia assume la forma di un eccesso, e attraverso la lente della logistica si può sviluppare una sorta di micro-analisi di questi momenti di eccedenza che si riproducono lungo tutto il processo migratorio e in relazione con una molteplicità di attori. Ovviamente credo che nozioni come quella di “mobile commons”, o se si vuole anche quella di “undercommons” proposta da Fred Moten e Stefano Harney, possano essere utili per descrivere ciò che sta accadendo nel campo delle migrazioni dal punto di vista di un’auto-organizzazione della logistica del movimento, del transito e dell’attraversamento dei confini. Ma penso che questo sia solo un momento dell’autonomia delle migrazioni, del quale possiamo elaborare una significazione attraverso una prospettiva logistica. E, da un punto di vista più generale e non esclusivamente legato alle migrazioni, per me tutto ciò ci dice qualcosa anche rispetto alla rilevanza, e anche ai limiti, del più ampio concetto di contro-logistica. Mettendola in forma semplificata, piuttosto che la contro-logistica come elemento principale, io piuttosto preferirei parlare di una contro-politica logistica che include la contro-logistica quale uno dei suoi momenti. Pensare alle resistenze e alle lotte da un punto di vista logistico implica necessariamente il prendere in considerazione una molteplicità di forme di lotta e di resistenze eterogenee. Quindi si può considerare il tipico esempio di contro-logistica, ossia il blocco dei flussi; possiamo vedere svariate forme di sciopero prodotte da soggetti più o meno tradizionali, nei magazzini di Amazon così come nei porti; si possono considerare i tentativi di confrontarsi con le forme emergenti di platform capitalism, che assumono, almeno potenzialmente, forme molto variegate, dal tentativo di costituire forme organizzative autonome (che non possono assumere la storica forma delle cooperative), fino all’insistere su modificazioni istituzionali attraverso trasformazioni normative ecc… ecc… Penso dunque che sia un compito molto importante quello di costruire un catalogo di queste forme che attraversano, in concreto e come potenzialità, tutti i circuiti logistici. E, per tornare alle migrazioni, credo che queste ci consentano di guardare a queste forme attuali e/o potenziali di lotta e resistenza in una forma molto chiara.
MB: Vorrei aggiungere, ricollegandoci a quanto detto in precedenza, che è molto interessante raccontare come siamo giunti alla logistica. Quando nel 2014 abbiamo organizzato una summer school chiamata Expanding the Margins ci siamo confrontati con una analisi che integrava una significativa varietà di forme di mobilità, governate in forme assolutamente inedite. In qualche misura ci eravamo resi conto di come il termine “migrante” o “migrazione” non sia più sufficiente per comprendere ciò che sta accadendo. Per questo ci siamo rivolti alla logistica, in quanto consente di osservare l’eterogeneità delle odierne forme di mobilità, e qui vorrei collegarmi col discorso dell’autonomia delle migrazioni. Prendere in considerazione il lavoro mobile assieme al tema delle migrazioni e della mobilità, ci porta a discutere di come la migrazione sia in qualche modo la forma politica di come viene organizzato il lavoro mobile. Se si pensa alla tradizione, e alle sue interne contraddizioni, che ha sempre avuto la discussione sul “lavoro vivo”, si potrebbe dire che quello che manca all’interno dell’autonomia delle migrazioni è un qualcosa che potremmo definire come “migrazione viva”, o “mobilità viva”. E questa potrebbe essere un’analogia che ci aiuta a sfuggire il rischio di una romantizzazione delle migrazioni, che guarda all’autonomia individuale dei migranti, una cosa che in fondo non ci aiuta né a comprendere né ad agire politicamente.
SM: Vorrei anche io aggiungere una cosa, tornando alla prima domanda. Io credo che questa connessione tra logistica e migrazioni apra anche un importante spazio per la ricerca storica. Penso in particolare a quando ci fu un’ondata di nuovi studi sulle migrazioni trans-nazionali negli anni Novanta e Duemila, all’interno della quale si era affermata una concezione storica innovativa delle migrazioni. Penso in particolare al lavoro di Donna Gabaccia sulle migrazioni italiane nelle Americhe tra il XIX e il XX secolo, che adottava con forza le lenti del trans-nazionalismo. Penso che una mossa analitica simile sia possibile rispetto alla questione della logistica delle migrazioni, guardando ovvero alla struttura materiale delle mobilità, oltre che al discorso sul lavoro forzato che dal Medioevo passa ai coolies ecc…