di EURONOMADE.
Il segno delle lotte nella crisi è l’eterogeneità. Percorsi, vertenze, esperimenti di riappropriazione, aperture di spazi di decisione in comune: traiettorie non univoche, che resistono ad ogni troppo facile tentativo di riduzione all’unità, di ricomposizione identitaria o forzosa. La crisi non solo deprezza, dismette, precarizza il lavoro vivo: ma si nutre attivamente della cooperazione sociale e delle singolarità che la animano, distendendo continuamente dispositivi di cattura che uniformano e standardizzano la ricchezza della produzione di soggettività contemporanea. Quando la produzione si fa produzione di soggettività, si lotta innanzitutto per liberare spazi di autonomia della cooperazione sociale, si lotta per destituire il ritmo omogeneizzante della sussunzione reale, per liberare spazi, tempi e possibilità di vita: e, insieme, si sperimentano i modi di connettere le singolarità, i modi dello stare insieme delle soggettività.
Non sorprende, perciò, che, nella crisi, le lotte più incisive aggrediscano il piano della riappropriazione del welfare: è lì che la riconquista dell’autonomia della cooperazione sociale si fa concretamente sperimentabile, trova un respiro duraturo, comincia a battere il ritmo di una politica della connessione delle singolarità, di una produzione del comune. Le giornate del 19 e del 31 ottobre hanno fatto emergere la forza di queste riappropriazioni, a cominciare dal ruolo centrale avuto dai movimenti delle occupazioni di case e per il diritto all’abitare: un diritto alla casa, coniugato immediatamente con il reddito incondizionato, e anzi già praticato come riappropriazione di reddito indiretto, sospinto innanzitutto dai movimenti per il diritto all’abitare cresciuti non solo a Roma ma sedimentati ed espansi nelle altre città e territori della penisola. L’“abitare nella crisi” rilancia, ma contemporaneamente riscrive e rende molto più ricco il “diritto alla città”: la lotta sugli spazi urbani, sulle politiche di trasformazione della metropoli, comincia a vivere nella connessione diretta con le lotte che attraversano la finanziarizzazione dei servizi, la trasformazione del welfare in una serie di dispositivi di workfare ultradisciplinari, la precarizzazione come modalità generale di comando sulle vite. Attorno a questa forza dei movimenti di riappropriazione del welfare, si è costruita, con sapienza, una ampia mobilitazione sociale del precariato metropolitano: si è riusciti a coniugare radicalizzazione e generalizzazione, a evitare logiche interne di separazione tra frange supposte “buone” e frange supposte “cattive”, a costruire uno spazio dei movimenti senza troppe angustie settarie o troppi blocchi identitari.
Molteplici lotte hanno animato questo spazio: accanto ai movimenti dell’abitare, quelli contro le grandi opere, le lotte ambientali, le lotte del Meridione, ma anche fabbriche in lotta, indebitati, studenti. Complessivamente, si è affermata la presenza di un sindacalismo sociale diffuso, metropolitano, che non coincide con la presenza in piazza di organizzazioni sindacali, ma la oltrepassa: tutte le soggettività protagoniste in queste giornate caratterizzano la loro azione come un mix inscindibile di riappropriazione e di autorganizzazione in chiave mutualistica e di rivendicazione e vertenza in chiave sindacale. Questa apparizione di rivendicazione e riappropriazione diretta, di vertenza e di autorganizzazione, ha disturbato a sufficienza i sogni di qualsiasi tentativo di occupare la scena con tentativi di ricomposizione “socialdemocratica” della sinistra. E ha reso avvertibili i limiti fortissimi della chiamata alla difesa della Costituzione: impossibile far rientrare la cooperazione sociale che anima queste lotte dentro gli assetti di battaglie semplicemente difensive di equilibri “costituiti”, della difesa, evidentemente rilevatasi agli occhi di queste lotte piuttosto utopica, di un patto sociale che appare radicalmente estraneo a queste soggettività, che si radicano invece ben più agevolmente sul terreno della riappropriazione dei servizi e della costruzione di un welfare del comune.
Ma soprattutto tutte le varie “vertenze”, che singolarmente hanno animato queste giornate, dal blocco sociale della casa ai no tav, dalle lotte di fabbrica a quelle per il reddito, si installano dentro una più generale connessione molto forte, oramai pienamente acquisita, di vita e lavoro; ed è qui che l’eterogeneità costitutiva del lavoro vivo della metropoli incontra il piano della lotta per il comune, della produzione di uno stare insieme non precario delle singolarità. Ben oltre il sindacato, si sperimentano così nelle pratiche dell’occupazione, delle riappropriazioni, e nelle esperienze mutualistiche dal basso, forme organizzative metropolitane i cui sviluppi potrebbero essere davvero fecondi. Per ora, è evidente che queste giornate segnano anche l’installarsi di queste esperienze mutualistiche su un terreno di generalizzazione (quello che appunto proviamo ad evocare richiamando il “welfare del comune”) molto saldo, che è quello di una conquista di autonomia, alternativa a qualsiasi logica puramente vertenzialistica e a riassorbimenti nell’ambito di una sussidiarietà istituzionale. Ma è un terreno di generalizzazione anche alternativo a qualsiasi ipotesi di organizzazione settoriale: anzi, il tipo di mobilitazioni cui stiamo assistendo segna probabilmente, proprio in forza di questa forte connessione tra vita e lavoro, tra produzione e riproduzione, tra lotte “sui servizi” e lotte “della precarietà”, e grazie ai risultati inediti anche sul piano organizzativo che cominciano ad essere messi in campo, una trasformazione e una generalizzazione delle stesse lotte “del precariato” in un più ampio campo di lotte della metropoli. In questo senso, è giusto affermare l’insufficienza radicale di ogni discorso sul precariato come “soggetto”, se non altro perché le lotte della metropoli mostrano oramai di aver assunto pienamente la precarietà generalizzata come condizione di vita comune. La dinamica espansiva e connettiva che almeno potenzialmente abbiamo sotto gli occhi, evidentemente, fa segno non solo al superamento di ogni semplice vertenzialismo, ma anche al superamento di qualsiasi sociologia del “soggetto precario”: sul terreno della produzione di soggettività, ogni lotta sulla produzione è anche lotta sul suo “fuori” metropolitano, le lotte precarie incrociano in modo non scindibile le lotte sulla vita, sui servizi, sull’abitare, sull’ambiente, sui commons etc.. L’inscindibilità di lavoro e vita nella produzione di soggettività, il superamento della distinzione fra un “dentro” della produzione e un “fuori” della metropoli, produce interessanti potenzialità di generalizzazione dei conflitti metropolitani, ci spinge dentro un terreno di connessioni inedite e produttive: anche se le forme in cui al momento questa inscindibilità di dentro e fuori, di vita e lavoro, si esprime, sono quelle di una forte tensione al superamento del particolare vertenziale, di una tensione ed apertura alla produzione/invenzione del comune, non certo di una rottura, costituente o destituente che sia già data. Questa potenziale “composizione metropolitana”, piuttosto, chiama a uno sforzo ancora maggiore sia sul piano dell’immaginazione organizzativa, sia, soprattutto, su quello dell’elaborazione programmatica: ben poco di spontaneo si dà nello strappare ai dispositivi della sussunzione reale spazi generalizzabili di effettiva e praticabile autonomia della cooperazione sociale. Davvero si tratta di porre mano a una scrittura di “costituzioni” dal basso: di processi costituenti che reinventino, nelle pratiche, la materialità dei diritti sociali, strappandone la misura alle esigenze della distruttiva valorizzazione capitalistica e reinstallandola nella nuova misura della capacità produttiva di una cooperazione sociale liberata e autonoma, di cui questi movimenti sociali radicati nelle occupazioni e nelle riappropriazioni sono espressione diretta.
Questa stessa dinamica di espansione e generalizzazione del welfare del comune nella metropoli illumina anche il significato della composizione meticcia, che tutti hanno rilevato come determinante nello sviluppo di queste lotte: evidentissima nella manifestazione del 19, e forse ancor più rilevante nelle dinamiche del 31. Anche qui, si tratta evidentemente di assimilare fino in fondo il fatto che non è più pensabile nessuno sguardo “settoriale” per leggere la presenza migrante in questa composizione: si tratta davvero di comprendere la produzione di soggettività radicalmente in metamorfosi che le lotte della metropoli dispiegano. Ma l’emergere di questa trasformazione soggettiva, anche qui, non esprime spontaneamente la sua potenza innovativa: l’impatto su linguaggi e pratiche dei movimenti, senz’altro enorme, è probabilmente ancora tutto da indagare. E c’è poco da attardarsi a far sociologia sui migranti di seconda e terza generazione, si tratta di affilare immaginazione costituente, organizzativa e programmatica all’altezza di una complessiva trasformazione della soggettività che interroghi radicalmente obiettivi e pratiche delle lotte.
L’emergere di nuove connessioni di singolarità meticcie, che si muovono dentro la precarizzazione generalizzata dell’intero lavoro vivo, che coniugano vita e lavoro nell’espressione complessiva della forza della cooperazione sociale, che praticano un nesso assolutamente sperimentale tra pratiche mutualistiche e lotte politiche, richiederà immaginazione politica, individuazioni di campagne costituenti e, ancora una volta, l’individuazione di un terreno espansivo. E, per noi, aggredire il piano europeo diventa ancora più urgente. Solo nell’ambito di processi di connessione delle lotte in uno spazio costituente europeo, la costruzione di un welfare del comune può sottrarsi a ricadute nell’ambito puramente vertenziale, che ne costituirebbe il riassorbimento e la sconfitta. Per ora siamo davanti ad un sindacalismo sociale, con una composizione metropolitana che certo indica la strada per un’effettiva riappropriazione moltitudinaria della ricchezza e di pratiche possibili di destituzione del comando finanziario e di liberazione dell’autonomia della cooperazione sociale. Ma gli spazi nazionali, ci dice l’esperienza dei recenti cicli di movimento, rafforzano solo i rischi di ricadute identitarie e sono la tomba delle possibilità espansive verso un autentico movimenti di riappropriazione del comune. E peggio ancora sarebbe nutrire l’illusione che un tale protagonismo sociale sia già l’espressione di “forme di vita” autonome e liberate, e alimentarsi di una radicalità tanto immediata quanto marginale, eludendo le domande politiche che questo “sindacalismo” pone con una certa forza, ma che di per sé non può risolvere. La cooperazione sociale strappa la sua autonomia solo destituendo il comando finanziario, e lo spazio di una destituzione praticata e non sognata non può essere che lo spazio europeo.
In quello spazio, o meglio ancora producendo uno spazio europeo delle lotte, è urgente l’apertura di processi costituenti, l’individuazione di un terreno programmatico praticabile. Campagne sulla riappropriazione della ricchezza; sulla produzione di moneta a misura della cooperazione sociale e non dell’accumulazione finanziaria; sul reddito come liberazione della cooperazione sociale dal ricatto della precarietà e dalla disciplina asfissiante dei dispositivi di workfare; sulla riappropriazione della decisione democratica dei territori contro la devastazione ambientale; sull’autogestione e sulla riappropriazione dal basso dei servizi; su un diritto all’abitare all’altezza della mobilità delle nuove soggettività; su un diritto alla salute agito dalle singolarità e non burocraticamente centellinato e imposto… Un programma europeo scritto dalle e nelle lotte: è il piano sul quale da questo embrionale e promettente attivismo sociale può svilupparsi una forza politica di invenzione e produzione effettiva di un welfare del comune. Altrimenti, è facile prevedere che questo buon inizio avrà solo il destino infausto di ricadere nel buco nero dei tanti piccoli incubi “socialisti” di ricostruzione delle sempre perdenti piccole “sinistre” nazional-statualiste.