di FELICE MOMETTI.

Riprendiamo dal sito connessioni precarie questo testo di Felice Mometti, pubblicato anche (in versione più breve) sul manifesto del 2 agosto 2018.

A forza di guardare solo alla crisi si corre il rischio di perdere di vista la transizione che sta avvenendo, quanto meno da una decina di anni, nella produzione dello spazio urbano. Le prefigurazioni di scenari ed esiti territoriali – come quelle che suppongono l’avvio della formazione di una metropoli policentrica chiamata urb-Italy, oppure danno per scontato l’assemblaggio dei territori in una meta-città – fanno spesso velo alle trasformazioni in atto negli assetti urbani. Senza prendere ad esempio le grandi metropoli, e osservando le dinamiche interne alle aree metropolitane italiane, si scoprono analogie e similitudini con ciò che sta accadendo, su scale e con intensità differenti, proprio nelle grandi metropoli europee e americane. Due domande, su tutte, si pongono come premessa per interpretare la transizione in atto: stiamo davvero vivendo il passaggio epocale dalla città dei luoghi alla città dei flussi? Gli interventi di rigenerazione di intere parti di città stanno cambiando lo stesso modo di produzione dello spazio urbano?

La prima domanda sta alla base del lavoro di Luca Garavaglia, Città dei flussi. I corridoi territoriali in Italia (Guerini e Associati, 189 pp., 24 €). La risposta che l’autore costruisce si articola su tre livelli. I corridoi territoriali rispondono a logiche complesse e costituiscono originali assemblaggi di economia e società che esprimono una nuova forma urbana, presupponendo in modo implicito la messa in fuori gioco di un intero sapere urbanistico in profonda crisi teorica e di prospettiva. Lo sviluppo delle tecnologie ICT e la centralità del settore della logistica hanno consentito la saldatura delle catene del valore, unite non dalla prossimità fisico/geografica, ma da relazioni de-territorializzate che si generano e compongono dello spazio dei flussi. E, terzo aspetto, i corridoi territoriali diventano dei dispositivi di formazione e sviluppo dei processi urbani. Ma che cosa si intende per corridoio territoriale? Se si rimane all’interno di un approccio che somma assi autostradali, ferroviari, collegamenti aerei e reti di informazioni mediante l’analisi dei dati relativi a densità e frequenza degli scambi di persone, merci e informazioni si rischia di cadere nella trappola deterministica della quantità che necessariamente si trasforma in qualità. Garavaglia cerca di stare lontano da questa trappola leggendo alcuni corridoi territoriali italiani, il sistema cuneese, l’Alto milanese e l’Alto Garda (con difficoltà evidenti invece per la Val di Susa, sia a causa dell’approccio ingegneristico-trasportistico, sia per l’opposizione delle popolazioni), come configurazioni territoriali aperte e non come assi lineari tra poli metropolitani. E cioè assemblaggi post-metropolitani che si estendono e interconnettono nuovi assetti spaziali a scale differenti. Per supportare questa immagine, Garavaglia elabora un «indice di corridorietà» che prende in considerazione le dinamiche demografiche, il pendolarismo, il traffico di merci e informazioni, la densità abitativa, il numero degli addetti. Accettando il quadro di riferimento proposto dall’autore, emergono due elementi che lo rendono piuttosto fragile. Il primo, la presenza della metropoli milanese che ingloba più di 250 comuni, circa 4 milioni di abitanti. Una piattaforma territoriale di accesso alle reti materiali e immateriali globali dove sono aumentati contemporaneamente e in modo esponenziale sia gli scambi interni sia quelli esterni di persone, merci e informazioni che gerarchizzano spazi, luoghi, flussi e le forme di cooperazione competitiva tra territori. Il secondo, nell’area metropolitana padana da Milano a Venezia, con propaggini verso Torino e Bologna, anche l’affermarsi di corridoi ed economie a base locale è dovuto in larga parte alla proiezione globale di quello specifico assetto territoriale. Una metropolizzazione del territorio in cui i flussi di merci, persone, conoscenze e informazioni presentano geometrie variabili: in parte sovrapponibili, a volte parallele o convergenti. In un andamento che tende a stratificare – in modo mai definitivo – i luoghi urbani, le piattaforme territoriali, gli snodi infrastrutturali in relazione al dispiegamento e all’incidenza delle catene globali del valore. Ed è da qui che probabilmente deriva anche il carattere instabile di una governance territoriale, che spesso non va oltre un elenco di scenari urbani possibili, non controllabili aprioristicamente ma – in parte – indirizzabili con specifiche politiche imprenditoriali e finanziarie.

Questo, tuttavia, non è l’unico aspetto che sta orientando la transizione in atto nella produzione dello spazio urbano. Simone Rusci, con La rigenerazione della rendita (Mimesis, 124 pp., 20 €) guarda alle teorie e ai metodi della rigenerazione urbana attraverso la rendita differenziale. La rendita urbana assoluta, l’accaparramento di un profitto dovuto alla sola proprietà di un suolo nel momento in cui cambia destinazione d’uso e diventa edificabile, è stata il campo di battaglia dell’urbanistica riformista fino al 1980, quando la Corte Costituzionale ha sentenziato la non separabilità della proprietà privata dei suoli dal diritto di costruire, inaugurando, nei fatti, la lunga stagione dell’urbanistica contrattata e del «pianificar facendo». Per Rusci la rendita urbana assoluta, oltre a essere inestirpabile dall’attuale modo di organizzazione capitalistica del territorio, sta progressivamente diventando controproducente, assumendo un valore negativo anche presso i principali soggetti promotori, pubblici e privati, che agiscono nello spazio urbano. Ciò accade in quanto essa provoca un’eccessiva finaziarizzazione del territorio mediante la costruzione di complessi commerciali, di servizi e residenziali che, in un mercato immobiliare ancora al di sotto dei livelli pre-crisi, hanno solo lo scopo di costituire un valore finanziario negli asset delle società e aziende investitrici. Quindi per l’autore, ma è una tendenza in atto da alcuni anni non solo livello internazionale ma anche nelle città italiane, si deve spostare decisamente il processo di valorizzazione degli spazi urbani verso la rendita differenziale. Il lessico usato evoca e trasfigura il Marx del III libro del Capitale, stabilendo un’analogia tra la natura delle rigenerazioni urbane e la marxiana rendita differenziale, che prende in considerazione la posizione e la fertilità dei suoli agricoli. In questo caso l’autore, con la rendita urbana differenziale, fa riferimento all’attivazione di un processo di valorizzazione e di estrazione dei valori d’uso presenti nello spazio urbano. Dei valori d’uso non limitati alla presenza di servizi, infrastrutture, reti di connessione ma anche, e spesso soprattutto, di identità sociali, stili di vita, capacità di autorappresentazione e iniziativa solidale che diventano catalizzatori e fattori di moltiplicazione capaci di avviare processi di trasformazione. La rendita differenziale come strumento di lettura sociale, di organizzazione territoriale, di rigenerazione urbana e di profitto economico. Da questo punto di vista, Rusci si spinge oltre, sul terreno impervio e illusorio dell’origine del concetto di rendita differenziale dal «rapporto ontologico» tra le attività umane e lo spazio. Più rispondente alle attuali dinamiche metropolitane è invece la descrizione degli interventi di rigenerazione urbana come strumenti di trasformazione e gestione dai confini sfumati e dagli ambiti non necessariamente contigui. In altri termini la rigenerazione delle aree urbane come modo di produzione dello spazio urbano. Generare spazi, luoghi e flussi che proiettano i loro effetti molto oltre le parti di città direttamente interessate dagli interventi e dai portatori di interesse coinvolti. Non abbiamo più a che fare con i classici processi di gentrificazione, con massicci spostamenti di popolazione, quanto piuttosto con una valorizzazione capitalistica dello spazio urbano che tende a superare i rapporti consolidati tra centro e periferia e a ridefinire i confini interni nella città e nelle aree metropolitane. Rigenerare lo spazio urbano in ultima analisi significa costruire la metropoli sulla città e ricostruire la metropoli sulla metropoli: riprodurre e allargare le condizioni, uguali e diverse, della produzione dello spazio urbano. La lettura del libro di Rusci apre un’altra riflessione, non affrontata nel testo, sulla natura e sul ruolo dei valori d’uso urbani e più in generale dei valori d’uso negli attuali rapporti di produzione capitalistici. Se da una parte già si assiste alla sussunzione reale del valore d’uso al valore di scambio (Mezzadra), dall’altra i movimenti dei valori d’uso urbani nell’attuale fase di transizione degli assetti territoriali e metropolitani stanno assumendo un carattere strutturale nel modo di produzione capitalistico, non solo dello spazio urbano? Una domanda che obbliga a fare i conti con i contenuti di un diritto alla città tutto giocato sulla contrapposizione tra valori d’uso e valori di scambio dello spazio urbano. La città diventa, per Lefevre e in parte per Harvey, la proiezione della società sul territorio ma, allo stesso tempo, è anche la mediazione delle mediazioni sociali, territoriali, economiche, istituzionali. Ciò avviene in presenza di una «società urbana» che manifesta una logica diversa dal mercato perché l’urbano è «un’opera» che si fonda sul valore d’uso. Un approccio, questo, che rischia di non cogliere la portata e la profondità delle trasformazioni in atto nello spazio urbano.

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