Di GISO AMENDOLA.

Nell’immediato post-Sessantotto, in Francia, sotto la presidenza di Georges Pompidou, il primo ministro Chaban-Delmas persegue l’obiettivo di «fare le riforme fingendo di fare la rivoluzione», come ha scritto nelle dichiarazioni programmatiche.

Se sul lato della trasformazione si predica gradualità e prudenza, sul lato invece della repressione di «violenti e nemici della Repubblica», cioè dei movimenti sociali impazienti o riottosi alla promessa riformista, non si è perso tempo, approvando un’apposita legge contro il «vandalismo» e le «nuove forme di delinquenza»: «in breve, vengono messe in atto le riforme contro la rivoluzione», come sintetizzano François Ewald e Bernard H. Harcourt nell’utilissima Nota dei curatori a Teorie e istituzioni penali, il corso tenuto da Michel Foucault nel 1971-1972 (Feltrinelli, pp. 344, euro 35, edizione italiana a cura di Deborah Borca e Pier Aldo Rovatti).

È appunto lo scandalo del presente che spinge Foucault a ricostruire la nascita della repressione specificamente moderna. Il filosofo individua così nel soffocamento delle lotte popolari del XVI-XVII secolo contro la fiscalità feudale l’atto di nascita di un sistema repressivo radicalmente nuovo: una giustizia armata che accentra il prelievo fiscale, sottraendolo all’aristocrazia feudale e, allo stesso tempo, trasforma in profondità l’apparato giuridico.

SE NEL MEDIOEVO la iustitia è ancora contesa, duello, una forma di ritualizzazione del conflitto, cogliendo l’occasione della repressione delle sedizioni popolari le istituzioni giuridiche cominciano a centralizzarsi, a essere affidate a un corpo burocratico di procuratori, e, soprattutto, trasformano i crimini da danni da compensare e risarcire, come erano visti nella concezione restitutiva del diritto medievale, in offese all’ordine pubblico e all’interesse generale.

IL DIRITTO PENALE può cominciare così a svolgere funzioni selettive: attraverso l’invenzione della categoria della «delinquenza comune», la giustizia cercherà continuamente di dividere ciò che la ribellione politica potrebbe invece connettere. Il nuovo sistema repressivo traccia così le linee di separazione nella nascente società capitalista: durante le ribellioni seicentesche, occorre evitare ogni comunicazione tra campagne in rivolta e città, così come, nella città industriale dell’Ottocento, il proletariato produttivo deve essere separato dalla plebe oziosa e dissipativa. Non a caso «divisi siam canaglia», canterà a lungo la memoria del movimento operaio.

LE ISTITUZIONI penali non hanno, pertanto, un’origine morale, o puramente sociologica: non sono né la secolarizzazione della vendetta divina, né il mezzo per assicurare l’integrazione sociale contro la devianza. Il giudiziario nasce piuttosto all’incrocio tra i meccanismi dell’estrazione economica capitalista e la logica dello scontro strategico e della lotta sempre reversibile tra i poteri. La repressione divide, separa, redistribuisce: sempre come risposta all’incubo che le rivolte si costituiscano in contropotere politico. Allo stesso tempo, l’analisi dell’apparato repressivo rivela come la statualizzazione, lungi dall’essere, althusserianamente, la creazione di un apparato ideologico, è sempre un processo costituito da connessioni tra dispositivi parziali, discorsivi e materiali, successivamente sovrapposti: una triplice estrazione, di plus-sapere, plus-potere, e plus-valore economico, irriducibile a ogni sintesi definitiva.

PUR NON AVENDO ancora enunciato la sua critica complessiva alle teorie repressive sul potere, Foucault già nel 1971 si mostra perfettamente consapevole della natura produttiva della stessa repressione. Il cuore della razionalità penale è sempre l’insubordinazione dei governati: risiede nella paura dell’emergere della lotta di classe non da un’omogeneità presupposta della classe operaia, secondo l’economicismo del marxismo «ufficiale», ma dalla costituzione di un contropotere politico a partire da lotte, resistenze e soggettività eterogenee e plurali.

SONO PAGINE fondamentali oggi che la repressione e la violenza del comando appaiono le costanti del tentativo di stabilizzazione reazionaria della crisi. Una critica all’espansione incontrollata degli spazi del controllo penale trova la sua forza, ben più che negli improbabili appelli al ritorno a una fantomatica centralità del «politico» contro il «giudiziario», nella capacità di organizzazione e di connessione di tutti quelli che, sia che si ribellino nuovamente nelle strade contro il saccheggio economico e fiscale, sia che attraversino in mare o in terra le frontiere delle sovranità, sia che rompano le sempre ritornanti ossessioni disciplinari e identitarie di genere e familiste o sfidino le ossessioni securitarie del governo metropolitano, sono fatti nuovamente oggetto della secolare guerra, insieme politico-militare e amministrativo-giudiziaria, contro la pretesa «delinquenza».

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 19 febbraio 2019. 

 

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