Di MARCO BASCETTA.
A ben vedere, le limitazioni, gli obblighi, i vincoli, i controlli, le minacce penali che accompagnano l’introduzione del cosiddetto «reddito di cittadinanza» in Italia rispondono pienamente al punto di vista e alle argomentazioni dei suoi più fieri avversari: istigazione al parassitismo e alla passività, abbandono del lavoro come unica fonte di ogni diritto e ogni identità. Raramente il nome è stato così poco conseguenza della cosa. Tanto da rendere del tutto incomprensibile l’opposizione di sinistre moderate e centrodestra alla legge-bandiera dei Cinque Stelle, se non per ragioni strettamente contabili o identitarie. La Lega, per parte sua, non ha fatto invece alcuna fatica ad accogliere lo spirito disciplinante che anima il provvedimento più amato dai suoi partner di governo.
Storicamente, le politiche di sostegno alle fasce più deboli della popolazione (quando non sospinte da impetuosi sommovimenti sociali) sono state anche e soprattutto politiche di controllo dei poveri: disciplinari, prescrittive, autoritarie. Nel 1834 una famigerata legge del Regno unito, imponeva di rinchiudere i poveri (vietando ogni altra forma di assistenza) in tetri opifici, le workhouses, dove, in cambio di cibo e alloggio, sarebbero stati ricondotti alla morale redentrice del lavoro.
Al giorno d’oggi, tuttavia, sebbene la logica sia rimasta nella sostanza molto simile, non si possono più rastrellare vagabondi e mendicanti per la strada con lo scopo di rinchiuderli in fabbriche-prigione, ma la libertà dei poveri può essere acquistata con sussidi altamente condizionati che impongono ai beneficiari comportamenti e modi di vita preconfezionati e rigidamente regolamentati, consegnandoli così all’arbitrio di una burocrazia debitamente indottrinata. Le condizioni di necessità su cui questo sistema di controllo poggia sono ampiamente garantite da uno sviluppo tecnologico e produttivo fondato su un risparmio di lavoro che non si traduce in distribuzione della ricchezza e riduzione dell’orario lavorativo, ma in accumulazione e diseguaglianza.
Il reddito di cittadinanza fu pensato proprio per impedire che le persone sospinte ai margini del sistema produttivo non fossero costrette ad accettare un lavoro a qualsiasi condizione (perlopiù miserevole) come sola alternativa all’indigenza. Non certo perché lo stato stesso si facesse garante, mediatore e organizzatore di un sistema di ricatto al servizio del mercato. Sarà quest’ultimo, infatti, a dettare le condizioni (dove, come, quando) che, alla fine, i percettori del sussidio saranno costretti ad accettare. Mentre alla burocrazia pubblica resterà la prerogativa, da sempre esercitata nel più ottuso e punitivo dei modi, di stabilire l’utilità sociale delle prestazioni che, nell’attesa, saranno imposte ai sussidiati, nonché le regole di vita cui dovranno scrupolosamente attenersi.
Mai contemplata è l’eventualità che questi ultimi possano mostrarsi autonomamente propositivi o possano vedersi riconoscere come lavoro meritevole di retribuzione attività liberamente scelte che non rispondano però ai parametri del mercato o ai desiderata della politica (uno sportello di assistenza ai migranti per fare l’esempio presumibilmente più inviso ai nostri attuali governanti). Stupisce che proprio la chiesa, che dovrebbe mostrare il massimo di sensibilità per la creazione di ricchezza extra-economica, avversi invece il reddito di cittadinanza in nome di un’etica del lavoro del tutto subalterna al regime declinante del lavoro salariato.
Se il sussidio introdotto in Italia non scalfisce in alcun modo lo sfruttamento e la precarietà del lavoro (per non parlare della mitica «rivoluzione del welfare»di cui favoleggiano i Cinque Stelle) sono pur sempre soldi che entrano in tasche desolatamente vuote. Si tratta allora di scardinare, con tutti gli strumenti a disposizione, i criteri restrittivi, le umiliazioni, i ricatti, l’arroganza ideologica che ne regolano l’erogazione.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 13 marzo 2019.