Di PLATEFORME D’ENQUÊTES MILITANTES.

Nei giorni successivi alle elezioni europee il dibattito politico nazionale sembra essersi integralmente riconfigurato sulla base di dati, statistiche, analisi dei flussi e delle tendenze di voto. Il movimento dei Gilets Jaunes, nonostante continui a riunirsi ogni sabato in numerose città del paese, viene ora lasciato sullo sfondo o relegato al tempo passato.

Ciò che conta, dopo il 26 maggio, sono i risultati delle elezioni. Schiere di analisti si avvicendano sugli schermi televisivi per proporci delle interpretazioni, il più delle volte contraddittorie, delle tendenze di voto: Macron ha perso, anche se ha tenuto. Il Rassemblement National ha vinto, anche se arretra rispetto alle elezioni europee del 2014.

Entrambi i contendenti di questa presunta battaglia si mostrano eccitati: Macron, nonostante la sconfitta, si presenta a Bruxelles in qualità di leader del gruppo liberale e come ago della bilancia per la composizione della futura Commissione europea. Marine Le Pen auspica finalmente la sua integrazione nel sistema repubblicano, presentandosi come il polo di un’alternanza possibile. Del resto, se la legalità repubblicana è quella che in sei mesi ha provocato più di duemila feriti, circa 40 persone mutilate e un morto, non si capisce perché Madame Le Pen dovrebbe restarne esclusa.

E i Gilets Jaunes? Non c’è più neanche bisogno di invitare qualche improbabile leader del movimento a discutere in tv, gli analisti parlano direttamente al loro posto. Se il vocabolario a cui si fa ricorso rimane più o meno lo stesso, cambiano i tempi verbali: c’è stata, in Francia, prima delle elezioni, una sequenza di lotta, certamente inedita, ma di cui ora se ne conserva memoria soltanto come una “crisi” che ha segnato il Quinquennio di Macron (la parola “Quinquennio”, più che un termine tecnico, costituisce un auspicio). C’è stata, insomma, la crisi dei Gilets Jaunes.

Questo cambio di passo è avvenuto mentre il movimento continuava, in piena campagna elettorale, a convocarsi ogni sabato in numerose città francesi. Alla vigilia del voto, per esempio, in quella che solo per controsenso può essere definita giornata di “silenzio elettorale”, i Gilets Jaunes si sono ritrovati non solo a Parigi ma anche ad Amiens, la città di Macron, e il giorno successivo a Bruxelles. La nuova linea è stata inaugurata, ancora una volta, da un monito del presidente, che come ogni suo monito, assume al contempo i tratti di una pura provocazione per le migliaia di persone che scendono in piazza e di una chiamata all’ordine nei confronti dei media: «la democrazia non si gioca il sabato pomeriggio». Aggiungendo subito dopo: “Per coloro che continuano a farlo, non c’è più sbocco politico».

A chi oggi si arrovella nel cercare un qualche nesso tra il movimento e i risultati elettorali, dovrebbero bastare le parole del presidente dei ricchi: per coloro che in questi mesi sono scesi in piazza non ci sarà, nel quadro di un sistema marcio e sempre più autoreferenziale, alcuno “sbocco politico”.

Detto altrimenti: in questi mesi non c’è stata nessuna competizione tra delle idee per la conquista di “consensi” e per la formazione di “opinione pubblica”. La reazione del potere costituito nei confronti dei Gilets Jaunes ci ha mostrato che l’industria della comunicazione e la società dello spettacolo presidenziale costituiscono oggi lo spazio privilegiato di una contro-rivoluzione preventiva. Non vogliamo con questo sminuire la portata della violenza fisica che si è abbattuta sui corpi dei manifestanti, ma mostrare come questa violenza sia stata come raddoppiata dal linguaggio dei media. È così accaduto che l’insieme dei media mainstream, di fronte all’emergere di una sequenza di lotta che ha presto assunto i tratti di un vero e proprio sollevamento popolare, si sono stretti attorno a Macron e alla sua polizia.

Una serie di stigmatizzazioni e di provocazioni da parte del governo, amplificate dai media, hanno accompagnato, Atto dopo Atto, la repressione di piazza. L’ultima risale a domenica scorsa: mentre la “Marcia dei mutilati per l’esempio” attraversava le strade di Parigi, il sottosegretario agli Interni, Laurent Nunez, dichiarava: «Non si può dire che ci sia stata un’azione illegale perché una mano è stata mutilata, o un occhio è stato accecato» – una dichiarazione certamente espressa non solo per offendere i Gilets Jaunes mutilati ma anche per rassicurare la polizia e orientare la “giustizia”, proprio mentre si comincia a discutere delle inchieste dell’IGPN.

Sono ancora poche le ricerche che mettono in evidenza come in questi mesi lo spazio della comunicazione si sia definitivamente biforcato: da un lato le reti sociali e le piattaforme indipendenti, che hanno costituito lo spazio della circolazione affettiva, della contro-inchiesta e dell’organizzazione politica del movimento; dall’altro, i principali media del paese, allineati attorno alla logica di guerra messa in atto dal governo. Da questo punto di vista, non si può non vedere come il riconoscimento iniziale delle “legittime” richieste del movimento abbia presto ceduto il passo alla sua definizione in termini di nemico interno all’ordine repubblicano. Così, per il governo come per una parte del mondo politico, i Gilets Jaunes hanno posto anzitutto questioni di sicurezza e di ordine pubblico.

Solo partendo da questa premesse si è autorizzati a dire qualcosa di sensato sui risultati francesi delle elezioni europee. Solo situando cioè questi “risultati” all’interno di un dispositivo governamentale che – come abbiamo affermato in un precedente contributo – è volto alla conversione della lotta di classe in guerra civile, possiamo cogliere la relativa polarizzazione del campo politico-rappresentativo tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen, cioè tra due destre, entrambe con forti connotati autoritari e che avanzano oggi la pretesa di monopolizzare la sfera politica.

Questo dispositivo lo si è visto all’opera fin dalle prime reazioni del governo: nel discorso di inizio dicembre Macron, dopo aver ceduto su poche cose, ha posto con forza il tema dell’identità dei francesi e la questione dell’immigrazione, nonostante il movimento non abbia mai affrontato la questione dell’immigrazione come un problema per il paese. Successivamente, con la lettera ai francesi, Macron si è di nuovo indirizzato alla destra del paese, piuttosto che al movimento, opponendo la questione fiscale e quella dei diritti sociali. Il Grand Débat National, a sua volta, è tornato a più riprese sull’immigrazione, e l’incendio di Notre Dame ha fornito l’occasione al presidente per rivolgersi alla parte più conservatrice del mondo cattolico.

Non c’è da stupirsi, dunque, se la campagna elettorale si sia giocata attorno alla polarizzazione con il Rassemblement National. Il governo, facendo delle elezioni un voto “pro” o “contro” Macron, e individuando in Rassemblement National il nemico da sfidare, ha prodotto un’iper-mobilitazione dell’elettorato di Le Pen, che strutturalmente risulta più attivo di quello di sinistra, più propenso invece all’astensione durante le elezioni europee. In questo quadro Macron ha perso la sfida, interamente giocata attorno all’obiettivo di superare il Rassemblement National e di arrivare in testa alle elezioni.

Allo stesso tempo va riconosciuto a Macron il fatto di avere, in un certo senso, minimizzato il danno. Malgrado la sconfitta, lo 0,9% di scarto che separa le due formazioni gli permette di presentarsi in Europa come uno dei perni delle negoziazioni per la formazione della Commissione europea attorno agli assi portanti del suo progetto neoliberale: smantellamento del welfare, privatizzazione dei servizi, aumento della produttività, investimento in una transizione green compatibile con le regole del libero mercato e del capitalismo di piattaforma, rinforzo di uno spazio europeo securitario. Marine Le Pen, dal canto suo, se può celebrare di essere il primo partito, non ha certo sfondato – arretrando rispetto ai risultati delle europee del 2014 – com’è stato invece il caso di Salvini in Italia che raggiunge il 34 %, di Farage in Inghilterra che surclassa i liberal-democratici, di Orbán in Ungheria che ottiene largamente la maggioranza dei consensi.

Questa “tenuta” di Macron va però osservata con più attenzione, perché piuttosto che indicarci una stabilizzazione del quadro politico, ci parla di un possibile approfondimento della crisi sociale e democratica nei prossimi mesi. Se, infatti, gli elettori di Marine Le Pen restano sostanzialmente gli stessi, radicati soprattutto nelle zone rurali e in alcune aree periurbane del paese, quelli di Macron non solo calano, ma variano sensibilmente. Emblematico è il caso della città di Parigi dove gli elettori di Macron si concentrano sempre più nei quartieri bene della capitale, mostrandoci la dimensione spaziale di un voto che assume un chiaro e netto connotato di classe. Cannibalizzando la destra repubblicana, Macron si afferma oggi, ancor più di ieri, come il rappresentante privilegiato del capitalismo rentier e finanziario, il quale si concentra proprio nei quartieri delle grandi città presi d’assedio in questi mesi dai gilets jaunes.

La polarizzazione tra Macron e Le Pen deriva dal crollo, a destra, dei Repubblicani e, a sinistra, della France Insoumise, schiacciata tra l’incudine neoliberale di Macron e il martello del sovranismo nazionalista di Le Pen. Occorre però riconoscere che anche al netto dell’astensione (un francese su due non è andato a votare), tale polarizzazione si è realizzata solamente in parte. La sinistra, divisa e divergente nei programmi, nella sommatoria delle sue componenti raggiunge ancora il 30% dell’elettorato. Consapevoli del fatto che la lotta contro il progetto neoliberale di Macron e il fascismo di Le Pen non possa venire dalla sinistra, se con questo termine si intende la ricomposizione delle burocrazie e delle nomenclature politiche, sottolineiamo questo dato per mostrare come il quadro politico sia meno chiuso e stabile di ciò che si possa pensare. Solo il consolidamento sul lungo termine dell’iniziativa del movimento potrà approfondire questa instabilità nel senso di una trasformazione sociale e politica non autoritaria.

Il problema che si pone per il movimento è dunque duplice. Da un lato, continuare a mettere in campo iniziative di lotta capaci di bloccare l’agenda neoliberale di Macron, com’è in parte avvenuto fino a oggi. Dall’altro, lottare contro il progetto di Le Pen, che a sua volta mira alla neutralizzazione delle istanze e della potenza espressiva del movimento: ricordiamo che Le Pen, oltre ai tratti neo-fascisti (razzismo, xenofobia, islamofobia, etc.), è ostile ad alcune delle rivendicazioni principali del movimento, come il rifiuto delle istituzioni autoritarie della V Repubblica, oppure in tema di giustizia sociale, aumento dello salario minimo e riduzione dell’orario di lavoro.

Un’ultima annotazione ci pare necessaria. Chi prova a stabilire un nesso di continuità tra la lotta dei Gilets Jaunes e le elezioni, rimuove un aspetto fondamentale: il movimento non ha subito passivamente il voto, ma lo ha contrastato attivamente. La macchina della comunicazione in questi mesi ha tentato in ogni modo di attribuire una leadership e persino una rappresentanza elettorale (si vedano le liste dei Gilets Jaunes) a un movimento policentrico e organizzato sul piano orizzontale.

Il rifiuto di questo apparato di cattura è stato uno dei principali terreni di lotta dei Gilets Jaunes. Uno dei problemi politico-strategici che il movimento si è posto, a Saint-Nazaire, è stato proprio quello del voto europeo: l’insieme della campagna elettorale è stata attraversata da importanti iniziative, a partire dalla settimana gialla di fine aprile/inizio maggio, al prolungamento dei blocchi e delle manifestazioni fino all’apertura, dopo la tornata elettorale, di diverse Maisons du peuple in varie città. Qualsiasi indicazione di voto avrebbe infatti significato la morte prematura di un movimento che ha fatto della democrazia diretta, della destituzione delle leadership e dell’esercizio del potere costituente la sua dimensione politica privilegiata. Del resto, se osserviamo la sequenza che va dal movimento contro la Loi Travail del 2016 a oggi, e che fa della Francia senza dubbio il laboratorio di lotte più interessante in Europa (e non solo), è proprio il rifiuto della logica dello “sbocco politico” a costituirne uno dei tratti peculiari.

Nelle prossime settimane è quindi necessario approfondire le discussioni sull’auto-organizzazione del movimento e sulla sua riconfigurazione a medio e lungo termine. A tal proposito, la terza Assemblea delle Assemblee, che si terrà a Montceau-les-Mines dal 28 al 30 giugno, rappresenta una tappa importante e un momento di verifica. Sarà infatti l’occasione di testare la vitalità del movimento continuando a esplorare le molteplici strade della sua strutturazione. La proposta di lavoro avanzata congiuntamente dai gilets jaunes di Magny (Montceau-les-Mines), Saint Nazaire et Commercy intende prolungare gli assi portanti di tale percorso: insistere sulle azioni federatrici capaci di mantenere un rapporto di forza a livello nazionale durante la fase estiva (la festa nazionale del 14 luglio, la notte del 4 agosto per la “fine dei privilegi”, il G7 a Biarritz a fine agosto); proseguire il radicamento del movimento a livello locale, aprendo nuove Maison du peuple e rioccupando le rotonde; alimentare i legami sociali e le esperienze di condivisione e messa in comune che nutrono questi luoghi; affrontare la questione delle alleanze con altri terreni di lotta (ecologista, sindacale, nei luoghi di lavoro, nei quartieri popolari) e quella dell’allargamento della base stessa dei gilets jaunes; difendersi dagli attacchi polizieschi e giudiziari; rafforzare l’accessibilità e la fruizione della piattaforma digitale “Loomio” sulla quale condividere materiali e esperienze; consolidare sempre più, a livello nazionale, le relazioni tra le varie assemblee dei gilets jaunes attive sul piano locale.

Un programma ambizioso, che mostra la forza produttiva di un movimento capace di rinnovare le forme di auto-organizzazione, a partire da una pluralità di pratiche che vanno dalla riappropriazione della democrazia diretta all’elaborazione di strumenti di contro-informazione autonoma, passando per l’affermazione di nuove modalità di occupare lo spazio sociale. Sarà infatti solo dal rafforzamento ulteriore di questi tratti costituenti che potrà derivare l’approfondimento della delegittimazione dell’assetto istituzionale della V Repubblica, ma anche la rottura della polarizzazione del campo politico tra due prospettive autoritarie come quelle di Macron e di Le Pen. La sedimentazione di contro-poteri e l’invenzione di nuove temporalità della lotta: queste le sfide di fronte alle quali ci troveremo nelle settimane e nei mesi a venire.

Questo articolo è stato pubblicato su Plateforme d’Enquêtes Militantes il 7 giugno 2019. La versione italiana è pubblicata insieme al sito DinamoPress il 7 giugno 2019.

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