Di TONI NEGRI.

Dai tempi di Potere Operaio con Nanni ne abbiamo fatte tante… non solo di riviste. Sono stordito, ora, alla notizia della sua morte. Mi chiedono un ricordo, qualcosa come un necrologio. Non credo che Nanni ne abbia mai scritti. È contrario al suo carattere… e anche al mio. E poi, come fa a morire la Signorina Richmond?
Che classe, quel Nanni! I poeti attorno a lui lo temevano perché era il solo che aveva lasciato l’anima accanto, fuori dalla poesia; i critici e i teoretici, con i quali conviveva, anch’essi lo temevano perché Nanni metteva quel po’ di razionalità che la poesia non gli rubava, a disposizione del fare, della politica, dei compagni.

ASSEMBLARE I PEZZI
Eccolo dunque, Nanni, organizzatore di cultura sovversiva, produttore di riviste politiche. Quelle cose, quelle macchine non erano mai «sue» ma appunto «dei compagni». Non ho mai avuto notizia né esperienza di un bisticcio fra Nanni e i responsabili di un qualsiasi lavoro politico che lui avesse nelle sue mani di editore. Metteva i compagni a lavoro, la sua generosità era vincente, sempre, il suo lavoro quello di un’impresa comunista. Qualche tempo fa, lavorando su Assemblea, e discutendo con Michael Hardt la figura di una nuova proposta teorica, quella dell’«imprenditore politico della moltitudine», mi sono venute in mente le esperienze di Nanni negli anni ’70. Come definire un imprenditore della moltitudine? Come un «meccanico» che assembla i pezzi di una macchina, meglio, per stare nella letteratura, come un autore che trasforma il «volgare» in lingua. Non è un inventore, ma qualcuno che recupera quanto fa parte dell’esperienza comune, in essa collaudato, e ne fa cosa praticabile, una nuova macchina. Ecco l’opera di Nanni messa in luce, questa sua capacità di far diventare «arte» il mettere insieme cose ed eventi, linguaggi ed emozioni politiche e di trasformare pallide avanguardie comuniste in macchine da guerra.
Nanni, il meccanico, non ha mai sognato orizzonti gloriosi nel comunismo realizzato. Nanni ha sempre vissuto la realtà quotidiana del lavoro militante. Disdegnava radicalmente l’utopia e vantava la propria amoralità: naturaliter comunista. Non pensava al futuro ma già viveva nell’avvenire. Ci ho pensato tanto a questa capacità di Nanni di farti sentire «naturale» nelle situazioni più avventurose e a confronto del pensiero critico. Talvolta ho ritenuto si trattasse di una qualità tipica del «provinciale», quale anch’io, come Nanni, sono. Attratti dalle metropoli, Milano, Roma, Parigi, Berlino… ma presto ci stavano stretti i comportamenti e le discipline metropolitane. Invece del rifiuto, tuttavia, costruivamo allora, e con loro vivevamo, lì nella metropoli, gruppi di amici che replicavano la forza dei provinciali, togliendone la solitudine e costruendo semplificazioni creative delle complesse mediazioni metropolitane e dando afflato collettivo ad ogni lavoro. La Feltrinelli anni ’60, dove crebbe Nanni, quella dei due premi Nobel, fu davvero una macchina siffatta. Nanni aveva lì imparato ad agire. Ma appunto si trattava di un nuovo movimento – e così capisci quel bisogno di produrre politicamente insieme che divenne epidemico fra i ’60 e i ’70 – un movimento che unì, nel fare politica, la generazione prodotta dal ’68 e molteplici comunità di ragioni e di affetti, nel segno del comunismo. Nanni ne fu prodotto e motore, quintessenza di quel vivere.
Era così semplice stare assieme, fare le cose assieme. Io, Nanni, l’ho davvero amato. Mi ci ritrovavo, con lui, in quel suo «fare» senza troppo pensarci su, perché era più importante pensare facendo, costruendo. Il criterio, la misura stavano nel fare. La laicità di Nanni era tutta qui: una laicità sovversiva, un piacere della «superficie» in tumulto, alla Deleuze, alla Guattari (con i quali da vicino l’avrebbe poi condiviso), un’allegria della singolarità, dell’immanenza, senza il problema (o l’ossessione) di negare quel che non c’era o non valeva, come la trascendenza o l’autorità.

IL NUOVO MECCANO
Laicità perché è una condizione ottima, ci si sta bene, un comportamento degno del Momus di Leon Battista Alberti: «Destinato farsescamente alla formazione del principe, il Momus si rivela come l’antiprincipe, un libro della distruzione di ogni ordine e di ogni potere. In attesa che nel suo humus, o nella camera oscura della storia, prenda forma la nuova immagine di un nuovo Principe, quello che sulla trasgressione fonderà il suo potere» (così si definisce Nanni nella Prefazione del libro).
Siamo stati bene, passando le notti a comporre PotOp, o a discutere senza costrutto su come riempire Compagni Virgola. Abbiamo girato l’Italia per contattare amici intellettuali dispersi e mezz’Europa alla ricerca di un Osvaldo furioso, abbiamo lavorato insieme (un nuovo «meccano» balestriniano) a costruire AR&A – una piattaforma logistica, oggi si direbbe, per le mille imprese editoriali della moltitudine autonoma. Alfabeta nascerà anch’essa di lì. Calogero trasformò presto questa iniziativa in «associazione di malfattori», in delinquenza organizzata.
Poi vennero Rebibbia, Fossombrone, Palmi, Trani, per me. Per Nanni, Parigi, e poi Aix-en-Provence. Che cosa avrebbe fatto, isolato da quel suo Heimat che aveva costruito? Ce lo chiedevamo, ritenendo che il poeta fosse più in difficoltà dei suoi rozzi compagni. E invece, con Giairo a lato, Nanni associò gli intellettuali attorno a Deleuze e a Faye in «trasversali» letterarie e politiche – Change International – che permisero alla sinistra sovversiva di togliere spazio e fortuna (comunque di resistere) all’ennesima invasione dei Rosacroce, all’irrazionalismo reazionario dei nouveaux philosophes.

VERSO I COLLAGE
Mancò solo Foucault a quell’appuntamento, in un momento di crisi del suo pensiero, che di lì a poco si riaprì – quale powerful effectiveness – a quelle nuove resistenze. Intanto Nanni ad Aix metteva insieme una banda (letteralmente, non solo leggevano poesie ma le suonavano e cantavano) attorno a Roubaud, un forte poeta dell’ultimo Novecento francese. Una nuova primavera, questa, per Nanni, che nella fuga dalla repressione feroce dei Calogero, dei Dalla Chiesa, del «compromesso storico» ritrovava il senso del gioco e dell’avventura. I collage cominciano allora. Un’incredibile agilità dell’epico e dell’ironico si combinano dentro questo nuovo meccano. Quei giornali che aveva organizzato, ora Nanni comincia (e lo farà tanto più rientrando in Italia alla fine degli ’80) a ritagliarli e a ricostruire figure e manifesti di un’avventura già repressa, ma sempre di nuovo risorgente e sempre più radicalmente sovversiva! Un insegnamento deleuziano: quanto rivoluzionarie potevano essere, quanto potenti quei semplici frammenti di materia varia, in superficie danzanti.
In Italia intanto il potere e i letterati del Corriere della Sera puntavano sull’oblio di Vogliamo tutto. Non c’è intervista fatta a Nanni in quei tempi nella quale, benevolmente e ipocritamente, non gli si chiedesse se non era pentito di aver scritto Vogliamo tutto, quel capolavoro della letteratura operaista che resta, ad oggi, uno dei più bei romanzi del Novecento. Bisognava dimenticarlo, cancellarlo quel romanzo che cantava una rivoluzione operaia – che se non era stata vincente nella società, aveva comunque distrutto quell’indecente luogo di sfruttamento che era la fabbrica fordista.

L’EPICA DEGLI INVISIBILI
Quel libro era uno sfregio alla casa Agnelli, in quel tempo regnante, e ai sudditi plaudenti (i quarantamila?). Era la voce dei duecentomila rivoltosi di Mirafiori e aveva meritato a Nanni di essere incluso nella grande repressione del 7 aprile ’79. Bene, Nanni replica con quell’altro bellissimo racconto che è Gli invisibili. Vogliamo tutto è il ’69 in fabbrica, Gli invisibili sta fra il ’77, l’autonomia sociale e la galera di quella nuova generazione. L’epico diventa resistente. Questo lavoro di Nanni dura per anni, fino a L’orda d’oro, scritta con un altro fratello, Primo Moroni, formidabile documento ed apologia delle lotte dell’autonomia operaia e sociale – di quei Settanta che avevano rifondato speranza, cultura e vita politica in Italia – e che, repressi, l’hanno mandata all’inferno.
Questo ha vissuto Nanni, il secolo steso fra la luce di una rivoluzione possibile e la più infame restaurazione, senza mai staccare l’impegno militante dalla riflessione politica. Dicevamo della deleuziana «superficialità» di Nanni. Da non confondere, ricordavamo, con indifferenza ma da comporre piuttosto con passione sovversiva. Il meccano di Balestrini vive in questa tensione. Che vuol dire che i ’70 sono finiti solo per i persecutori, che invece l’odio per i padroni (non più del vapore ma della finanza e di tutto il resto) vien fuori ancora e sempre più forte. Cresce la resistenza tenendo viva la speranza che Nanni ci ha lasciato. Così nell’ultimo suo scritto, nell’estate parigina del 2018: «Lo scarto fra la nostra immaginazione e le nostre aspettative nutrì quei lunghi//giorni d’estate quando fantasticavamo di viaggiare in posti esotici//e di combattere contro le malefatte degli imperialisti nel mondo//cavalli cervi cinghiali rossi e neri si agitano//che c’era da leggere nella grotta che venne scoperta//che nessuno ha completamente svelato il segreto//si deve poter fare tutto non esistono limiti//sarebbe stato un inizio una rivoluzione//però era troppo tardi era già tutto finito». Non è rassegnazione: «Non c’era nulla//poi all’improvviso arriva qualcosa». Il Bisonte di Altamira, l’odio accumulato nei secoli contro la prepotenza dei padroni, la nostra liberazione: Nanni scrive di ciò senza nulla concedere al futuro perché siamo vissuti nell’avvenire.
Nell’ultimo periodo, Nanni stava male, entrava e usciva dall’ospedale, mi aveva telefonato, con la voce suadente e maliziosa che gli conoscevo, chiedendomi: sei pronto che facciamo una bella rivista? Sì, Nanni, sempre ai tuoi ordini.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto l’8 giugno 2019.

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