Terza parte di “Le ecologie che curano”

Di PANTXO RAMAS.
Traduzione di Alisea Neroni.

Catalogo                      

“Se sei un’infermiera ci capiamo. Non come con questi sociologi!” Scherza (o no?) Federico con Irene. Nelle loro conversazioni non solo emergono conoscenze e competenze condivise, ma soprattutto l’esperienza concreta e comune dei modi di azione e delle logiche che governano l’ecologia della cura. Il Distretto Sanitario, situato nel vecchio ospedale generale ormai quasi completamente smantellato (un altro, più moderno, si trova sulla collina, in un’area meno centrale), è il cuore delle ecologie che curano di Trieste.

Il Distretto Sanitario è il dispositivo attraverso cui il sistema sanitario cerca di spostare la cura dall’ospedale fin dentro le dinamiche urbane, trasferendo le pratiche tecniche e il personale dall’istituzione alla vita della città, e rispondendo così alla sfida di prendere in carico la vita difficile dei cittadini e delle cittadine all’interno di una ecologia plurale della cura. In sostanza il Distretto è un dispositivo che contesta i protocolli come strumenti di organizzazione della cura, e propone un catalogo di pratiche che può essere adattato ad ogni singola situazione.

Ci sono quattro Distretti Sanitari nella città, ciascuno dedicato a una popolazione di circa cinquantamila persone. Il Distretto si coordina con i medici generali (che in Italia hanno un contratto privato con lo stato, sebbene le loro consulenze siano gratuite per tutti i residenti del paese) e fornisce assistenza a domicilio e cure personalizzate attraverso un sistema fatto di persone, oggetti e risorse: infermieri, specialiste, fisioterapisti e altre figure professionali; ambulatori, residenze assistenziali, centri di riabilitazione e, poi, automobili e sale visita; e infine, sovvenzioni, budget destinati, meccanismi di sussidio, gestiti dal Distretto in coordinamento con altre istituzioni.

Pur se all’interno delle gerarchie del sistema sanitario istituzionale, il Distretto Sanitario agisce con l’obiettivo di sovvertire il meccanismo di separazione delle logiche istituzionali dalla vita sociale e di rimediare alla frammentazione interna dell’istituzione stessa. Il dispositivo del Distretto identifica e gestisce le divisioni esistenti tra i diversi attori del sistema, e prova a contestarle e destabilizzarle.

La medicina di territorio irrita le categorie e i presupposti dell’intervento sanitario per due ragioni. Innanzitutto mette la salute primaria a stretto contatto con dinamiche spaziali, invece che comunitarie, ponendo dunque la cura all’interno della riproduzione sociale, senza renderla dipendente da una identità comunitaria. La medicina di territorio contribuisce alla riproduzione sociale in quanto investe risorse pubbliche per sostenere un sistema comune di vita. In secondo luogo, questa pratica contesta attivamente la separazione tra la salute pubblica e la medicina, le quali solo raramente si incontrano e collaborano. La medicina di territorio porta il progetto di cura, e anche i medici e i professionisti della sanità, dentro un’ecologia: un’ecologia in cui diverse risorse, agenti, siti e oggetti vengono mobilitati e adattati a equilibri instabili e temporanei. È un’ecologia fatta di percezioni: di conoscenze e compromessi, di azioni e ritmi.

Federico ci racconta alcune delle attività del Distretto Sanitario (e il giorno successivo Ofelia Altomare renderà la sua descrizione ancora più preziosa): una storia che comincia dal momento in cui l’individuo entra in contatto con l’esperienza totalizzante dell’ospedale, e dunque quando la pratica critica di cura si pone l’obiettivo di disarticolare l’istituzionalizzazione. La medicina di territorio incontra la propria nemesi: l’ospedale generale.

Lo staff del Distretto Sanitario è già presente laddove la cura è necessariamente più intensiva. Infatti alcuni lavoratori seguono i cittadini del proprio Distretto quando sono ricoverati. Visitano la persona in reparto, contattano i medici per seguirne la permanenza in ospedale; discutono della situazione con il resto dello staff del Distretto Sanitario, e anche con i parenti o gli amici dei pazienti stessi. Questa presenza permette loro di mobilitare le risorse che garantiranno la dignità e il diritto alla salute della paziente/cittadina una volta dimessa e di ritorno nel proprio contesto di vita. Il rientro dovrà coinvolgere le risorse sociali ed economiche necessarie al sostegno della persona: installare dispositivi adatti nei luoghi di vita, al fine di spostare, del tutto e in modo sicuro, la pratica della cura dall’istituzione fin dentro la vita sociale. Alla fine, Federico sottolinea quanto sia importante comprendere la specificità di ogni pratica tecnica, ma anche qual è la rete di conoscenze e azioni che possono rendere queste pratiche più efficienti: “Leggere una radiografia o posizionare un pace-maker non prevede infatti una relazione con il paziente e una continuità di rapporto. Un paziente si aspetta che le sue radiografie vengano rapidamente eseguite e correttamente interpretate (…). Al contrario il tuo medico curante (ovvero il medico di famiglia) deve comportarsi in maniera diametralmente opposta, lasciando tecnica e tecnologia allo specialista ma incaricandosi di gestire tutti gli aspetti di una presa in carico”.

Le pratiche del Distretto Sanitario non possono essere normalizzate e ridotte a una rigida sequela di protocolli: non c’è un’unica pratica, ma una serie di pratiche sempre mutevoli che intervengono e si sviluppano in un mondo vivo. Questa permanente dinamica di destabilizzazione e organizzazione sfida la tendenza istituzionale alla segmentazione, affinché la cittadina o il cittadino possano godere maggiormente del proprio ‘diritto alla salute’. Questo non va inteso solo come diritto formalmente riconosciuto, ma soprattutto come esperienza relazionale immersa nella vita sociale e sostenuta dalla azione coestensiva dei vari agenti del sistema di salute. “La cura si declina come esperienza esistenziale per entrambi i poli del binomio curante/curato e, come tale, viene perciò contaminata ed attraversata dalle contraddizioni della normalità” (Signorelli, 1993).

Contraddizioni, di nuovo. Se prima abbiamo incontrato la contraddizione dell’affabulazione, qui sorge un’altra questione. Questa volta la contraddizione nasce dal fatto di appartenere ad un apparato che, se da un lato istituzionalizza, dall’altro può essere un agente radicale e dinamico all’interno dell’ecologia della cura. La questione è come mantenere viva questa tensione, come affermare una ‘cura del passato’ capace di trasformazione: una cura che riconosca come le pratiche istituzionali esistenti non siano qualcosa da distruggere tout-court, ma piuttosto una realtà di fatto con cui confrontarsi per portare avanti la trasformazione. In questo senso, il tentativo è di pensarle come ecologie: che si comportano in un certo modo, ma che possono trasformarsi in organizzazioni sociali e materiali di altro tipo.

Questo ci offre l’occasione di ripensare la pratica istituente come negazione critica dell’istituito e come gestione degli equilibri contingenti della transizione: un territorio sussistenziale (Raunig, 2016). La pratica istituente ambisce a ricomporre la cura attorno e assieme a ognuna delle singolarità coinvolte: la patologia, la vita del cittadino o della cittadina, le sue reti sociali, le risorse politiche, istituzionali e amministrative che girano intorno alla cura, ma anche le conoscenze, le culture, le tecnologie e le soggettività di lavoratori e cittadini coinvolti nella messa in pratica del progetto di cura. In altre parole, per comporre questi agenti materiali, sociali e istituzionali non si deve ordinarli in un certo modo, ma piuttosto pensare alla ricchezza che può nascere dall’incontro.

In un’intervista con il gruppo di ricerca Entrare Fuori, Franco Rotelli ci ha detto: “Mi stupisco sempre quando parlo con un giovane dottore e gli chiedo cosa fa. E lui me lo spiega. Se gli chiedi qualcosa sul contesto in cui compie un certo atto, o non ne sa nulla, o si rifiuta di sapere. Qualche volta ne ha una vaga idea. Ma non c’è nulla di più sovradeterminato di ciò che succede nel campo della salute: grandi assetti istituzionali, grandi interessi economici, corporazioni professionali molto potenti. E poi ci sono i cittadini che dovrebbero contare qualcosa in tutto questo. Ci sono enormi questioni politiche, istituzionali, amministrative e culturali che girano attorno a questo dottore che fa quest’atto. Eppure lui non ne sa nulla. Si preoccupa, nel migliore dei casi, di fare un atto scientificamente corretto, e lì ha cominciato e finito con il suo compito. Noi pensiamo che questo sia profondamente sbagliato” (2019).

Le ecologie che curano costituiscono una logica della cura plurale e molteplice. Sono plurali dal momento che mettono insieme oggetti apparentemente semplici, sempre composti in modo differente a seconda delle loro proprietà singolari, finendo per trovare un equilibrio instabile, temporaneo e parziale tra le diverse competenze, esperienze e contingenze. Questa composizione, questa combinazione, è molteplice nel senso che la pluralità di competenze sarebbe distruttiva se frammentasse, invece che assemblare, l’ecologia della cura. Le responsabilità della cura si sovrappongono, collaborano e entrano in conflitto; l’ecologia della cura è intersezione di mondi, processo di interazione, dove il cambiamento nasce dalla collaborazione e dal conflitto, nell’azione simultanea e intrecciata di molti mondi, ognuno con la propria cultura, popolazione, storia, ma nonostante ciò interdipendenti tra di loro.

Come propone Dimitris Papadopoulos parlando di tecno-scienza, l’ecologia della cura “si pone in continuità con la cura istituita e vice versa, una continuità che si dispiega attraverso mondi disparati e frammentati” (2018). Una rete di possibilità che sorgono nella composizione artigianale di dinamiche di desiderio che sono tecniche, sociali, amministrative, e agiscono intorno alla contingenza della cura dentro a un sistema vivo: un sistema che si prende cura di ogni singola e molteplice parte di se stesso. Una città che cura, un’ecologia che cura. Questa è la sfida che il Distretto Sanitario cerca di organizzare: non imponendo protocolli prescritti, ma arricchendo i cataloghi aperti dell’ecologia della cura.

Transizioni

“Si tratta di garantire il diritto alla salute del cittadino, non di rispondere ai bisogni del paziente”, dice Ofelia. “Non capisco la differenza” risponde Irene. “È una presa in carico”, è lo spunto offerto da Ofelia. E continuano a rimbalzarsi la palla finché non riemerge un linguaggio comune: un linguaggio non più tecnico, ma fatto di etiche, esperienze, politiche, dubbi, sforzi e fallimenti. Ofelia Altomare è la direttrice di uno dei Distretti Sanitari in periferia. È infermiera, la prima nominata per questo incarico. Insieme ad altre persone con ruoli dirigenziali provenienti dalla professione infermieristica (di norma estremamente subordinata e genderizzata nel governo della cura), gioca un ruolo significativo nella contemporanea ecologia della cura di Trieste.

L’incomprensione tra Ofelia e Irene è davvero potente, una lotta condivisa con le questioni in ballo, radicata nell’intenzione di comprendere fino in fondo il significato delle parole, ma soprattutto le materialità in esse contenute. Irene non è solo interessata a capire il significato molare di ‘presa in carico’, ma soprattutto a confrontarsi con il dispiegamento molecolare di questa espressione all’interno delle ambivalenze concrete. La prospettiva molare aprirebbe una conversazione completamente diversa, sulle implicazioni linguistiche e materiali di un rischio paternalista, della possibilità di oggettivazione. Il filo molecolare invece ci porta attraverso assemblaggi concreti, continuità, trasversalità. Una discussione su come queste pratiche rispettino o meno la privacy del paziente, su come questo modo di cura possa diventare abituale per chi nella salute ci lavora, e per i cittadini. Insomma una riflessione concreta su come si possa riorganizzare l’ecologia della cura come tutela e garanzia dei diritti e come esperienza relazionale, invece che come risposta ai bisogni, risposta che conduce rapidamente all’oggettivazione della persona in quanto ‘malattia’.

Ofelia allude innanzitutto alla continuità della cura come modello che permette allo staff del Distretto di costruire la transizione dall’ospedale fino alla casa del paziente, ma ciò che è difficile cogliere è come questo processo avvenga nel concreto. La ‘denominazione’ molare e l’’azione’ molecolare si intrecciano nelle spiegazioni di Ofelia: non c’è un’azione esemplare, perché queste si danno nelle contingenze e ogni atto è sempre produzione singolare. Ciononostante queste azioni debbono essere enunciate assertivamente, essere affermate e costituite, anche se verranno poi inevitabilmente manipolate a seconda di ogni situazione. È un catalogo, non un protocollo.

Ci racconta di come stanno gestendo una situazione proprio in quel momento. Qualcuno è stato ricoverato, e dopo che gli assistenti domiciliari hanno visitato l’appartamento e parlato con la famiglia risulta chiaro che l’attenzione medica da sola non sarebbe né sufficiente, né sostenibile. Il suo racconto risuona con quanto ci aveva detto Federico, ma questa volta i dettagli prendono forma. La questione è come mettere insieme le persone, coordinare le loro azioni, organizzare i diversi oggetti e soggetti della cura. In altre parole, invece di segmentare la pratica della cura, per esempio chiamando i servizi sociali perché possano farsi carico del proprio pezzetto di competenza, il Distretto Sanitario ambisce a riunire le diverse competenze in una responsabilità comune. Chiama gli assistenti sociali, trova qualcuno che sistemi la casa a seconda dei nuovi bisogni e della dignità rinnovata della persona, aiuta la famiglia a trovare un modo per permettersi che qualcuno si prenda cura dei loro cari. Tutti questi atti separati lavorano per mettere fine alla cura medica come pratica indipendente e univoca, o al più bilaterale: il paziente e il medico, da soli, nello studio medico.

Questo sforzo comune, questa presa comune sull’ecologia della cura, è il risultato di una lunga transizione, che crea, negozia e afferma una pratica istituzionale differente. Se lo spazio del manicomio era uno spazio di violenza e ribellione, il Distretto Sanitario è luogo di rivoluzioni molecolari, dove il tentativo è quello di muoversi dalla competenza alla respons-abilità, come abilità condivisa di dare risposte (Haraway, 2016). Irene chiede come questo possa accadere, come si può cambiare la cultura materiale del lavoro. Come si dispiega concretamente il comune nel progetto di cura?

“Lentamente”, dice Ofelia, e attraverso esperimenti, discussioni e negoziazioni. Franco Rotelli si riferisce a questo processo come alla capacità di rendere egemonica una pratica minore: costruire autonomia all’interno dello stato attraverso una consistenza materiale e aprendo spazi di istituzionalità radicale. Nei rapporti di antagonismo determinati dal capitale, “non possiamo vincere, dobbiamo convincere” (Basaglia 1979).

La possibilità del comune si costituisce qui attraverso il piano tecnico; il politico si riferisce alla dimensione ‘operativa’, che determinerà l’attuazione concreta delle politiche pubbliche. Parole, affermazioni e domande circolano per creare uno spazio di discussione, invece che venire affermate come ordini dall’alto. Si tratta di una egemonia minore, che costituisce, all’interno dell’istituzione, una certa cultura e una certa capacità di agire insieme. Questa pratica minore non si pone in contrasto con un processo maggioritario. Piuttosto ci permette di fare luce sugli effetti dello stato, invece che sulla sua razionalità: come possiamo mettere in pratica politiche pubbliche di emancipazione, assumendo le contraddizioni che stare dentro lo stato porta con sé?

Questa transizione è sempre a rischio, mette in guardia Rotelli, specie se non è sostenuta da un impegno continuo e comune sia verso l’interno, nella pratica istituzionale, che verso l’esterno, nella vita urbana.

Non c’è solo la questione di garantire la deistituzionalizzazione dei pazienti. Ofelia Altomare ci ricorda del suo viaggio personale attraverso la deistituzionalizzazione, in relazione all’interno dell’istituzione. Innanzitutto si tratta di mettersi a rischio quando si porta avanti il progetto di cambiamento (“condividere i nostri dubbi e le nostre sfide, democraticizzare gli spazi di decisione, smontare le gerarchie, soprattutto perché eravamo noi quelli al vertice”); in secondo luogo, bisogna affermare nuove etiche e discuterne l’importanza, non solo in quanto principi, ma soprattutto in termini materiali (“ad esempio, tra le questioni che avevamo sollevato c’erano gli orari degli infermieri: se il cittadino è il centro della cura, non puoi fornire assistenza domiciliare solo dalle 8 alle 14; deve diventare un servizio attivo ventiquattro ore su ventiquattro. Ma questo ha fatto sorgere una serie di questioni su cui abbiamo dovuto negoziare e riorganizzare le pratiche istituzionali”); e terzo, “si tratta di stabilire come ciascun lavoratore partecipi e lavori all’interno del Distretto Sanitario, prendendo in considerazione la sua singola situazione e le sue specifiche conoscenze: una è una madre single; l’altro deve prendersi cura di un parente, e così via; un altro può lavorare in una certa area o sua una certa questione, eccetera eccetera”.

Soprattutto però, i confini dell’istituzione non costituiscono il limite della cura. Piuttosto è vero il contrario: pensare all’ecologia della cura significa affermare uno slancio dispersivo dell’istituzione attraverso la vita urbana, che le richiede di investire risorse pubbliche per sostenere la ricchezza comune della città. La cura ‘del passato’ – ovvero il cambiamento delle pratiche istituzionali esistenti capace di creare dinamiche aperte – è accompagnata da una cura del presente. La cura come esperienza relazionale che va oltre le dinamiche della salute, che partecipa all’interno della città e che, sostenendo il diritto alla salute, sostiene la riproduzione sociale e la vita urbana.

Impresa

Il termine ‘presa’ è utile a capire di cosa stiamo parlando: significa afferrare, stringere, trattenere. Prise in francese. Trattiene il momento e una varietà di possibilità racchiuse nell’esperienza, possibilità che si dispiegano ogni volta in modo diverso. Presa significa avere un catalogo di pratiche e sintonizzarle con la situazione, configurare spazi fatti di contraddizioni e ambivalenze. In questa stretta si tiene insieme una realtà complessa, mettendo in atto uno sforzo collettivo all’interno di una contingenza in cui l’istituzione sanitaria è solo un attore tra tanti, e dove il “continuo ripiegarsi tra loro di privato, pubblico e comune crea una situazione in cui indicare quale tra questi domini sia la forza primaria […] diventa praticamente impossibile (Papadopoulos, 2018).

La parola che usano a Trieste è im-presa, Impresa Sociale (Rotelli, 1992). Non solo una presa comune, ma anche un’impresa comune. La concezione dell’impresa come avventura e sfida risuona con la concettualizzazione di Susan Leigh Star la quale legge lo sforzo imprenditoriale come pratica comune, affermativa e composita, che si rapporta alle dinamiche istituzionali come all’assemblaggio di una ecologia: insieme di limiti, memorie e pratiche, e dunque complessa sovrapposizione di punti di vista e percezioni. Quest’insieme permette all’istituzione di muoversi all’interno di un equilibrio frantumato, ovvero di agire la riproduzione dell’istituzione stessa come trasformazione permanente, evitando così di essere consumata dalla propria tendenza a separarsi e rendersi autonoma dalla società.

Inventare pratiche istituzionali significa dunque agire all’interno di una istituzione che cambia, consapevoli della deriva che spinge ogni istituzione alla staticità, ma anche alimentando la tensione molecolare che porta l’impresa comune a organizzarsi per rispondere a bisogni e desideri.

A Trieste, l’impresa comune trova fondamento legale in una normativa nazionale del 1991 sulle cooperative sociali, che garantisce supporto economico e vantaggi fiscali alle cooperative in cui almeno il 30% dei soci provengano da quello che viene chiamato lo ‘svantaggio’. Una di queste imprese comuni è la cooperativa Lister, sartoria sociale. Questa è strutturata come uno spazio di riciclo e rivalorizzazione, dove ombrelli rotti, vecchi tessuti, banner ormai superati e altri oggetti possono essere riutilizzati: un’organizzazione volta a garantire l’inclusione di oggetti e soggetti, non solo nella gestione dell’impresa, ma lungo tutto il processo di produzione. Il lavoro è organizzato per permettere di partecipare ad ogni persona, indipendentemente dalla singola diversità funzionale: per esempio, il ritmo della produzione viene regolato per corrispondere alla situazione delle persone, alle loro difficoltà, alle loro ansie. Inoltre, i principi del riciclo, l’attenzione ai luoghi, come anche la qualità estetica diventano strumento per costruire una narrativa intorno agli oggetti abbandonati: la produzione degli oggetti si costituisce come rituale della deistituzionalizzazione, come lo chiama Pino Rosati, che reinventa il ruolo di oggetti e soggetti nella riproduzione sociale.

Situata nei locali dell’ex manicomio, oggi Parco Culturale di San Giovanni, Lister è una realtà artistica, politica, economica e istituzionale, che partecipa nell’impresa comune della cura insieme ad altre cooperative sociali e associazioni. Un’altra è l’Agricola Monte San Pantaleone che invece gestisce alcuni dei parchi più belli di Trieste e i sette cimiteri della città, ognuno per una differente confessione religiosa, come pure il roseto di San Giovanni, uno dei più importanti d’Europa. Ce ne sono altre, di cooperative e associazioni: CLU Basaglia, La Collina, Radio Fragola, Reset, Articolo 32 tra le altre. Un movimento cooperativo, associativo e imprenditoriale che impiega centinaia di persone e incide su poco meno dell’1% della produzione locale.

La prima cooperativa sociale a Trieste è nata nel 1972, come primo atto di smantellamento del manicomio e di restituzione dei diritti civili ed economici alle persone internate. Fu un’invenzione o, in termini basagliani (2005), un machiavelli, per aggirare la legge ed evitare l’internamento forzato. Cominciò da un senso comune: quello di pagare uno stipendio alle persone, invece di imporre loro lavoro gratuito in nome della logica della ergoterapia. Questo permise di garantire ai pazienti un salario e una rappresentanza legale all’interno di una cooperativa, e contribuì alla ricostruzione dei diritti sociali, civili e politici, dentro e oltre il manicomio.

Allo stesso tempo, il movimento delle cooperative costituisce una pratica di salute e cura, perché fare cose vere e utili fa stare bene, come dice Giancarlo Carena, presidente della Cooperativa Sociale Agricola Monte San Pantaleone. Negli anni ‘80 infatti, nuove imprese furono necessarie per ricostruire spazi istituzionali nei luoghi abbandonati del manicomio, per inventare nuove forme di cura non solo contro il ritorno della segregazione, ma anche contro la privatizzazione, l’abbandono e la miseria.

In ballo c’era, e c’è, l’invenzione delle istituzioni come imprese comuni, o imprese che fanno comune, nel mezzo della riproduzione sociale, in mezzo alle difficoltà. Felix Guattari ha descritto l’ascesa delle cooperative sociali a Trieste non solo come apertura della pratica psichiatrica oltre il manicomio, ma anche come inserimento della stessa nella vita urbana e sociale e, dunque, le cooperative come invenzioni “non più artificialmente separate [dalla vita sociale, ma] dirette verso una desegregazione generale”. “Si possono creare strutture psichiatriche leggere nel mezzo del tessuto urbano senza necessariamente lavorare nel campo sociale. A quel punto uno non ha fatto altro che miniaturizzare le vecchie strutture segreganti e, nonostante il tentativo, finirà per interiorizzarle. La pratica che viene sviluppata oggi a Trieste è diversa. Senza negare la specificità dei problemi posti dal disagio mentale, le istituzioni inventate, come le cooperative, riguardano anche altre categorie della popolazione che hanno bisogno di assistenza, come tossicodipendenti, ex detenuti, giovani in difficoltà, etc.” (1984).

Ma, quando questa pratica di emancipazione avviene nella città neoliberale, un’altra contraddizione emerge. In questo dispiegarsi incerto dell’impresa comune all’interno dell’ecologia urbana anche il processo contrario, un-commoning (Papadopoulos, 2018), avviene continuamente e le cooperative sociali ne sono parte. L’impresa comune è immersa nella precarietà, perché i suoi lavoratori e le sue lavoratrici hanno contratti instabili e versano in condizioni difficili. Ed è intrappolata nei processi di privatizzazione della cura, dal momento che le cooperative possono finire per essere lo strumento che permette di esternalizzare i servizi pubblici. Se ci si appropria della pratica imprenditoriale per dispiegare il comune nella vita della città, bisogna prendere le precauzioni necessarie per assicurarsi che questa non diventi il punto di partenza di un processo di privatizzazione. L’impresa comune deve pensarsi invece come presidio di pratiche e di valori, in uno spazio sociale aperto. Una dimostrazione concreta del comune contro quei processi che, spinti da interessi economici privati, possono finire per annientare l’ecologia che cura.

In questo processo di annientamento, la privatizzazione raggiunge il proprio significato più pieno, in quanto processo biopolitico e micropolitico. Priva ogni persona della capacità di godere del bene comune, rendendo la cura una merce esclusiva ripartita in nome della scarsità. Allo stesso tempo, la privatizzazione delle pratiche distrugge la responsabilità sociale coinvolta nella cura e la rende una questione fatta esclusivamente di competenze e consumo, imponendo una logica lineare di ‘scelta’ in quelli che sono gli spazi sempre asimmetrici della cura (Mol, 2008).

In questo senso, il movimento delle cooperative sociali può essere uno spazio in grado di contrastare la crescente privatizzazione della cura e di aprirne nuove forme pubbliche. Ma questo accade soltanto restando all’interno delle difficoltà della riproduzione sociale; non separando il progetto di cura dall’ecologia della città, ma piuttosto immergendo l’impresa della cura nelle lotte urbane.

Questa tensione tra impresa e comune rischia continuamente di infrangersi in un senso o nell’altro: in quanto impresa, preda delle logiche di accelerazione del mercato che espellono le singolarità in nome della competizione economica; o invece come istituzione, ritornando alla logica entropica che tende ad organizzare la cura intorno all’efficienza interna dell’istituzione stessa, invece che nella difficile efficacia del progetto di cura. Ma questa tensione produttiva della trasformazione sociale può essere sostenuta solo attraverso la creazione di programmi istituzionali trasversali, dove le risorse pubbliche sostengano la libertà difficile di persone che attraversano un momento complicato, ma sempre all’interno e insieme alla vita sociale della città.

L’ecologia della cura può trovare il proprio terreno più fertile lungo i confini dove si incontrano mondi diversi: non solo rompendo la separazione tra le diverse parti dell’assemblaggio istituzionale o la divisione tra lo stato e la società, ma soprattutto affermando il protagonismo della vita sociale nella impresa comune della cura.

 

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