Di MARCO BASCETTA
Qualcosa sta accadendo nell’arcipelago europeo della socialdemocrazia. I segnali di un cambiamento di rotta vanno accumulandosi, anche se la prudenza è d’obbligo nel leggere ciò che accade come una tendenza generale.
Nondimeno una logica e un decorso politico comune sembrano prendere forma. Il segnale decisamente più rilevante proviene dal cambiamento al vertice della socialdemocrazia tedesca dove la sinistra del partito, in eterna minoranza, ha assunto la direzione della Spd. Non è certo una Bad Godesberg alla rovescia (il congresso del 1959 nel quale la Spd prendeva commiato dal marxismo e dall’obiettivo di costruire una società socialista).
Svolte di quella profondità appartengono ad un altro tempo, così come la centralità e la nettezza della contrapposizione tra riformisti e rivoluzionari che per tanto tempo ha condizionato la storia della sinistra. Tuttavia la presa di distanza dai dogmi dell’ordoliberalismo germanico e la ripresa di temi storici della politica socialdemocratica come l’imposta patrimoniale, il finanziamento pubblico degli investimenti, gli aumenti salariali, non sono enunciati di poco conto, se misurati con la storia recente della Spd.
Altri segni di un tramonto definitivo della stagione ultraliberista delle socialdemocrazie (quella che fu di Blair, di Schröder, di Zapatero) si sono moltiplicati nell’ultimo decennio. Dalla crescita di Syriza in Grecia alla conquista del Labour da parte di Jeremy Corbyn su un classico programma di riformismo socialista, alla fin troppo sofferta decisione di Sanchez di dar vita in Spagna a una coalizione decisamente orientata a sinistra. Recentissima poi la nomina di Sanna Marin, giovanissima esponente della sinistra del partito, alla guida della socialdemocrazia finlandese.
Cosa ha determinato questo cambiamento di prospettiva? Sicuramente una inarrestabile emorragia di consensi elettorali che ha portato all’estinzione il Partito socialista francese e indebolito le forze socialdemocratiche in gran parte dei paesi europei. Tanto quelle al governo (nei confronti dei partner di coalizione) quanto quelle all’opposizione. Una volta completata la conversione si finisce sotto il potere di un’altra chiesa e non c’è fervore da neofiti che paghi. La strada intrapresa dalla destra socialdemocratica non prevede altri passaggi. Il fondo è stato toccato.
In secondo luogo l’affermazione sempre più estesa di una destra che si appropria dei temi sociali convertendoli in nazionalismo e comincia ad aggredire quel terreno della laicità e dei diritti civili sul quale le socialdemocrazie contavano di poter mostrare ancora un qualche peso e una qualche differenza dal conservatorismo.
Se c’è qualcosa di cui sorprendersi è la perseveranza con la quale i socialdemocratici si sono dedicati a far dimenticare qualsiasi connotato di classe e qualsiasi inclinazione conflittuale della loro storia anche quando nessuno metteva più in dubbio la loro adesione incondizionata all’economia di mercato e mentre la destra radicalizzata occupava uno spazio politico sempre più ampio, denunciando l’appartenenza della sinistra a una élite “antipopolare” e asservita al capitale globalizzato.
In terzo luogo la combinazione infausta tra la conversione liberale e il retaggio di una forma mentis statalista e dirigista incapace di leggere le metamorfosi del lavoro e delle forme di vita delle ultime generazioni ha comportato la perdita del consenso operaio da una parte senza però conquistare dall’altra quello delle nuove soggettività emergenti, sostanzialmente escluse dal welfare e dalle sue riscritture sempre più restrittive e prescrittive, spesso a firma socialdemocratica.
Perché allora una correzione di rotta così evidentemente necessaria arriva tanto tardi e forse fuori tempo massimo? Vi si è opposta tenacemente una nomenclatura ben radicata, un sottobosco governativo e gestionale insediato da sempre nei diversi snodi del potere nazionale e regionale che ha tenuto in pugno per decenni i partiti socialdemocratici. Queste figure e le loro clientele, in nome del pragmatismo della “fattibilità”, del realismo politico, della “responsabilità” hanno inchiodato le socialdemocrazie a una prospettiva governativa, costi quel che costi. I “colpi di stato” interni contro la leadership di Jeremy Corbyn, le resistenze nel Psoe contro l’alleanza con Podemos, l’ emarginazione della sinistra nella Spd danno la misura di quanto forte sia stata questa resistenza.
Se Saskia Esken e Norbert Walter-Borjan, la nuova leadership del partito socialdemocratico tedesco, pur non minacciando di far saltare d’un tratto la Grande coalizione, lasciano intendere che essa non è più fine a sé stessa, è a questo apparato di partito, oggi in subbuglio, che intendono chiarire la natura del cambiamento. Quello stesso apparato sul quale i partner della Cdu-Csu contano invece per ostacolare qualsiasi rinegoziazione del contratto di governo. Che, probabilmente, solo in presenza di movimenti e forti pressioni dal basso ha qualche possibilità di essere intrapresa.
Questa è, del resto, la condizione che permetterebbe al “nuovo corso” socialdemocratico di acquisire forza e sostanza nei diversi contesti politici in cui si è manifestato. Ma comporterebbe anche un superamento del “modello socialdemocratico”, dei suoi schemi ideologici, delle sue pratiche di mediazione, delle sue forme organizzative. Un “ritorno alle origini”, alla dottrina del socialismo statalista non è pensabile né auspicabile. Ritornare si può, tuttavia, a una lettura conflittuale dei rapporti sociali. Con la consapevolezza di quanto radicalmente diversi da quelli a cavallo tra Ottocento e Novecento. E riscoprire così quella disposizione alla lotta che le socialdemocrazie europee si sono lungamente sforzate di cancellare dal loro orizzonte.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 12 dicembre 2019.