di AMITAV GHOSH.
Pubblichiamo l’intervista che Amitav Ghosh ha concesso a Stella Levantesi per il manifesto del 14 maggio scorso. Amitav Ghosh, narratore di fama globale, si interessa da anni al mutamento climatico; dopo aver focalizzato le sue riflessioni nelle quattro lezioni tenute all’Università di Chicago e pubblicate col titolo The Great Derangement: Climate Change and the Unthinkable (La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Einaudi, 2017), Ghosh ha cercato di rispondere in prima persona alle questioni poste – in particolare: perché l’Occidente non riesce a pensare all’impensabile? Qual è il ruolo della letteratura di fronte a queste realtà? – nel romanzo L’isola dei fucili (Neri Pozza, 2019), nel quale intreccia globalizzazione, mutamento climatico e migrazioni in una trama che si dipana dal Bengala a Venezia. Poche settimane prima dell’intervista al manifesto, Ghosh era intervenuto sull’intreccio fra crisi climatica e crisi pandemica in un dibattito su Democracy Now!, affermando che «una relazione diretta fra il mutamento climatico e la diffusione di questo virus è l’aumento delle temperature che creerà, renderà più facile la trasmissione di certi tipi di malattie in certi luoghi. Ma non possiamo pensare solo in termini di una relazione causale: penso che queste cose – questa pandemia, la crisi migratoria globale, eccetera – siano in realtà tutti effetti di questa grande accelerazione che abbiamo visto negli ultimi 30 anni, a partire dal 1990 circa, da quando questo regime economico neoliberale si è attuato in tutto il mondo. La metà di tutte le emissioni di gas a effetto serra che sono nei cieli in questo momento vengono dal 1990. È proprio in questo periodo che abbiamo assistito a questa incredibile accelerazione nei viaggi, nella mobilità: tutte cose che rendono possibile che una pandemia come questa si diffonda istantaneamente, per così dire, in tutto il mondo».
Nel suo ultimo romanzo, «L’isola dei fucili», la storia si svolge nel nostro mondo, tra alterazioni climatiche e migrazione forzata. La letteratura diventa il presente. In passato, lei ha parlato di come il cambiamento climatico finisce per essere per lo più relegato alla fantascienza o alle storie di tipo apocalittico. Perché il cambiamento climatico continua ad avere questa resistenza alle arti, come se fosse una dimensione futura, quando in realtà è il nostro presente? Pensa che la pandemia di coronavirus seguirà le stesse regole?
Penso a L’isola dei fucili come a un libro sulla nostra realtà di oggi. La realtà del tempo in cui viviamo. Penso che la vera domanda qui sia: perché questa realtà è incompresa da molti di noi? In generale, gli scrittori tendono a inquadrare il cambiamento climatico in relazione al futuro.
Io, invece, penso a questi temi in relazione al passato. Per me, il cambiamento climatico non è qualcosa che è accaduto solo negli ultimi trent’anni. È qualcosa che ha una storia molto lunga, che arriva molto in profondità nel nostro passato. È in quel contesto che ci penso, ed è in quel contesto che ho scritto L’isola dei fucili.
Per quanto riguarda la pandemia, non credo che sfuggirà alla letteratura come hanno fatto gli eventi climatici. Ci sono pochissimi romanzi o racconti sull’uragano Sandy che ha devastato New York nel 2012, e nessuno, per quanto ne so, sull’uragano Harvey, che ha devastato Houston nel 2017. Ma sospetto che ci sarà un’enorme ondata di romanzi sulla pandemia, proprio come dopo l’11 settembre.
Le epidemie hanno storicamente generato molta scrittura. L’Italia ne è un buon esempio. Due delle più grandi opere letterarie italiane sono il prodotto di epidemie: il Decamerone e I Promessi Sposi.
Scienza e letteratura erano un tempo strettamente intrecciate: scienziati e naturalisti hanno creato alcune delle opere letterarie più significative dell’Ottocento. Come mai la scienza si è separata dalla letteratura? Crede che una riconciliazione potrebbe aiutare l’attuale crisi ad essere “interiorizzata” più efficacemente dal pubblico?
È possibile che la letteratura possa aiutare il pubblico ad interiorizzare la crisi ma credo che nessun romanziere dovrebbe iniziare a scrivere un libro con questa intenzione. Sarebbe come fare propaganda, e non credo che funzionerebbe.
Chi si mette a scrivere per “educare” la gente o per far loro cambiare idea si illude. Se i fatti non fanno cambiare idea a qualcuno, come può farlo un romanzo? D’altra parte, credo che un romanzo debba riflettere la realtà nella quale è scritto.
È con questo imperativo che sento di dover scrivere sulla nostra crisi collettiva, non con l’imperativo di cercare di convertire le persone o di fare propaganda, il che sarebbe comunque inutile.
Uno degli aspetti infelici del cambiamento climatico è che ormai viene inquadrato come un problema tecnologico-scientifico, perché quasi tutto quello che si legge su di esso viene fuori da think-tank e dalle università.
Ma gli scienziati e gli esperti non sono le uniche persone ad aver notato che il clima sta cambiando. Se parli con agricoltori e pescatori in qualsiasi parte del mondo, vedrai che anche loro si sono accorti che il clima sta cambiando.
Il motivo per cui ascoltiamo gli scienziati piuttosto che, per esempio, i pescatori, gli agricoltori o le donne che devono camminare per cinque miglia per procurarsi l’acqua, è che non riescono a far sentire la loro voce nel mondo.
Gli scienziati, d’altro canto, sono parte di una struttura di potere che amplifica le voci degli esperti.
Credo che sia molto importante per noi non sentire che la scienza e solo la scienza può parlare in nome della «natura». E purtroppo questo è quello che a volte succede ai romanzieri quando scrivono del mondo naturale.
Nel saggio «La Grande Cecità» (Neri Pozza) lei scrive che la crisi climatica è anche una crisi di cultura e, quindi, di immaginazione. Questo vale anche per la pandemia? Pensa che la crisi climatica, la crisi della cultura e la crisi di Covid-19 siano legate da uno stesso «fil rouge»?
Queste crisi – e oltre a quelle da lei citate includerei la crisi migratoria – sono tutte affini, anche se non c’è un nesso causale diretto tra loro. Sono tutte il risultato dell’enorme accelerazione che si è verificata negli ultimi trent’anni. Non dobbiamo dimenticare che almeno la metà di tutti i gas serra che si trovano oggi nell’atmosfera sono stati prodotti dal 1990 in poi, dopo la caduta dell’URSS e l’adozione quasi universale del “Consenso di Washington”.
Questo periodo è stato chiamato la «Grande Accelerazione», ed è un nome appropriato, credo, perché tutte le nostre crisi sono affette da questa accelerazione: la crisi climatica, la crisi migratoria e, naturalmente, la pandemia del coronavirus.
Il capitalismo è stato identificato come il principale motore dell’attuale crisi climatica. Ne «La Grande Cecità» lei introduce altri fattori determinanti: l’impero e l’imperialismo. Quale aspetto dell’imperialismo ha causato la crisi attuale?
A mio avviso l’impero, e il calcolo del potere globale, è stato e continua a essere un fattore determinante essenziale del nostro destino in relazione ai combustibili fossili.
Basta dire che i combustibili fossili – la loro estrazione e il loro trasporto – sono centrali nella struttura globale del potere. È stato stabilito che una transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili non solo è fattibile, ma sarebbe vantaggiosa anche per molti altri motivi.
Tuttavia, un cambiamento priverebbe gli Stati Uniti e, più in generale l’Occidente, di alcuni dei vantaggi economici e strategici cruciali che sono maturati proprio attraverso il controllo della circolazione globale del petrolio.
Per quanto riguarda la pandemia, anche questa ha reso molto chiaro come funziona il potere nel mondo.
Ad esempio, i paesi ricchi e potenti sono stati in grado di acquistare attrezzature per i test e gli ospedali, mentre i paesi poveri non hanno potuto farlo.
Allo stesso modo, negli Stati Uniti le persone ricche e le celebrità non hanno avuto problemi a farsi testare, al contrario della gente comune. E, come saprà, gli afroamericani sono state colpiti in modo sproporzionato dalla pandemia. In alcune città questa sproporzione è sconcertante.
La «politica di logoramento» – «politics of attrition» – di cui scrive ne «La Grande Cecità» si basa sul presupposto che, poiché le popolazioni delle nazioni povere (e le comunità più povere in quelle nazioni) sono abituate al disagio, possiedono la capacità di assorbire gli shock, gli stessi shock che invece potrebbero paralizzare e debilitare le nazioni ricche. In questo scenario, i poveri hanno poco da perdere e le élite continuano a «logorarli» per mantenere il proprio status quo. Naturalmente questo non è mai esplicito: la crisi attuale ne è la prova. Crede che la cultura abbia un potere trasformativo, può cambiare il sistema?
Sospetto che, invece, crisi come questa pandemia tendono a rendere più radicate le idee predominanti.
Il fatto che questa pandemia abbia colpito in modo sproporzionato i poveri e le persone di colore, ha rafforzato, a mio avviso, la vena di darwinismo sociale che è sempre presente nella cultura occidentale.
Ho visto un gran numero di interviste a giovani bianchi (di solito uomini) che dicono cose del tipo: «Sono giovane, in buona salute e non ho nessuna co-morbilità, quindi non devo preoccuparmi di Covid-19»…Questo è anche l’atteggiamento dei sostenitori di Trump che hanno protestato contro il lockdown. Era anche la posizione che Boris Johnson e Macron avevano implicitamente assunto all’inizio.
Durante i primi giorni dell’isolamento, una cosa che mi colpì molto a Brooklyn, dove vivo, fu che quasi sempre le persone che uscivano senza maschere erano giovani uomini bianchi; presumibilmente pensavano di non doversi preoccupare dell’epidemia.
Questo tipo di fiducia affonda le sue radici, credo, nella storia del colonialismo, in cui la malattia è stata una delle armi con la quale i coloni hanno decimato le popolazioni indigene, prive di immunità nei confronti degli agenti patogeni del Vecchio Mondo. La vulnerabilità delle popolazioni indigene ha rafforzato le idee profondamente radicate della superiorità biologica europea e ha creato un senso di invulnerabilità.
È impossibile comprendere la risposta iniziale dell’Occidente a Covid-19 senza tener conto di questa storia. Molti leader occidentali, soprattutto anglofoni, sembravano credere che la malattia fosse una cosa asiatica (leggi «orientale») e che i loro paesi non ne sarebbero stati colpiti. Anche dopo che le loro popolazioni sono state colpite dalla Covid, sono stati molto lenti ad adottare i metodi che Cina, Corea del Sud e Taiwan avevano implementato poiché ritenevano che seguire le pratiche asiatiche significasse abbassarsi al loro livello…Il razzismo è stato una parte essenziale dello sviluppo di questa pandemia.
Ironia della sorte, la pandemia ha anche mostrato chiaramente al mondo che i paesi occidentali non sono più esempi di buona governance o di «best practices».
Questa intervista è stata pubblicata sul manifesto il 14 maggio 2020