Di FRANCESCO RAPARELLI

La domanda che ricorre, nella vita di un comunista, è spesso la seguente: tornerà il vento giusto per riprendere a volare? Non basta saper volare, averlo già fatto; e neanche aver imparato dalle sconfitte. Serve il vento, quello che inizia dal basso, quasi impercettibile, ma che d’improvviso comincia a tirare forte. Si potrebbe dunque esonerare il rivoluzionario dalla ricerca paziente, essendo l’alea a fare la differenza. E invece non è così; e non solo perché il vento dei movimenti sociali è molteplice, un insieme di forze che cominciano a convergere e ne facilitano l’ascesa. Occorre volerlo sentire mentre sale, farsi gettare in terra le carte «sudate» – e si perde il filo, si dimentica l’ordine rimettendole assieme dopo le prime folate. Il terzo volume della Storia di un comunista, quella di Toni Negri e con lui curata da Girolamo De Michele per i titoli di Ponte alle Grazie (20 euro), racconta di un ritorno: in Italia, in cella, della libertà, dell’amore (per Judith), del vento che soffia impetuoso – tra blocchi e interruzioni – da Seattle a Genova, dalle banlieues parigine agli studenti dell’Onda, da Occupy al mondo che verrà.

E la grandezza di un comunista, di quelli che non separano parola e lotta, è mettersi in ascolto, farsi attraversare dal vento e dal nuovo, sbatterci la testa e (re)imparare a volare: un’altra volta, come fosse la prima volta. Battere la sconfitta non vuol dire, hegelianamente, «sopportarla e in essa mantenersi». Significa piuttosto rinascere, riprendere il volo. Nella consapevolezza, ruvida ma non per questo meno potente, che ai militanti comunisti tocca spesso un’eccedenza inattuale: costruendo le lotte dal basso, ovvero nel mezzo – né fuori né sopra – della composizione di classe, con la teoria anticipano il cambiamento; quando il movimento esplode, solo dopo, con la teoria, afferrano la giusta misura organizzativa di ciò che è stato. Lo chiarisce Negri nella terza parte della Storia (De senectute), che è di bellezza rara e commuove. Lo fa ripensando al metodo operaista, alla Comune italiana che non dura solo il Maggio, ma almeno due decenni e si conclude dopo il ’77 («vero ’68 italiano»), con l’escalation delle formazioni armate e la violenza repressiva dello Stato.

C’è un aspetto tragico, nella storia di Negri e dei militanti comunisti. Vedere lontano e preparare il terreno, afferrare la forma a giochi fatti. Troppo presto, troppo tardi. Non stupisce allora che, resistendo alla nuova condizione carceraria dei ’90, Negri rifletta sul kairòs, il tempo debito: il proprio ‘ora’ che la dialettica vuole universale, perché ineffabile, e il materialismo osa nominare come singolarità, evento costruttivo. E non è neanche vero, a guardar bene, che non esista misura per i movimenti e la loro espansione. La composizione di classe che emerge selvaggia nel ’77 italiano, quella dell’intellettualità di massa e del «lavoro sociale», non evapora dopo la sconfitta della Comune. Torna invece egemone con la ricomparsa dei movimenti universitari (dalla Pantera in poi), la proliferazione dei centri sociali, le lotte francesi e l’invenzione delle Tute bianche, salendo su fino a Genova e molto oltre. I movimenti, anche quando brutalmente sconfitti, semmai per poco sono stati acceleratori dell’intelligenza collettiva, fonte di nuovo essere – che non tramonta, si inabissa per tornare a galla, a volte, più forte di prima. In questo senso Negri ripensa la lotta di classe in termini ontologici: il kairòs della prassi rivoluzionaria (né un minuto prima né dopo) incrementa l’eternità del comune. La misura allora non compare solo alla fine, ma anche nel mezzo, come un’approssimazione istituzionale: contropotere è quella novità con un passato non secondario alle spalle, fatto di intervento di base e scommesse politiche, che zampilla nella lotta e si cristallizza, dura nel tempo. Cristallo liquido, dunque aperto alle mutazioni a venire, ma cristallo.

In questo ultimo volume Toni racconta una storia che è stata in larga parte anche di colui che scrive – e di tante altre e tanti altri con lui. La storia di una casa, «la Gensola», con un tavolo grande dove si discuteva per giornate intere, si beveva e si mangiava allegri – hilaritas, per il militante comunista, è continua alternativa etica al tragico. È la storia di una rivista, Posse, che del faticoso «farsi classe della moltitudine», e delle rinnovate lotte del general intellect, costituisce ancora oggi una mappa e un rilancio. Per noi, che all’epoca passammo per Genova e avevamo l’età di Carlo Giuliani, fu la conquista di un metodo. Ma soprattutto di un amore affamato per la mescolanza: delle generazioni di militanti, delle forme di vita, del sapere e degli affetti. Se la strada dopo sia stata sempre dritta, o storta, non conta. Conta che non siamo stati più gli stessi. Grazie Toni.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto e DinamoPress.

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