Presentiamo qui i materiali che compongono il Quaderno di EuroNomade dedicato al Contropotere. Il Quaderno può essere scaricato cliccando qui.


A cura di SANDRO MEZZADRA

Le pagine che proponiamo di seguito sono tratte da un testo del 2001 del Colectivo Situaciones di Buenos Aires, che ha rappresentato per molte e molti di noi un interlocutore fondamentale negli scorsi anni. Ispirato da molteplici correnti di pensiero radicale e rivoluzionario latinoamericano (a partire da Che Guevara), il Colectivo Situaciones si è aperto fin dall’inizio della sua esperienza al confronto con altre tradizioni, tra cui l’operaismo. Ne è derivata una proposta di grande originalità teorica, sicuramente tra le più interessanti emerse nell’ultimo ventennio dall’America Latina. Nel corso della sua attività, il collettivo ha in particolare definito uno stile peculiare di “inchiesta militante”, che lo ha condotto a lavorare con movimenti dei disoccupati e contadini, con esperienze di “educazione popolare” e con collettivi impegnati nella rivendicazione di “verità e giustizia” per i crimini della dittatura militare. I materiali pubblicati sulla base di questo lavoro formano un archivio di fondamentale importanza per la comprensione delle lotte in Argentina e più in generale in America Latina. Il testo che presentiamo documenta la prima fase del lavoro del Colectivo Situaciones ed è stato pubblicato poco prima della grande insurrezione del 19 e 20 dicembre del 2001 che ha rappresentato un punto di svolta per la storia argentina recente e per lo stesso collettivo (cfr. Colectivo Situaciones, Piqueteros. La rivolta argentina contro il neoliberismo, DeriveApprodi, 2003). Molto

influenzato dallo zapatismo, il testo dà un esempio di riflessione latinoamericana sul tema del contropotere, all’interno di un dibattito molto vivo e articolato.

Fonte: Colectivo Situaciones, Por una política más allá de la política, in AA.VV., Contrapoder. Una introducción, Buenos Aires, Ediciones De Mano en mano, 2001, pp. 19-20, 26-27 e 40-41.

Introduzione

E infine abbiamo appreso che il potere non è – in alcun modo – il luogo politico per eccellenza. Come diceva Spinoza, il potere è il luogo della tristezza e della più assoluta impotenza. Come sarà una politica capace di assumere fino in fondo questa lezione? Come chiameremo questo sapere sull’emancipazione che ormai non concepisce più che la trasformazione passi attraverso la presa dell’apparato di Stato ma piuttosto per la destituzione di ogni centro?

Un’epoca segnata dalla supremazia dello statuale come chiave della trasformazione si è conclusa: ma è possibile che si concludano le lotte per la giustizia e per la libertà? Si può forse pensare che l’umanità ostenti indifferenza, senza eccezioni, di fronte alla disuguaglianza estrema e alla barbarie?

Se si è esaurita la politica nelle condizioni della sovranità statale, tuttavia, abbiamo ancora ben poche esperienze di una politica del contropotere.

La semplice verità che la rivoluzione non è morta ma si è piuttosto trasformata, tanto nella forma in cui la si pratica quanto nella forma in cui la si pensa, ci apre nuovamente una via per abitare l’avvenire.

Chiameremo zapatisti coloro che hanno diffuso questa scoperta? Saremo capaci di pensare nel solco degli effetti aperti nella Selva Lacandona?

La discussione è aperta.

Domande del contropotere

Come abitare un’epoca di cui non giungiamo a comprendere le chiavi fondamentali? Se, come diceva Foucault, siamo di fronte alla “fine dell’epoca dell’uomo”, è possibile percepire le trasformazioni antropologiche in atto senza un profondo rinnovamento del modo di pensare le questioni degli uomini? Foucault stesso ci offriva una traccia per pensare: “pensare l’altro” implica, necessariamente, pensare “in un altro modo”.

Non ci staremo interrogando sul senso delle pratiche attuali a partire da riferimenti di pensiero che corrispondono a una forma di concepire la politica ormai esaurita? E questo esaurimento non consisterà in una perdita di potenza delle ipotesi teoriche e pratiche che hanno strutturato un’intera sequenza della politica come pratica che aspira al potere?

Formuliamo una premessa che apra per noi il campo del pensiero: il contropotere non diviene potere centrale.

Non v’è più lieto fine né forma sociale – statuale – definitiva in fondo al cammino. Ma nemmeno fallimento o crollo, piuttosto epoche più o meno luminose, esaurimento delle ipotesi che ci consentono di lavorare all’interno di un’ epoca ed emergere di nuove ipotesi.

Effettivamente, se la politica esiste come attività separata che affronta i temi del potere centrale, come chiamare allora le forme in cui noi, uomini e donne, mettiamo in gioco la nostra capacità creativa, di insubordinazione e di affermazione di nuove forme di vita.

Se così spesso si sono chiamati politica i problemi del palazzo e del “politichese”, come chiamare quel che succede a livello della base, delle lotte concrete per la giustizia e per la libertà?

La soggettività politica del militante classico pensa a partire dalla rappresentanza. Per lui, quel che succede a livello di base ha valore solo quando – e in quanto – si riflette nella situazione politica globale.

L’ inversione secondo cui ciò che accade come singolarità, fondando una situazione concreta, ha valore solo per la forma in cui quest’ultima è rappresentata nella totalità, come forza nella congiuntura, inverte i termini di un pensiero della potenza. La situazione risulta dimenticata in nome di ciò che è veramente “serio”: ovvero, gli “spazi politici”.

Ma può darsi una politica che non passi attraverso queste forme classiche della politica? È possibile sganciarsi da questi spazi saturati di rappresentanza, sottrarsi a questo livello spettacolare per dedicarsi a costruire contributi concreti, composizioni di legami effettivi e produzione di concetti e forme di vita alternativi?

La comune

L’utopia del contropotere è la comune. La immagine di una vita piena, sbloccata, di una molteplicità ricca e dispiegata. Non si tratta di una società che si realizzerà una volta per sempre, e tantomeno di un modello di statualità che le scienze politiche dovrebbero offrirci.

La comune appare come la soggettività di quanti resistono al potere creando nuove forme di vita.

Dalla Comune di Parigi allo zapatismo, attraversando oltre un secolo di lotte rivoluzionarie, il comunismo non cessa di emergere di volta in volta come sfondo di ogni ideale politico.

Silvio Frondizi, in Argentina, diceva che il partito rivoluzionario non poteva attendere la presa del potere per iniziare una nuova forma di “sociabilità”, ma che l’organizzazione politica doveva essere, in sé stessa, un’anticipazione di queste relazioni sociali che, poi, si sarebbero estese a tutta la società.

E per quanto oggi il futuro non ci appaia più come il punto organizzatore del presente, questa idea dell’anticipazione può essere mantenuta. Ora non si tratta del futuro e del partito, ma del presente e del contropotere – e tuttavia, nell’essenziale, le cose stanno nello stesso modo: l’attualizzazione di una soggettività e di un incontro con la potenza.

Si tratta, oggi come ieri, di dissolvere le gerarchie o, come diceva Walter Benjamin, dell’emergere di questa forza che lacera la normalità e le norme – una forza che deve essere ogni volta invocata e reinventata per distruggere le strutture del potere, per irrompere nella normalità capitalistica e sabotare i suoi meccanismi più essenziali: la delega delle potenze vitali a centri di gestione la cui politica consiste, come diceva Foucault, nel «prendersi carico della vita, dei corpi» degli uomini (biopotere).

La comune funziona come attualizzazione dei miti dell’emancipazione. Come utopia. Non appartiene a un soggetto della storia, portatore dell’avvenire. Non si tratta di una meta a cui si perviene attraverso una pianificazione cosciente, né di una stazione nello sfiancante viaggio attraverso la negatività. Al contrario, la comune è l’orizzonte utopico dell’insubordinazione, aspetto essenziale di ogni etica della resistenza.

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