Di ASSEMBLEA IL MONDO CHE VERRÀ
Dicevamo, durante i giorni del lockdown, che «il tempo era uscito dai cardini». D’improvviso, infatti, la pandemia ha imposto una battuta d’arresto senza precedenti alla globalizzazione capitalistica. D’improvviso le giornate sempre uguali, votate alla performance e alla competizione, alla produttività e allo “svago”, hanno preso un nuovo corso. Migliore? Non è difficile rispondere: senz’altro no. Bambini e ragazzi hanno perso l’insostituibile esperienza scolastica in presenza; chi aveva contratti di lavoro a tempo determinato o lavorava in nero ha perso l’impiego e raccolto elemosina con bonus e reddito d’emergenza; chi il lavoro non lo ha perso, ha atteso mesi per la Cassa integrazione e ora, con lo sblocco dei licenziamenti, rischia comunque di perderlo; chi non ha potuto lavorare da remoto, pensiamo alla Sanità, alla logistica o alla catene della grande distribuzione alimentare, ha fronteggiato giorno per giorno il virus, e il rischio di contagio, con stipendi da fame e lavoro senza sosta; chi, invece, ha avuto la fortuna di poter lavorare da casa (telelavoro più che vero e proprio Smart working), ha scoperto, soprattutto se donna, il dramma della piena sovrapposizione tra tempi/spazi di vita e tempi/spazi di lavoro.
Eppure tutti abbiamo dovuto fare i conti con una interruzione, col vuoto. Spesso, è nel pericolo massimo che si pensa in grande: tutto ciò che era, vacilla; è possibile dunque vivere altrimenti. Così abbiamo provato, in centinaia e per due mesi di fila, a discutere del mondo che verrà. Consapevoli che, senza lotte, della crisi il capitalismo sa sempre fare virtù. Abbiamo scritto, collettivamente, un programma politico offensivo, avanzando rivendicazioni semplici ma urgenti, inaggirabili: welfare contro mercato; reddito contro disoccupazione; più salario e meno orario; cura e solidarietà contro barbarie, machismo, razzismo; giustizia climatica. Pretese nitide per sollecitare una convergenza organizzativa, di parola e di lotta, all’altezza dell’epoca. Stigmatizzando dunque un metodo politico che per troppi anni, in Italia, ha mietuto vittime: quello che antepone l’identità alla relazione, la frammentazione rancorosa alla combinazione potente. Sì, la congiuntura che ci tocca in sorte impone una rinnovata politicizzazione della vita e della sua riproduzione; uno sforzo costituente che spazza via le piccole patrie.
Ce la faremo? Difficile dirlo. Ma sappiamo con certezza alcune cose: la nuova guerra civile americana, chiarisce – se ancora ce ne fosse bisogno – che capitalismo e autoritarismo razzista e machista vanno tranquillamente a braccetto; dove Sanità pubblica e welfare universale mancano, la pandemia colpisce più duramente. Sappiamo poi che il Recovery Fund, per la prima volta in Europa, socializza il debito pubblico e distribuisce risorse ingenti per il lavoro e la Sanità, gli ammortizzatori sociali, la conversione ecologica, la digitalizzazione. C’è voluto il COVID-19 per imporre una linea economica riformista e una monetaria del tutto espansiva, ma l’Europa di oggi non è più quella che abbiamo conosciuto. Le parole di Von der Leyen e di Gentiloni sul salario minimo europeo lo dimostrano in modo inequivocabile, per quanto non manchino le resistenze, le contraddizioni e le spinte di segno opposto.
Intendiamoci: affermare quanto abbiamo affermato fin qui non vuol dire in alcun modo pensare che siamo salvi, noi europei, e la strada da fare sia solo in discesa. In primo luogo perché, per noi, non c’è alcuna Europa degna a Lesbo, in Libia, nel Mediterraneo. In secondo perché la destinazione delle risorse pubbliche, l’uso che ne verrà fatto, come sempre dipenderà dai rapporti di forza. In Italia il problema è cristallino: Confindustria chiede tutto, dopo avere, con Bonomi, superato ogni misura diplomatica. Eppure, nella sofferenza di questi mesi, qualcosa è emerso in modo inequivocabile: senza solidarietà e istituzioni della cura, nessuno si salva. A ciò si è aggiunta la consapevolezza che queste istituzioni, siano esse pubbliche o autogestite, pretendono risorse e democrazia per poter svolgere la loro funzione vitale. Le pretendono la Scuola e l’Università, la Sanità e il mutualismo urbano. E forse sta emergendo la consapevolezza – questa è una scommessa – che un welfare solido e solidale si può e si deve saldare con una lotta senza pause contro la sotto-occupazione e i salari da fame, per l’estensione del reddito e della pensione di cittadinanza. La stessa lotta, essenziale, per la conversione ecologica trova nell’aggancio a un welfare da reinventare la garanzia del proprio carattere espansivo, per una riqualificazione dei concetti stessi di ricchezza e sviluppo.
«Osare lottare, osare vincere», si scriveva e diceva in un tempo ormai remoto e senz’altro dimenticato. Vincere lo vedremo, perché non esiste il fine certo e lineare della storia. Ma lottare, nel mondo di Trump, Bolsonaro e Modi, è sempre più un desiderio di vita contro la morte. Come questo desiderio possa crescere, attraverso un’agenda di mobilitazioni unitarie, costruita in modo paziente e plurale, è l’obiettivo che si è data l’assemblea del 27 settembre prossimo de #ilmondocheverrà. Sarà in presenza, a Roma a partire dalle 10, presso il Laboratorio ACROBAX, in via della Vasca Navale 6, quartiere San Paolo/Marconi. Ovviamente all’aperto e distanziati, con la possibilità, per chi non riuscirà a raggiugere Roma, di seguire lo streaming sulla pagina Facebook. Un giorno dopo la grande mobilitazione di Priorità alla Scuola, alla quale parteciperemo e che ci auguriamo gremita e importante.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto e DinamoPress il 21 settembre 2020.