Di ROBERTA POMPILI
Dopo l’esperienza di didattica a distanza nel periodo di lockdown, e mentre ancora è in atto una crisi pandemica, la scuola si è da poco riaperta ed è tornata ad essere dentro il dibattito politico e pubblico, anche grazie alle recenti mobilitazioni congiunte di genitori, student*, insegnanti e personale scolastico (“Priorità alla scuola”). Grazie alla shock economy la scuola riapre con molte incognite, problemi e una accelerazione nei processi di aggiustamento del capitalismo delle piattaforme (come abbiamo già visto in opera per la DAD, e di recente in azione nelle Graduatorie Provinciali Scolastiche in cui il lavoro amministrativo per il reclutamento per personale precario è stato appaltato al sistema delle piattaforme). Dimezzata da tempo del suo personale che è stato strutturalmente e in buona parte precarizzato, “riformata” negli ultimi decenni in senso neoliberale, la scuola ancora appare come una delle ultime vestigia del welfare del secolo scorso, sebbene il suo impianto stia subendo molteplici modificazioni. D’altra parte nei cambiamenti emersi nel sistema produttivo, tecnologico e sociale emerge il protagonismo di nuove soggettività che il capitale ha bisogno di controllare e indirizzare, progetto realizzato, almeno in parte, con la cattura dell’immaginazione comune: una immaginazione oggi tutta da liberare.
Neoliberismo e formazione
Da tempo molti studi indicano la scuola come luogo in cui il neoliberismo ha impresso attraverso innumerevoli “riforme” il suo orientamento: la cultura della impresa e il linguaggio della tecnologia (anche attraverso la learnification come indicato di recente da Girolamo de Michele) costituiscono il modello pedagogico che si è innestato nella vecchia scuola in cui spesso recalcitranti insegnanti devono essere resettati (grazie ad opportuni corsi di formazione e accuratamente coadiuvati da apposita documentazione burocratica) allo scopo di assicurare i processi che li renderanno in grado di svolgere – oltre la vetusta trasmissione culturale- la loro funzione di addestramento e controllo della forza-lavoro in formazione. Non diversamente che da un portfolio di una impresa di piattaforma tra le tante (come Deliveroo ad esempio), a scuola ad esempio sono stati istituiti dei portfolio delle competenze, dispositivo introdotto dalle Indicazioni nazionali (2004 Ministra Moratti) come strumento di valutazione e orientamento. Tale portfolio dovrebbe fornire attraverso un sistema di indici valutativi, una sorta di panoramica delle performance dello studente/essa e dovrebbe incoraggiare il darsi di condotte e comportamenti ritenuti favorevoli all’autostima. L’obbiettivo è governare i soggetti incitandoli ad adottare comportamenti ritenuti valorizzanti e a seguire modelli di autovalutazione che modificano le loro priorità e influenzano le loro scelte strategiche. Ammantati di parole d’ordine come efficienza, ottimizzazione, performance, competizione e merito i nuovi modelli dell’audit culture sono entrati nei sistemi educativi (scuola ed università) e costruito la base del new public management. Come osserva l’antropologa Marilyn Streathern, gli indici e gli strumenti valutativi che ne fanno da corollario sono serviti prima di tutto come ingegneria sociale per costruire un preciso senso di responsabilità nel controllo e nella gestione delle risorse finanziarie all’interno degli attori (partner) che partecipavano nelle politiche di intervento economico-sociale messe in campo da organi internazionali (occidentali) all’interno delle frontiere postcoloniali. Da modello finanziario, l’audit culture è oggi pervasiva nella relazione didattica e l’ha ridefinita in termini di efficienza e competizione, ridisegnando gli stessi ruoli del docente (erogatore) e dello studente (cliente). Da tempo studiosi come Carlo Vercellonesi sono occupati di capitalismo contemporaneo indicando come il lavoro cooperativo e cognitivo sia al centro della produzione e ridefinisca gli ambiti di produzione del valore. Il lavoro cognitivo si sviluppa nell’insieme di tempi di vita e il tempo certificato dall’impresa è solo una frazione del tempo effettivo di lavoro. Mentre l’incontro tra tecnologia e intellettualità diffusa in questa fase potrebbe facilitare la riappropriazione del valore da parte della forza lavoro, gli strumenti di governance neoliberale intervengono nel modello tradizionale di formazione della forza-lavoro (quello che potremmo definire fordista anche se ridefinito e riarticolato dalle lotte che in quel ciclo fordista si sono date) imponendo un nuovo modello di formazione incentrato sulla prescrizione della soggettività: tale prescrizione si concretizza nella moltiplicazione di strumenti di valutazione della soggettività dello/a student* e della sua fedeltà ai valori dell’impresa.
Dentro la crisi dell’immaginario neoliberale
In un suo recente articolo Christian Laval sottolinea come la recente pandemia abbia provocato una crisi nell’immaginario neoliberale che è nel cuore del progetto formativo, quello della concorrenza-merito del soggetto- impresa. Egli osserva come nella pandemia l’idea della concorrenza del meritevole non può essere invocata in un contesto in cui sono in ballo la vita e la morte: questo ha comportato, di fatto, una “accelerazione della crisi della speranza”. Tale crisi- secondo Laval- è tanto più importante in quanto va oltre il piano dei singoli soggetti, poiché la speranza è un cemento sociale, se si tiene fede al lavoro di Marcel Mauss, che garantisce come ogni comunità abbia una forma di aspettativa comune. Ora la promessa implicita nel modello neoliberista prevedeva, attraverso l’applicazione del principio di concorrenza a tutte le attività, l’idea che un flusso di ricchezza sarebbe arrivato anche verso i più poveri, che la prosperità e il benessere sarebbero, prima o poi, arrivate grazie all’impegno individuale e all’efficienza complessiva del sistema. Oggi appare chiaro ai più che questa convinzione non ha fondamento, che si va verso il peggio e che proprio l’immaginazione neoliberista ci porta in quella direzione. Al contrario la crisi pandemica ha mostrato che la solidarietà, la cooperazione, interdipendenza e cura comune possono combattere un virus mortale, e come i servizi pubblici (scuola, sanità..) svolgano un ruolo imprescindibile in questo senso, in quanto istituzioni del comune.
Il neoliberismo ha, in tutto questo tempo, giocato la sua carta attraverso una continua cattura e torsione della trasformazione rivoluzionaria che si era data a partire dal ‘68. Anche la pedagogia costruttivista -quella dell’imparare ad imparare, per intenderci, che mette al centro della formazione il soggetto che apprende (e non gerarchicamente l’insegnante) – cosi in voga nei manuali della buona scuola, è stata rigiocata dentro un continuo processo di auto-responsabilizzazione individualizzante (pensiamo alla stessa autovalutazione). Le pratiche di neoliberismo dall’alto si sono trasformate nel tempo in una serie di procedure attivate dal basso attraverso una infinità di norme, procedure e misurazioni che hanno esautorato lo spazio culturale, costruendo un unico piano di realtà, quello che Fisher ha chiamato efficacemente il realismo capitalista: anche per questo l’immaginazione è un campo di lotta e non sappiamo se nella nuova crisi quei meccanismi istituiti continueranno a produrre nuovi processi di gerarchizzazione soggettiva lungo la linea del genere della razza e della classe e un ritorno a fantasmi di sovranità maschia, etnica, razziale, nazionale. Di certo mutiamo da Arjun Appadurai come l’immaginazione sia stata catturata da una politica del numero, mutuata dalla logica attuariale e assicurativa, di natura statistica e legata alla conoscenza predittiva, che è diventata l’orizzonte su cui si è collocato l’intero impianto pedagogico dell’audit culture. Per questo motivo lo studioso contrappone al potere predittivo del numero e dunque l’etica probabilistica, un’etica non predittiva della possibilità: il diritto all’immaginazione è centrale per la produzione di nuova soggettività.
In questi anni i passaggi di crisi econonomico-sociale e politica, così come i rapidi processi di ristrutturazione del capitale, sono stati da più parti letti e analizzati, mentre una attenzione più frammentata c’è stata spesso nei confronti di un’analisi culturale. Mano a mano che l’architettura del soggetto neoliberale si istituiva come egemone, gli strumenti culturali e politici che nel passato si erano dati sono risultati inadeguati per affrontare le contraddizioni del presente dandoci perlopiù una sensazione di vertigine e crisi della presenza nel senso demartiniano: la Fine del mondo, oggi nel contesto (post)pandemico e in piena crisi climatica ed ambientale diventa la traccia con cui leggere il disagio e necessità di operare in un mondo di nuovo addomesticato. La crisi pandemica- economica -politica- culturale è anche crisi della soggettività antropocentrica, del maschio bianco coloniale ed eterosessuale su cui si è fondata buona parte della produzione di discorso che in passato ha fornito le basi per rendere intellegibile qualsiasi progetto di cambiamento sociale. Altrove abbiamo sottolineato, al contrario, come la produzione culturale che ha accompagnato il femminismo contemporaneo (letteratura, saggistica, filmografica) abbia costruito una nervatura di discorso orientato in avanti in senso radicalmente trasformativo. Il movimento femminista transnazionale puntella il suo cammino attraverso la continua costruzione di riti e simboli, verso un futuro (non in senso escatologico) percepito come orizzonte di cambiamento. Il futuro in quanto fatto culturale ha bisogno di essere re-inventato, prefigurato collettivamente per rendere possibile l’attivazione di una potenza sociale comune. Se il lavoro politico dell’immaginazione torna ad essere centrale, lo è anche per la scuola stessa: la rinnovata recente attenzione verso Gianni Rodari e le sue lezioni di fantastica, lasciano ben sperare. Ma la scuola non ha bisogno di cambiamenti in termini di lifting pedagogici, piuttosto di innovazione e trasformazione radicale. In quanto istituzione del welfare dello stato, la scuola (come la Sanità) è stata il luogo dove insieme alla “trasmissione dei saperi” si è in gran parte scaricato/appaltato parte del lavoro riproduttivo e di cura nell’interfaccia con le famiglie/donne da immettere come forza-lavoro nella produzione. In questo senso il welfare/riproduzione è attraversato da una linea del genere che la definisce in termini di quantità e qualità. Le donne sono presenti al 99% nelle scuole di infanzia e il 69% nelle scuole medie superiori (dati Ocse 2018), il dato muta se si considerano ruoli e posizioni dirigenziali (i tecnici e dirigenti sono spesso ancora maschi), ma la linea del genere è ancora più visibile si sposta lo sguardo dalla scuola verso “l’alta formazione” (in una riproduzione gerarchica dei saperi che è parallela ad un processo selettivo ed escludente). Questo vuol dire che il grimaldello di genere può e deve poter diventare una potente leva di trasformazione della formazione nel senso complessivo. Quanto il lavoro di cura riproduzione sia nella nostra società, invisibilizzato, mal pagato e disprezzato e posto in fondo alla gerarchia sociale è notorio. Rivendicare la centralità della scuola in quanto istituzione del comune vuole dire innanzitutto riaffermare la centralità della riproduzione della vita, e dunque aprire una sostanziale vertenza rivendicativa per l’investimento per la scuola di domani, per il riconoscimento del valore economico della cura, svolto insieme a quello professionale. Forse vuol dire rivoluzionare l’idea stessa del lavoro, laddove ogni lavoro professionale porta con sé un carico di relazioni e dunque un piano di cura che deve essere riconosciuto e valorizzato. Sul piano trasformativo occorrerà dunque dispiegare una immaginazione fantastica: quali modelli educativi, per quali progetti educativi, per quale genere di soggettività insegnanti-allievi-alunn*- genitor*, per che genere di società? La sfida è aperta.