a cura di Félix Boggio Éwanjé-Épée, Orazio Irrera e Matthieu Renault.
La recensione di Félix Boggio Éwanjé-Épée e Matthieu Renault è apparsa per la prima volta in lingua francese sulla Revue des Livres, n. 13, septembre-octobre 2013; l’intervista di Orazio Irrera e Matthieu Renault con Vivek Chibber è stata pubblicata come supplemento online sul sito della Revue des Livres, (settembre 2013). Ringraziamo la Revue des Livres per aver autorizzato la presente traduzione italiana di questi due contributi.
Postcolonial Theory and the Specter of Capital è stato uno dei volumi più discussi del 2013 nel campo degli studi postcoloniali e in quello degli studi marxisti. Il clamore suscitato dalle sue argomentazioni molto serrate e insieme parecchio severe nei confronti della teoria postcoloniale e dei Subaltern Studies è stato notevole. Il libro è stato accolto con entusiasmo da personaggi del calibro di Noam Chomsky, Robert Brenner e Slavoj Žižek, ma ha pure sollevato numerose critiche e, soprattutto, anche alcune risposte da parte di chi è stato direttamente chiamato in causa dalle analisi di Chibber, come in occasione del dibattito tra quest’ultimo e Partha Chatterjee, durante l’affollatissima conferenza “Marxism & the Legacy of Subaltern Studies” organizzata da Historical Materialism a New York il 26 aprile 2013. Qualunque idea ci si possa fare di questa opera, ci sembra che questo libro, così come il vasto dibattito che attorno ad esso si è sviluppato, abbiano assunto un rilievo di cui oggi non si può non tener conto. Per questa ragione abbiamo ritenuto utile mettere assieme un dossier per presentare questo testo anche a un pubblico italiano.
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Recensione
Che fare degli studi postcoloniali?
su Postcolonial Theory and the Specter of Capital di Vivek Chibber[1]
Verso books, 2013 (306 p., 16,43 €)
Félix Boggio Éwanjé-Épée e Matthieu Renault
(traduzione dal francese di Orazio Irrera)[2].
In Postcolonial Theory and the Specter of Capital, Vivek Chibber intraprende una discussione in polemica con gli studi subalterni e postcoloniali di cui viene contestata, attraverso delle argomentazioni ancora inedite in Francia e in Italia, la capacità di “provincializzare l’Europa”. Fatto abbastanza raro da sottolineare, l’autore prende sul serio gli enunciati dei suoi avversari postcoloniali e li passa al vaglio di una indagine storica e del pensiero marxista. In fondo, è proprio questo il nocciolo della questione: l’eredità di Marx è valida per pensare le società al di fuori dell’Europa?
Non nascondiamocelo : in Francia, scrivere su Postcolonial Theory and the Specter of Capital è come una scommessa. Abituati a ricezioni falsate e deformate degli studi postcoloniali – per molti versi sovradeterminate da dispute puramente francesi – i lettori meglio informati saranno di certo tentati dall’etichettare il libro di Vivek Chibber come una nuova tappa della “crociata” condotta da una frangia della gauche intellettuale limitata e sorda alle “politiche della differenza”. A dispetto di ogni nostra riserva, ci sembra che quest’opera vada comunque ben al di là degli attacchi a cui siamo stati abituati dai detrattori degli studi postcoloniali. Rigoroso, ricco di analisi sottili, questo libro si fa portatore di una critica che, pur essendo tagliente e vivace, non è mai fatta a spese della dimostrazione o degli oneri della prova. Chibber non giudica i teorici postcoloniali soltanto in base alle loro supposte intenzioni (culturaliste, relativistiche, etnicizzanti, ecc), ma anche in base quello che fanno, ovvero alle loro argomentazioni. È questo che ci vieta di contrapporgli una semplice “difesa di principio” degli studi postcoloniali.
Esportare l’eurocentrismo o riportare l’orientalismo?
L’originalità dell’approccio di Chibber si evince dall’oggetto della sua critica. Lungi dal sottovalutare la pluralità di prospettive di cui si compongono gli studi postcoloniali, egli si pone come obiettivo quello di esaminare le posizioni e le proposizioni più rappresentative: «ci sono differenti tipi di teorizzazioni postcoloniali […]. La mia prima preoccupazione in questo libro è quella di prendere in esame il quadro teorico che gli studi coloniali hanno approntato per l’indagine storica e, in particolare, l’analisi di quel che si è soliti chiamare Terzo-mondo […]. I più illustri rappresentanti degli studi postcoloniali nelle ricerche sul Sud globale sono senza dubbio i Subaltern Studies» (pp. 4-5)[3]. Chibber annuncia dunque subito che ciò su cui si concentrerà non sono tanto delle proposizioni epistemologiche generali della “teoria postcoloniale”, ma la metodologia e la concettualizzazione relativa al campo dell’indagine storica. Se non ci si fidasse di quello che questo libro riesce concretamente a fare, si dovrebbe presentarlo come uno studio di teoria sociale, se non di sociologia storica. La sua forza, che è al contempo anche la sua debolezza, è di considerare le teorie da criticare dal punto di vista di una teoria sociale degna di questo nome. Il vantaggio di questo percorso è di preservarsi dalla polemica sterile e dagli argomenti basati sulla sola autorità; lo svantaggio consiste nello stabilire dei nessi di causalità troppo immediati tra dei principi metodologici (legittimi ma discutibili) e dei vizi e delle virtù politico-filosofici (oscurantismo, irrazionalismo).
Chibber si spinge allora a contestare quella che a suo giudizio costituisce la tesi fondamentale della teoria postcoloniale, ovvero che tra Occidente (West) ed Oriente (East) esisterebbe un’irriducibile differenza, un «divario incolmabile», un «chiasma strutturale». Secondo lui è questa tesi che condanna i teorici postcoloniali a riprodurre un discorso che era già quello degli ideologi dell’imperialismo, diventando fautori di un orientalismo che si vorrebbe invece combattere e che nulla avrebbe da invidiare ai suoi predecessori coloniali, visto che ne ripete non solo la logica binaria ma anche alcuni temi: «Il fallimento più evidente sul fronte critico è che lungi dallo sferrare un attacco contro le rappresentazioni coloniali e orientaliste dell’Oriente, i Subaltern Studies hanno finito per promuoverle» (p. 26). Ora, chi dice “orientalismo” dice “eurocentrismo”. Per questa ragione la pretesa della teoria postcoloniale di “provincializzare l’Europa” non può che essere una spiacevole farsa dal momento che questa teoria, al contrario, non smette di ripetere i giudizi più triti che l’Occidente ha prodotto sul suo altro o sui suoi altri, riaffermando con questo stesso gesto la sua centralità e la sua superiorità. Intendiamoci, Chibber non pretende mica che l’India e il Pakistan siano identici all’Inghilterra e alla Francia, così come non intende squalificare ogni analisi specifica relativa a una paese o a una regione. Egli si oppone soltanto alla tendenza, secondo lui egemonica nel campo degli studi postcoloniali, a drammatizzare la differenza Oriente-Occidente per invocare una rifondazione radicale delle teorie sociali europee.
Se Chibber fa questa critica è proprio in nome delle stesse ragioni per cui i teorici postcoloniali tematizzano la singolarità dell’Oriente. Nel corpus postcoloniale, la “provincializzazione dell’Europa” segna un rinnovamento della teoria sociale: decostruendo un discorso (se non una pratica) di omogeneizzazione della realtà, contestando delle mitologie associate alla modernità europea, mettendo l’accento su tutto ciò che sfugge all’impresa di dominazione uniforme e impersonale del potere economico e dello Stato-nazione. In nessun caso Chibber contesta questa diversità “etnografica”. Ciò a cui egli si oppone è l’idea che sarebbe necessario costruire un nuovo paradigma solo a condizione di rispettare ed esplicitare tali differenze; poiché le singolarità che si scoprono nel mondo non-europeo – persistenza della dominazione impersonale, pregnanza della razza, dell’etnicità, o della religione nell’agire politico – non devono essere interpretate come delle deviazioni da logiche e da dinamiche che sono state all’opera lungo tutta la storia della modernità europea.
La modernità europea in questione
Per rafforzare questa critica, Chibber ricorda che i Subaltern Studies si sono costruiti in contrapposizione (e attraverso) una “narrazione convenzionale” della modernizzazione – alla quale anche Chibber si oppone – secondo cui la modernità economica sarebbe un passaggio obbligato per ogni società e segnerebbe l’emergere dell’economia di mercato, della cittadinanza e dello Stato-nazione, della società civile e della democrazia. Ciò che è sotteso da questa narrazione – di cui esiste una variante liberale o colonialista e una variante marxista o marxisteggiante – è che la borghesia giocherebbe un ruolo “civilizzatore” in tutto il mondo. Ora, sin dai suoi inizi, afferma Chibber, i Subaltern Studies si sono sforzati di opporre a questa “narrazione convenzionale” una contro-narrazione secondo cui l’India non si è mai pienamente “convertita” alla modernità borghese europea, la democratizzazione e la secolarizzazione sono restate dei processi incompiuti, il colonialismo ha mantenuto delle forme di potere “arcaiche” e le forme di coscienza “borghese” sono penetrare in maniera imperfetta nell’intimità e nella vita psicologica degli ex-colonizzati/e. Per difendere queste posizioni, aggiunge l’autore, i subalternisti hanno fatto ricorso a due argomentazioni. Da una parte, a differenza dell’Europa, i paesi colonizzati sarebbero stati sprovvisti di una borghesia egemonica capace di sostenere lo sviluppo economico e di introdurre delle istituzioni che avrebbero operato per “l’integrazione” delle classi subalterne. D’altra parte, e sempre in contrasto rispetto all’Europa, il capitalismo non sarebbe riuscito a contaminare tutte le forme di vita, affogando le identità “pre-moderne” in quelle che Marx aveva chiamato «le gelide acque del calcolo egoista». La modernità incompiuta dell’India sarebbe quindi il prodotto dell’incapacità delle élite indiane di condurre a una modernizzazione a immagine e somiglianza di quella realizzata dalle élite europee nel diciottesimo e nel diciannovesimo secolo.
Chibber non rimette in questione i risultati empirici di quegli autori (Ranajit Guha, Dipesh Chakrabarty, Partha Chatterjee) di cui esamina lungamente gli scritti, ma si oppone ferocemente alle conseguenze metodologiche e teoriche dei loro lavori. Il problema della contro-narrazione subalternista è che lungi dall’offrire un’alternativa alla narrazione della modernizzazione progressiva dei paesi del Sud, finisce invece per sanzionarne la problematica. Se il Sud è realmente il luogo di una modernizzazione “bloccata”, se non di una modernità alternativa (o di un’alternativa alla modernità), ne derivano delle conseguenze spiacevoli, poiché allora la storia europea diventa essa stessa indiscernibile dalla grande narrazione della modernizzazione e bisogna riconoscere che l’opera delle borghesie europee è stata a tutti gli effetti quella di rompere le costrizioni imposte dal regime feudale, di promuovere dei regimi democratici in occasione delle “rivoluzioni borghesi” (del 1648 in Inghilterra e del 1789 in Francia) e di mettere assieme le classi popolari, tutti obiettivi che le borghesie nazional-colonizzate sarebbero state incapaci di raggiungere. Ma Chibber va a mostrare che quel che la “narrazione convenzionale” attribuisce alla modernizzazione dovrebbe invece essere attribuito alla capacità di agire (agency) delle classi subalterne e ai loro rapporti di forza con le classi dominanti.
Secondo il marxismo ortodosso, la borghesia è una classe capitalista che si sviluppa negli interstizi del feudalesimo, essendo il ruolo delle rivoluzioni borghesi quello di abbattere gli ostacoli politici (o anche culturali) al modo di produzione capitalista. Chibber, quanto a lui, si inscrive in una corrente del marxismo che rifiuta ogni idea di transizione necessaria al capitalismo e alle istituzioni delle società capitalistiche avanzate. Inventata da Robert Brenner e sviluppata da Ellen Meiksins Wood, questa corrente – chiamata con un’accezione peggiorativa “marxismo politico” dallo storico Guy Bois – propone una lettura revisionista dell’origine del capitalismo. Le rivoluzioni inglese e francese non avrebbero in nessun modo «abbattuto gli ostacoli politici» all’affermazione di una classe capitalista in ascesa. Infatti, il capitalismo non sarebbe stato il prodotto della maturazione e dell’espansione delle reti commerciali e finanziarie tra il sedicesimo e il diciottesimo secolo, ma la conseguenza di un rapporto di forza interamente contingente alla lotta di classe che, alla stessa epoca, opponeva in Inghilterra contadini e signori[4]. Per quel che riguarda la rivoluzione del 1789, essa non è stata opera di una “classe capitalista” – che secondo i marxisti politici sarebbe stata inesistente nella Francia del tempo – ma è stata una rivoluzione “borghese” non capitalista, la cui ala radicale era composta da strati popolari che rifiutavano l’influenza del mercato. Infine, la battaglia per democratizzare la Francia nel diciannovesimo secolo si è giocata tra una classe dominante che sviluppava in modo autoritario un capitalismo “dall’alto” e un movimento operaio in formazione; la “democratizzazione” non è stata una missione storica della borghesia, ma il frutto dell’attività del suo avversario, le classi subalterne[5].
Nella famosa “modernizzazione” vi sono dunque due correnti tra loro in contraddizione: da un lato la pressione concorrenziale del capitalismo inglese che incitava le società non capitaliste a “modernizzarsi” – predisponendo autoritariamente delle strutture capitalistiche come in Francia o in Prussia – dall’altro lato, la “democratizzazione” condotta dai movimenti subalterni. Chibber può così ribattere a Guha che «non vi è alcuna “mancanza strutturale” della borghesia indiana rispetto ai suoi predecessori. La classe capitalista indiana guardava con sdegno alle attività delle masse subalterne, come le classi capitaliste europee [del loro tempo] […]. Le classi subalterne europee hanno avuto bisogno di più di un secolo per ottenere quel che gli Indiani hanno ottenuto sin dai primi anni del loro Stato postcoloniale» (p. 89). Gli aspetti “illiberali” dello Stato indiano dopo l’Indipendenza non sono che la lontana eco di quei regimi europei del diciottesimo e del diciannovesimo secolo. Chibber pone quindi le basi per la sua (doppia) visione dell’universale: in India così come in Europa, la transizione verso il capitalismo risulta da una pressione concorrenziale che si universalizza generando una resistenza non meno universale da parte dei subalterni. La varietà dei regimi e delle formazioni sociali risulta dalle differenze di capacità politiche tra queste due forze universali.
Storicizzare la teoria: marxismo e/o teoria postcoloniale
Le altre riflessioni di Chibber presenti in questo libro – in particolare le critiche rivolte alle problematizzazioni postcoloniali dell’agency e dello storicismo – seguono la stessa logica. Contro Chatterjee e Chakrabarty, viene mostrato che se il capitalismo si è universalizzato con successo, anche in India, questo non vuol dire che tale universalizzazione sia stata sinonimo di omogeneizzazione totale. Che la logica cieca e astratta dell’economia non abbia fatto presa sull’insieme delle forme tradizionali o (neo)coloniali di potere non implica in nessun modo che il capitalismo abbia fallito a universalizzarsi. Per questa ragione, il marxismo si rivela uno strumento adeguato per analizzare il capitalismo in tutti quei posti e in tutti quei contesti dove esso ha messo radici, e questo a partire dal momento in cui la teoria sociale arriva a tener conto delle differenze tra le traiettorie sociali ed economiche dei paesi sottoposti all’analisi. Uno dei principali punti di forza del libro di Chibber consiste nell’esplicitare che la persistenza e/o la produzione di differenze, il divenire eterogeneo, avviene dall’interno del processo di universalizzazione del capitale – in virtù della sua logica più propria – piuttosto che dal suo “esterno” o anche dai suoi margini.
Ma quello che resta nondimeno oscuro in questo percorso è che Chibber rifiuta un campo teorico (gli studi postcoloniali) nella sua interezza, pur convalidando i risultati empirici e persino alcuni dei concetti elaborati dagli autori criticati. Seguendo questo filo, l’errore imperdonabile dei teorici postcoloniali sarebbe di avere formulato le loro conclusioni nei termini di una rottura analitica tra l’Occidente e l’Oriente. Pertanto, l’idea che il capitalismo (o la borghesia) ha portato alla democratizzazione o alla secolarizzazione dell’Europa, ma ha fallito nei paesi del Terzo-mondo, l’idea che, tra il salariato del capitalismo occidentale, la razza e l’etnicità siano soppiantate dall’identità di classe[6], ma che questo sviluppo non si sia prodotto nei paesi del Sud, ecc., tutte queste idee, come Chibber stesso riconosce, sono scaturite da alcune correnti liberali, ma soprattutto da una certa ortodossia marxista. Quanto al partito preso dell’autore contro la narrazione della modernizzazione, esso proviene in realtà da posizioni che in seno al marxismo sono minoritarie. Perché quindi biasimare gli studi postcoloniali per quello che, rispetto al loro contributo effettivo, è probabilmente ciò che ad essi è meno proprio?[7] L’argomentazione di Chibber sarebbe pienamente ricevibile qualora dimostrasse che gli errori che vengono imputati alla teoria postcoloniale sono i sintomi di una mancanza più generale di un certo marxismo o di una certa teoria sociale. Ma questo per lui significherebbe ugualmente riconoscere la dimensione sovversiva degli studi subalterni e postcoloniali all’interno del pensiero critico e, pertanto, sarebbe come minare il suo stesso contributo critico. Si verrebbe così costretti a storicizzare la teoria sociale tradizionale per mostrare come i suoi punti ciechi siano allo stesso tempo contestati (nel migliore dei casi) o rimessi arbitrariamente in discussione (nel peggiore) dalla stessa teoria postcoloniale. Purtroppo, per quante precauzioni vengano prese quando si tratta di pensare la storia del capitalismo, Chibber resta ampiamente estraneo alla questione dell’aspetto storico della teoria.
È per questo motivo che per mandare a rotoli ogni pretesa di decentramento della “teoria occidentale”, Chibber ritiene che basterebbe invalidare la tesi subalternista della differenza empirico-storica tra l’Europa e il resto del mondo. La logica di questa inferenza appare limpida, essa non arriva tuttavia a ridurre le rivendicazioni epistemologiche postcoloniali alla semplice questione dell’(in)applicabilità della teoria ad alcune entità “geopolitiche” date (“Oriente” e “Occidente”) che sono separate “per natura” e di cui non vi sarebbe pressoché alcun bisogno di interrogarne la costituzione e le frontiere. Se Chibber non va al di là di questa concezione “etnografica” è perché egli rifiuta deliberatamente di considerare le relazioni che tengono assieme i due termini della sua inferenza: la realtà storico-empirica da un lato, la teoria dall’altro. Per dirla in modo semplice, egli schernisce la questione dei rapporti sapere-potere. Per quanti tipi di ideologie possano esservi, per lui, soltanto la teoria (astratta) degna di questo nome, ovvero il marxismo e più in generale il razionalismo (enlightenment), sembra essere preservata per definizione da tutte le vicissitudini della realtà (concreta) che essa descrive. È innegabile che questa posizione possa rivelarsi salutare per bilanciare una tendenza talvolta eccessiva ad accusare la scienza di tutti i mali possibili e a ricondurre la complessa questione dei rapporti sapere-potere all’idea, troppo comoda, che il primo sia determinato dal secondo. Tuttavia, oltre a ricordare come sia la stessa teoria marxista che ci ingiunge di pensare le condizioni sociali della produzione di conoscenza, bisogna necessariamente constatare che non si potrebbe adeguatamente comprendere, e dunque anche condannare, il progetto postcoloniale se venisse taciuto il fatto che la sua critica delle teorie nate in Occidente è innanzitutto una critica della loro incorporazione entro i rapporti (post)coloniali di potere. Una volta amputate le loro riflessioni sulle “politiche dei saperi”, gli studi postcoloniali possono essere allegramente assimilati a un culturalismo, se non addirittura a un orientalismo.
Per questo la messa al bando della teoria postcoloniale come “corpo estraneo” della teoria sociale “sana”, quella rappresentata dal marxismo, è scarsamente sostenibile. È pur vero che sotto il nome di “postcoloniale” (o, attualmente, di “decoloniale”) proliferano dei giudizi spesso frettolosi sull’eredità della tradizione marxista e sul suo inestirpabile eurocentrismo, elevato al rango di principale tara. Ma si è ugualmente in diritto di rimproverare al pensiero postcoloniale di essersi poco a poco concentrato, in modo certo eccessivo, sulla critica dell’egemonia “spirituale” dell’Occidente, a discapito di analisi “materiali” (soprattutto economiche) dei rapporti di forza/dominazione postcoloniali. È dunque questa una ragione sufficiente per attribuire a tutti i teorici postcoloniali il desiderio di attaccare il marxismo una volta per tutte? Chakrabarty non afferma, ad esempio, nell’introduzione di Provincializzare l’Europa, che il pensiero politico europeo, rappresentato qui sempre da Marx, è allo stesso tempo indispensabile e inadeguato per pensare la «modernità politica non europea»?[8] Non si situa quindi direttamente al di fuori dell’alternativa della ripetizione oppure del rigetto del pensiero “europeo”? Qualunque cosa si pensi di questa postura teorica – postcoloniale per eccellenza, e fermo restando che, per ogni eventuale critica che ad essa si vuole muovere, le analisi di Chibber restano comunque molto preziose –, la comprensione delle storie intrecciate della critica postcoloniale e del marxismo meriterebbe molta più prudenza e resterebbe in ogni caso aperta la questione di sapere se possa mai darsi, e che cosa nel qual caso potrebbe essere, un materialismo postcoloniale.
L’anticolonialismo e le sue altre vite
Per chi avesse ancora qualche dubbio, agli occhi di Chibber, la conclusione di Postcolonial Theory and the Specter of Capital prova che non potrebbe mai esservi alcun dialogo tra la “teoria sociale” e la “teoria postcoloniale”: «Alla luce delle precedenti conclusioni, possiamo rigettare con fermezza ogni affermazione sul valore della teoria postcoloniale come quadro analitico o come critica anti-imperialista» (p. 289). È in questo frangente che l’autore sceglie di assestare il colpo di grazia; la sua ultima vittima sarebbe Robert J. C. Young, autore di Postcolonialism : an Historical Introduction[9]. Quel che Young si era sforzato di rivelare e di ricostruire era la filiazione tra, da un lato, l’anti-imperialismo marxista e il socialismo anticoloniale (da Lenin a Cabral, passando per Mao e Nkrumah) e, dall’altro, la teoria subalternista postcoloniale. Ora, Chibber afferma senza mezzi termini: «la descrizione di Young è totalmente erronea». Perché mai? Poiché questi presunti precursori non avrebbero mai dubitato della realtà dell’«universalizzazione capitalistica» e «avrebbero dichiarato fedeltà alla scienza, alla razionalità e all’emancipazione universale»; in altri termini, questi presunti precursori avrebbero rivendicato proprio quel che la teoria postcoloniale si ostinerebbe instancabilmente a distruggere (p. 290).
Chibber ha il merito di puntare il dito su una questione perlomeno spinosa e di rado affrontata direttamente. È vero che la filiazione anticoloniale-postcoloniale è una (ri)costruzione, che presuppone un’operazione di “purificazione” che cerca di separare il grano dal loglio, ovvero quello che bisognerebbe conservare-reinterpretare da quello che occorrerebbe invece rigettare in un passato (terzomondista, nazionalista, ecc.) concepito come largamente responsabile delle disillusioni dei vari post-Indipendenza. È così che sono potute emergere le figure dei precursori – Fanon, C.L.R. James, Cabral e qualche altro – che da allora sono stati inseriti nel pantheon degli studi postcoloniali. Che questa traduzione sia anche un tradimento è un po’ la regola del gioco, ma la vera questione è di sapere se essa non disperda quel che costituiva la forza critica dell’anticolonialismo e dell’anti-imperialismo, qualunque siano stati i loro limiti. Da questo punto di vista, è opportuno chiedersi se concepire le appropriazioni extra-europee del marxismo in termini di “ibridazione” o di “traduzione culturale” come fa Young, non sia profondamente insoddisfacente, se non addirittura ingannevole. La critica di Chibber è dunque la benvenuta, ma resta il problema che la sua interpretazione non sembra tuttavia essere molto soddisfacente. Opponendosi a Young, viene infatti sottinteso che i pensatori socialisti anticoloniali non erano che tutto sommato degli eredi disciplinati della tradizione razionalista (enlightenment), della scienza e degli ideali nati in Europa, che certamente si sono interessati ad alcune situazioni specifiche (extra-europee e coloniali), ma che non si sono curati abbastanza di interrogare gli strumenti, i metodi e i concetti che avevano “ereditato” per pensare questa situazione; tutt’al più hanno finito per adattarli a dei contesti particolari, senza che questo abbia mai inciso più del dovuto sulla teoria stessa[10]. Chibber produce un’incorporazione, e a dirla tutta, una cooptazione che a sua volta, e a suo modo, cancella la singolarità (che non è una differenza assoluta) del “socialismo anticoloniale”.
Tutto ciò, avviene deplorabilmente, tanto più che sollevando in seguito la questione di sapere «come provincializzare l’Europa», egli ricorderà non senza buone ragioni e in controtendenza rispetto a parecchi pregiudizi – che non risparmiano nemmeno gli studi postcoloniali – che durante il ventesimo secolo la teoria marxista ha prodotto tutta una serie di strumenti per «teorizzare il capitalismo in dei contesti di arretratezza» (economica e politica): teoria dello sviluppo ineguale e combinato di Trotskij, tesi di Kautskij sulla questione agraria, teoria dell’articolazione dei modi di produzione, ecc.[11] Sebbene qui come altrove Chibber mobilita questi argomenti come delle vere e proprie armi da usare contro i suoi avversari, egli finisce per aprire suo malgrado lo spazio per un dialogo fecondo e necessario con la teoria postcoloniale; un dialogo che, estraneo a ogni riconciliazione fittizia, non sarebbe la negazione del conflitto, bensì la sua condizione di possibilità; un dialogo tuttavia che, per essere possibile, presuppone di disfarsi definitivamente dell’idea che la teoria postcoloniale sia sinonimo di rigetto «della «razionalità e dell’oggettività», di rottura definitiva con il marxismo, di caduta nell’oscurantismo.
Se questo dialogo ci sembra possibile, è infine poiché la critica di Chibber, nonostante sia in nome dell’universalismo e del razionalismo, è essa stessa ispirata da un rifiuto feroce dell’eurocentrismo che attraversa tutta la cultura marxista o d’impronta marxista. Per questo non si può che concludere con questa ultima provocazione: Postcolonial Theory and the Specter of Capital non è forse un libro ben riuscito di teoria postcoloniale?
Estratti 1) Fare la differenza: razza e capitalismo (Vivek Chibber, Postcolonial Theory and the Specter of Capital, pp. 143-144) Se per Marx i capitalisti si preoccupano soltanto dei loro profitti e dell’efficienza dei loro salariati, come spiegare la persistenza delle gerarchie razziali sul mercato del lavoro? Nel quadro di una discussione del concetto di “lavoro astratto” – constato da Dipesh Chakrabarty in Provincializzare l’Europa – Vivek Chibber descrive come il capitalismo concepito da Marx è in grado di generare una stratificazione razziale dei subalterni. «Per Elizabeth Esch e David Roediger, la mobilitazione delle identità razziali o degli stereotipi razziali da parte dei datori di lavoro è una prova contro l’importanza della nozione di lavoro astratto. Questo perché, a loro avviso, il lavoro astratto riduce il lavoro a “contribuzioni astratte e anonime”. Ma che significa qui “astratte e anonime”? Viene suggerito uno stato di fatto in cui un operaio non è differente da, o è interscambiabile con, ogni altro operaio […]. I datori di lavoro dovrebbero quindi essere indifferenti all’identità dei loro operai, poiché con una forza-lavoro astratta e anonima, ogni data unità di lavoro dovrebbe essere rimpiazzabile con un’altra. Il reclutamento della manodopera dovrebbe essere più o meno aleatorio rispetto all’identità razziale o etnica […]. È vero che per Marx tutti i capitalisti badano alla capacità di produrre valore della manodopera. Ma perché allora questa ossessione non li porta a essere indifferenti alla questione razziale? Per il fatto che le capacità di lavoro non possono essere separate dalla loro persona […]. Ricercando l’entità astratta di cui hanno bisogno – operai disposti a lavorare a un livello socialmente necessario di efficienza – [i capitalisti] constatano che questo “lavoro astratto” arriva a rivestire delle identità concrete […]. Questo perché il “lavoro astratto” non esiste come una sostanza separata. È una dimensione del lavoro concreto, che è svolto da lavoratori concreti che appartengono a particolari comunità razziali, etniche o di casta e che possiedono capacità loro proprie. L’estrazione della capacità astratta di lavoro deriva da una negoziazione con queste identità concrete». ***** 2) I Subaltern Studies come ideologia (Vivek Chibber, Postcolonial Theory and the Specter of Capital, pp. 284-285) Le due principali virtù che vengono ascritte alla teoria postcoloniale sono che essa offre una nuova teoria della modernità globale – in particolare nel mondo non-occidentale – e che si costituisce come il nuovo volto della critica radicale. La teoria postcoloniale è spesso presentata come l’erede delle grandi tradizioni radicali del ventesimo secolo, ma scevra da ogni debolezza analitica o critica. Il bersaglio qui è ovviamente la teoria marxista. Per più di un secolo, era la tradizione marxista a portare in giro per il mondo la bandiera dell’analisi radicale. Le sue categorie analitiche formavano la lingua franca dell’analisi politica e il suo anti-capitalismo costituiva il cuore della critica radicale. La teoria postcoloniale si presenta essa stessa come il successore del marxismo in entrambi i campi, quello critico e quello analitico. Il suo quadro teorico pretende di rimediare alla solita interminabile lista dei mali attribuiti al marxismo – il suo determinismo, il suo aspetto teleologico, il suo eurocentrismo, il suo riduzionismo, e così via. Inoltre, il nucleo essenziale della sua critica si prclama come quello più strettamente allineato alle ispirazioni dei gruppi subalterni, in particolare nel mondo non-europeo. Sebbene la trazione razionalista (Enlightenment tradition) sia sistematicamente contestata nella sua globalità, in tutti i più famosi contributi prodotti dal collettivo dei Subaltern Studies è il marxismo a essere messo maggiormente sotto attacco. Forse, da un punto di vista analitico, la tesi centrale degli studi postcoloniali è che Oriente e Occidente siano separati da un abisso, tanto da invalidare ogni quadro teorico che pretenda di applicarsi in modo universale. Rappresentando una delle più importanti fonti della teoria postcoloniale, i Subaltern Studies sono diventati in larga misura famosi per aver difeso ed elaborato questa tesi. Per il collettivo questa tesi è la base della sua condanna della teoria occidentale in quanto ottusa e limitata, cieca dinanzi alle specificità delle nazioni postcoloniali e pertanto bisognosa di essere rivista radicalmente. Nei capitoli precedenti, mi sono concentrato su tre ambiti in cui si pretende che questa divisione venga a prodursi. Il primo riguarda la borghesia in Oriente, il cui supposto fallimento è percepito come l’espressione di un fallimento ancora più profondo, quello dell’universalizzazione del capitale. Il secondo ha a che fare con l’apparente singolarità dei rapporti di potere in Oriente, i quali come afferma Chakrabarty, si allontanano in termini essenziali da quelli generati dal capitalismo in Occidente. Il terzo è relativo alla psicologia politica orientale, che, come viene sostenuto, sarebbe indifferente all’importanza dell’interesse individuale. Queste sono le dimensioni della differenza con l’Oriente ed è la loro supposta singolarità che motiva l’appello a un drastico riesame della teoria sociale. Sebbene mi sia fatto carico di mostrare che il collettivo dei Subaltern Studies abbia fallito a dimostrare questa sua tesi in ciascuno di questi tre ambiti, ho scelto di completare la mia analisi critica con una spiegazione positiva di come il capitale, il potere e l’agency funzionino realmente. Quattro sono gli aspetti fondamentali che si legano assieme all’interno dell’argomentazione che propongo come alternativa. Il primo è che l’universalizzazione del capitale è reale, nonostante le pretese del collettivo dei subalternisti. Le dinamiche politiche delle colonie non hanno prodotto un tipo di modernità essenzialmente differente da quella prodotta dalle dinamiche europee. Per essere più precisi, la loro modernità può essere stata diversa, ma non secondo le modalità su cui insiste la teoria postcoloniale. Si tratta di una modernità che col tempo ha nondimeno finito col rivelare gli stessi imperativi capitalistici della modernità francese o tedesca. Il secondo aspetto è che non bisogna credere che l’universalizzazione del capitale omogeneizzi i rapporti di potere o, più in generale, il paesaggio sociale (social landscape). Infatti, il capitalismo non solo coesiste con una grande eterogeneità e una rigida gerarchia, ma le produce sistematicamente. Il capitalismo è in realtà perfettamente compatibile con un insieme estremamente variabile di formazioni politiche e culturali. La terza proposizione è che la dinamica di universalizzazione del capitale si scontra con ciò che è universalmente dato nella psicologia umana, è questo che spiega la resistenza subalterna dinanzi alla tendenza propria al capitale a instaurare dei regimi politici basati sull’esclusione, a dominare i subalterni all’interno dei processi di produzione, a basarsi sulla coercizione impersonale e così via. L’epoca moderna è spinta dalle interazioni tra questi due universalismi, non da uno di essi soltanto. Questo scompagina l’insistenza dei subalternisti sulla peculiare coscienza politica degli agenti non-occidentali. Tutto ciò ci conduce al punto finale: le categorie universalizzanti del pensiero razionalista (Enlightenment thought) sono perfettamente capaci di cogliere le conseguenze dell’universalizzazione del capitale e le dinamiche politiche dell’agency – per analizzare queste ultime tali categorie sono infatti essenziali. Se queste quattro proposizioni sono vere, ciò significa come minimo che certe teorie europee, il marxismo in particolare, non dovrebbero essere accusate di eurocentrismo per la sola ragione di avere avuto origine in Occidente. Le dinamiche collocate nel cuore del loro quadro teorico sono infatti interculturali (cross-cultural), comuni allo stesso tempo all’Oriente e all’Occidente. Pertanto, qualora la teoria marxista fosse errata, non lo sarebbe certo perché eurocentrica. ***** 3) Come provincializzare l’Europa (Vivek Chibber, Postcolonial Theory and the Specter of Capital, 290-293) Ovviamente, il mio giudizio sui meriti dei Subaltern Studies non è favorevole. Cosa ne resta allora dell’impulso a “provincializzare l’Europa? Una delle ragioni per cui la teoria postcoloniale è così seducente nelle università agli occhi di tanti studiosi è la sua ostilità verso l’eurocentrismo e il suo impegno a prendere in considerazione la specificità dell’esperienza coloniale. I lettori potrebbero domandarsi se la mia critica e la mia contro-argomentazione equivalgono a dire che praticamente non c’è nulla di specifico nel capitalismo coloniale e nella cultura popolare che questo ha generato. Nulla potrebbe essere così lontano dalla verità. Quel che è contestabile nella teoria postcoloniale non è che si insista sulla “provincializzazione dell’Europa”, ma che, in nome di questo progetto, venga incessantemente promosso l’eurocentrismo – un ritratto dell’Occidente come luogo della ragione, della razionalità, della laicità, della cultura democratica e così via, e dell’Oriente come immutabile miasma di tradizione, di mancanza di ragione, di religiosità e via di seguito. È un mondo in cui il capitalismo trasforma l’Occidente, ma perde la sua vitalità in Oriente, dove pertanto le categorie materialiste sono appropriate per l’Occidente mentre per l’Oriente vale soltanto un culturalismo essenzialista. Dovrebbe essere ovvio che, in nome del superamento dell’eurocentrismo, la teoria postcoloniale finisce per promuovere quest’ultimo con una feroce intensità. Come alternativa, vorrei fare due osservazioni. La prima consiste nel fatto che non sarà certo battendo continuamente sullo stesso tasto del divario incolmabile che separa l’Oriente dall’Occidente che si potrà provincializzare l’Europa, ma solo mostrando che entrambe le parti del globo sono soggette alle stesse forze fondamentali e, di conseguenza, fanno parte della stessa storia fondamentale. Le forze a cui mi riferisco sono quel che ho chiamato i due universalismi – la logica universale del capitale (opportunamente definita) e l’interesse universale degli agenti sociali verso il loro benessere che li spinge a resistere alla tendenza espansionista del capitale. Queste forze investono sia l’Oriente che l’Occidente, anche se lo fanno con differenti intensità e su diversi registri. Questo vuol dire che vi è una storia universale di cui l’Oriente e l’Occidente fanno entrambi pienamente parte. Tuttavia, nonostante Oriente e Occidente facciano parte della medesima storia e siano sottomessi alle stesse forze, questo non vuol dire che essi perdano ogni loro caratteristica distintiva. Nel capitolo 9, ho mostrato che riconoscere la realtà dell’universalizzazione del capitale si accordi perfettamente all’attenzione verso il persistere della differenza. Non è necessario ripetere qui queste argomentazioni. Ma se le diamo per buone, dobbiamo ugualmente accettare che riconoscere i due universalismi non genera automaticamente cecità nei confronti della differenza. Ora, la seconda osservazione. La storia dell’analisi marxiana del ventesimo secolo è stata proprio la storia di questa impresa, ovvero comprendere la specificità dell’Oriente. Dai tempi della prima Rivoluzione russa del 1905 non vi è probabilmente stato nessun altro progetto a cui i teorici marxisti abbiano dedicato tanta energia e tanto tempo come quello di comprendere gli effetti specifici dello sviluppo capitalistico nel mondo non-occidentale. A prima vista questo può forse colpire, in particolar modo alla luce della costante pretesa che proviene al contrario dalla teoria postcoloniale. Il fatto è che in ragione del particolare destino dei movimenti socialisti – soprattutto per aver guadagnato tanto terreno nelle parti meno sviluppate del mondo – i marxisti sono stanti spinti sin dall’inizio a esercitare il loro sguardo tanto lungo i margini del capitale mondiale quanto sullo già sviluppato Occidente. Se facessimo una lista delle principali innovazioni teoriche che sono risultate dalla tradizione marxista dopo la morte di Marx, vedremmo che come molte di esse siano stati dei tentativi di teorizzare il capitalismo in contesti di arretratezza: nella prima metà del secolo vi è stata la teoria dell’imperialismo e dell’“anello debole” di Lenin, la sua analisi della differenziazione della classe contadina; il lavoro di Kautsky sulla questione agraria; la teoria dello sviluppo ineguale e combinato di Trotskij; la teoria della Nuova Democrazia di Mao; la differenza gramsciana tra la legittimità dello Stato in Europa dell’Est e in Europa dell’Ovest. Erano tutti tentativi per comprendere la riproduzione sociale nelle parti del mondo in cui il capitalismo non funzionava esattamente nella stessa maniera che Marx aveva descritto ne Il capitale. Negli anni della New Left sono apparse la teoria della dipendenza; la teoria del sistema-mondo; il lavoro di Cabral sulla via rivoluzionaria africana; la teoria dell’articolazione dei modi di produzione; il dibattito sui “modi di produzione” indiani – e la lista potrebbe continuare. Menziono tutto ciò perché in buona parte è il marxismo a costituire il bersaglio privilegiato delle accuse dei teorici postcoloniali verso la tradizione razionalista. Queste accuse ci inducono a credere che il marxismo guardi l’Oriente solo come il pallido riflesso dell’Occidente, dove ogni scarto rispetto al modello occidentale non sarebbe altro che un mero anacronismo destinato a svanire a tempo debito, nella misura in cui viene supposto che l’Oriente segua passivamente le tracce lasciate dall’Occidente. Ma, ancora una volta, la storia dell’analisi marxista dimostra esattamente il contrario, rivelando di tenere regolarmente in considerazione il fatto che le società orientali sembrano essere governate da logiche che richiedono una nuova analisi, se non talvolta anche una modifica delle categorie ereditate dalla tradizione. Giusto per dare un esempio: la teoria dello sviluppo ineguale e combinato di Trotskij costituiva un esplicito rifiuto dell’argomento secondo il quale i paesi a sviluppo tardivo avrebbero semplicemente riprodotto il cammino verso lo sviluppo dei loro predecessori. Per Trotskij, l’inserzione tardiva di queste società entro il vortice capitalistico significava che esse sarebbero state in grado di importare le più recenti innovazioni in certi ambiti, preservando tutta una serie di relazioni sociali più antiche in altri ambiti. Questo non implica alcuna idea di tempo omogeneo, nessuno storicismo, nessuno sviluppo stadiale (stageism) – in realtà la teoria è immune da quasi tutte le accuse che i teorici subalternisti hanno lanciato contro la tradizione marxista[12]. Analogamente, il classico lavoro di Kautsky sulla questione agraria finisce per far valere un’argomentazione che spiega perché i contadini non verranno mai semplicemente dissolti dalle forze dell’industria agroalimentare – essi saranno piuttosto incorporati nei circuiti del capitale, assegnando quindi ai proprietari terrieri un posto all’interno di quest’ordine che le loro controparti nei paesi che si sono sviluppati per primi non avevano mai avuto[13]. Anche qui nessuno sviluppo stadiale, nessuno storicismo e nessuna pretesa di omogeneizzazione. Oppure, si prenda una teoria formulata più recentemente, quella dell’articolazione dei modi di produzione. In questo approccio, il capitalismo non cancella tutte le Storie 2[14], né passa da uno stadio predeterminato all’altro. Esso dà piuttosto forma ad un accordo difficile con i modi arcaici di produzione in modo tale che, a posto di superare questi ultimi, si crea una coabitazione con essi per dei periodi di tempo molto lunghi. Questa teoria è stata sviluppata da antropologi francesi che si concentravano principalmente sullo studio dell’Africa ed è stata resa celebre nel mondo anglofono da teorici come Harold Wolpe che l’ha mobilitata per studiare la peculiare forma di capitalismo del Sudafrica. Molte di queste teorie presentano naturalmente degli importanti difetti e sono criticabili per diverse ragioni, ma mai per le ragioni che i Subaltern Studies ascrivono alla tradizione razionalista e, in particolare, alle teorie marxiste. Se queste sono false non è perché esse sono teleologiche, deterministe o stadiali. In realtà, ognuna di queste teorie è stata sviluppata come un esplicito rifiuto di queste stesse modalità di pensiero. D’altra parte, tutte queste teorie hanno qualcosa di significativo in comune: esse sostengono i due universalismi e così provincializzano l’Europa più efficacemente di tutto quello che vien fuori dal recinto degli studi postcoloniali. Quali che siano i loro difetti, nessuna di queste teorie fondate sui principi della tradizione razionalista è eurocentrica, nessuna essenzializza l’Oriente e nessuna può essere accusata di orientalismo[15]. Stando così le cose, il progetto di sviluppare una teoria in grado di analizzare efficacemente la specificità dell’Oriente potrebbe emergere più facilmente da un programma di ricerca associato alla tradizione razionalista che non alla teoria postcoloniale. Ed eccone la ragione: la teoria postcoloniale oscura le vere forze che guidano le dinamiche politiche in questa parte del mondo (i due universalismi), mentre nello stesso tempo promuove una concezione di queste forze che è sistematicamente fuorviante. L’obiettivo di provincializzare l’Europa è dunque totalmente degno di lode. Il problema della teoria postcoloniale non è che essa si impegni in questo programma, ma piuttosto che essa appare costantemente incapace di portarlo a termine. Traduzione dall’inglese di Orazio Irrera[16] |
Intervista con Vivek Chibber di Orazio Irrera e Matthieu Renault
La falsa promessa della teoria postcoloniale[17]
D.: Durante il suo ultimo soggiorno a Parigi, il titolo che ha dato al suo intervento è stato «La falsa promessa della teoria postcoloniale»[18]. Qual è questa promessa? Che cosa intende proporre la teoria postcoloniale e perché fallirebbe? Questa teoria si basa sin dal principio su dei presupposti erronei?
R.: Lo scoglio principale della teoria postcoloniale è che rende molto difficile la comprensione delle dinamiche sociali del mondo postcoloniale. Si tratta quindi di una critica ad ampio raggio poiché la teoria postcoloniale suppone esattamente di essere una teoria in armonia con le specificità del mondo postcoloniale. A mio parere essa non può in nessun modo spiegare queste specificità. Inoltre essa finisce pure con il mascherarle poiché è fondata su una concezione del mondo postcoloniale che essenzializza questa parte del mondo, trattandola come se fosse governata da dinamiche che non possono essere comprese con le categorie sociali e le teorie che abbiamo ereditato dalle analisi tradizionali della società. Indubbiamente può darsi il caso che il mondo postcoloniale – le sue istituzioni, le sue strutture, la sua storia – sia così differente dall’Occidente da richiedere un quadro teorico totalmente nuovo. Nel qual caso, noi dovremmo riconoscere che la teoria postcoloniale costituisce un effettivo avanzamento, costituendo davvero una critica fondamentale della teoria sociale europea che abbiamo ereditato. Tuttavia essa non è mai stata in grado di dimostrare che il mondo postcoloniale è tanto differente da essere insondabile, da non poter essere compreso attraverso le tradizionali categorie della teoria sociale. Nella misura in cui la teoria postcoloniale non ha mai provato tutto ciò, la sua affermazione secondo la quale vi è uno scarto essenziale, incolmabile, ontologico tra l’Oriente e l’Occidente è non soltanto falsa, ma credo sia pure profondamente ideologica.
Voi mi chiedete se la teoria postcoloniale si basava sin dai suoi inizi su dei presupposti sbagliati. No, non credo. Essa ha avuto inizio con un presupposto plausibile, quello secondo cui vi è una differenza molto profonda tra l’Oriente e l’Occidente, ma che questa differenza è una conseguenza della diversa traiettoria presa dal capitalismo in Oriente. Questo si è rivelato parimenti falso, ma si trattava di un errore empirico che non comportava delle conseguenze teoriche ed epistemologiche di rilievo. Era un errore che risultava dal lavoro di Ranajit Guha, presente subito, sin dal suo inizio, nel primo volume del collettivo dei Subaltern Studies. Il carattere essenzializzante e oscurantista della teoria postcoloniale, a cui ho già fatto riferimento in precedenza, è comparso più tardi, negli anni ’90 – Guha non ne è mai stato il responsabile. Esso è piuttosto apparso nei lavori di gente come Dipesh Chakrabarty e Partha Chatterjee sotto l’influenza di Gayatri Spivak o di Foucault. In seguito, Homi Bhabha ha anch’egli raggiunto questo gruppo. Penso dunque che la teoria postcoloniale fosse profondamente difettosa sin dai suoi inizi ma che solo successivamente i suoi difetti sono diventanti più profondi e più rilevanti.
La conseguenza politica di tutto questo è innanzitutto che la teoria postcoloniale finisce per rivitalizzare e vivificare nuovamente delle concezioni orientaliste dell’Oriente, che sono del resto molto classiche. Facendo ciò penso pure che essa renda legittime delle affermazioni prodotte dall’imperialismo per spiegare perché i diritti e i privilegi comuni non possono essere accordati agli individui che vivono in Oriente. Questo costituisce un risultato assolutamente inaccettabile della teoria postcoloniale. Quest’ultima rende pure molto difficoltosa l’analisi dell’Oriente attraverso le categorie dell’economia politica, fatto molto problematico nella misura in cui paesi come l’India, l’Egitto, la Siria, l’Iraq o il Brasile sono attualmente tutti dei paesi capitalisti. E poiché i teorici postcoloniali affermano che le categorie del capitale e del capitalismo devono essere fondamentalmente emendate poiché sono inadeguate per comprendere l’Oriente, essi finiscono necessariamente per mascherare le lotte operaie e contadine contro il capitale. Credo che quindi la teoria postcoloniale abbia costituito uno sviluppo molto limitato e retrogrado.
D.: Nel suo libro lei ripercorre gli errori che ha individuato tra gli autori postcoloniali relativamente alla loro analisi dello sviluppo del capitalismo in Europa, dunque non solo nel mondo non-europeo. Potrebbe chiarire questo punto?
L’errore risiede principalmente nella loro comprensione di ciò che è stato il normale corso dello sviluppo capitalistico. Secondo loro, l’India e il mondo postcoloniale rappresentavano una deviazione rispetto a quello che è normale. Ma qual è la loro immagine di ciò che è “normale” e da dove proviene? Essa deriva da una concezione particolare dell’esperienza europea. Non sviluppo questo punto nel libro, ma questo concezione è stata ereditata dalla comprensione staliniana ortodossa della transizione al capitalismo e, in particolare, della rivoluzione borghese. Guha mutua questa concezione staliniana della rivoluzione borghese quasi senza alcuna modifica, rendendola di fatto ancora peggiore di quel che era. Si tratta della concezione per cui in Francia e in Inghilterra vi è stata qualcosa che si chiama la rivoluzione democratico-borghese che ha prodotto non solo il capitalismo, ma anche la democrazia, dal momento che questa rivoluzione è stata portata avanti da una borghesia che ha lottato per stabilire una cultura liberale, aperta, inclusiva e democratica. Quando i subalternisti si sono accorti che la borghesia indiana – ma si potrebbe dire la stessa cosa della borghesia egiziana o argentina – non ha fatto la stessa cosa, hanno considerato che si trattava di un fallimento, che i capitalisti avevano abbandonato la loro missione storica. I subalternisti non potevano probabilmente comprendere che quando i capitalisti postcoloniali si battevano contro i diritti democratici, quando stabilivano delle oligarchie, quando rifiutavano di concedere a operai e contadini i diritti e i benefici più comuni, essi facevano semplicemente quello che ovunque i capitalisti fanno e hanno sempre fatto. Non c’è quindi bisogno di una sociologia del mondo postcoloniale interamente nuova poiché le lotte politiche del mondo postcoloniale entrano già in forte risonanza con quel che ha avuto luogo in Occidente all’epoca in cui si è affermato il capitalismo.
Ci sono certo delle differenze molto concrete tra Oriente e Occidente, ma queste differenze risiedono nella temporalità e nei dettagli del capitalismo e non nel fatto che il capitalismo in Oriente sarebbe irriconoscibile, profondamente ed essenzialmente diverso da quello affermatosi in Occidente. Siamo in presenza di qualcosa che i marxisti hanno subito riconosciuto: che il capitalismo in Oriente è sempre identificabile come capitalismo, anche se non è identico al capitalismo in Occidente. Vi è una grande differenza tra non essere identico ed essere differente in modo profondo ed essenziale, essere differente come i Subaltern Studies dicono che l’Oriente sia differente l’Occidente.
D.: Come bisogna comprendere questa “differenza”, che non è una “differenza fondamentale”, tra l’Occidente e l’Oriente? Per essere più precisi, potrebbe formulare alcune proposizioni teoriche o degli esempi di analisi che arrivano a spiegare la genesi di queste differenze – come, se vuole, quelle del sottosviluppo o della dominazione razziale – senza essenzializzarle?
R.: Vi è una lunga storia dell’analisi della differenza che non deriva soltanto dal marxismo del ventesimo secolo, ma anche da altre correnti non dominanti delle scienze sociali. Quando Trotskij ha sviluppato la sua teoria dello sviluppo ineguale e combinato si trattava di un tentativo materialista che cercava di fare due cose: comprendere non solo come il capitalismo trasforma i paesi a sviluppo tardivo, ma anche come, allo stesso tempo, questo capitalismo sia tale da impedire all’Oriente di seguire una via identica a quella dell’Occidente. Si tratta certo di capitalismo, quindi esso appartiene alla stessa specie di formazioni sociali del capitalismo in Occidente, ma siamo in presenza di una varietà che differisce da quella dell’Occidente. Ed è differente senza che questo comporti delle differenze dal punto di vista dei suoi principi strutturali di base. Una teoria molto simile a quella di Trotskij è stata sviluppata negli anni ’60 da Alexander Gerschenkron, uno storico borghese, esule russo negli Stati Uniti. Gerschenkron sviluppò la teoria di quel che egli stesso ha chiamato «i vantaggi dell’arretratezza», giungendo a conclusioni molto vicine a quelle di Trotskij. Ovvero, che i paesi arretrati si trovano di fronte dei dilemmi che i paesi a sviluppo più precoce non hanno conosciuto, ma beneficiano nondimeno di alcuni vantaggi derivanti dal fatto di emergere tardivamente che permettono loro di sviluppare delle sacche di settori produttivi che evolvono molto rapidamente, sebbene siano circondati da condizioni agrarie molto arretrate. Si tratta di esempi di analisi della differenza che non essenzializzano l’Oriente. Non è possibile rendere pienamente conto della maniera in cui il mondo postcoloniale possa essere analizzato attraverso questo quadro teorico, poiché si tratta di una progetto di ricerca ancora in corso. Il mio libro non voleva sostenere che esiste una teoria sviluppata e completa dell’Oriente che si potrebbe offrire a posto della teoria postcoloniale, ma mostrare che c’è un progetto e un programma di ricerca in corso che generano dei risultati concreti, dei risultati positivi che i teorici postcoloniali ignorano completamente o passano sotto silenzio.
È un errore pensare che il marxismo o qualunque altra teoria possano spiegare tutti gli aspetti della differenza tra Oriente e Occidente. Quel che il marxismo può spiegare, in modo specificamente marxista, sono gli aspetti della differenza che sono generati dalle dinamiche del capitalismo e della lotta di classe, o della struttura di classe. Ci sono numerosi aspetti del mondo non occidentale che differiscono dall’Occidente senza essere il prodotto della classe né tantomeno del capitalismo. Dovremmo cercare di esser capaci di produrre un’analisi materialista di queste differenze, ma questa non sarebbe un’analisi specificamente marxista. Per esempio, la sociologia mainstream o la scienza politica, ricercatori che vengono da una tradizione weberiana o bourdieusiana – considero Bourdieu essenzialmente un materialista – potrebbero proporre delle analisi dei fenomeni che i marxisti non possono spiegare o che almeno non spiegano. Si tratterà tuttavia sempre di analisi materialiste. La principale battaglia contro gli studi postcoloniali non è una battaglia tra il marxismo e la teoria postcoloniale – sebbene essa esista davvero – ma piuttosto una battaglia che consiste nel difendere il materialismo dalla teoria postcoloniale.
D.: Uno degli aspetti del suo percorso che ha destato una certa sorpresa è il ricorso a una teoria dei «bisogni fondamentali», se non addirittura a una teoria della natura umana. Dagli anni ’60 la teoria sociale sembra essere abbastanza ostile all’idea di una natura umana. Perché questo ritorno a un’idea apparentemente così difficile da mobilitare?
R.: Perché penso che sia vera. È vero o no che la gente, quale che sia la loro cultura, ha dei bisogni fondamentali comuni? La mia opinione è che sia vero. È impossibile spiegare una larga parte delle variazioni culturali senza questo riferimento ai bisogni fondamentali. Una delle cause per cui le culture differiscono tra loro è che gli individui sono collocati in ambienti naturali ed ecologici differenti e hanno inoltre a disposizione delle maniere molto diverse di riprodursi, dando luogo così a differenti insiemi di strutture sociali e di istituzioni deputate alla loro riproduzione. Queste strutture e queste istituzioni generano a loro volta delle culture, delle differenti maniere di vedere e comprendere il mondo. Una delle ragioni per cui le culture sono diverse è dunque che sono accomunate dalla stessa lotta per la sopravvivenza. Se gli esseri umani non riconoscessero o non fossero motivati dalla necessità di soddisfare questi bisogni fondamentali, semplicemente si estinguerebbero. Penso che questo sia fondamentale, ed è tanto evidente al punto che bisognerebbe interrogare l’integrità intellettuale di chi cerca di negare tutto ciò. Si tratta di quello che in principio mi ha spinto a scrivere questo libro.
La questione è dunque la seguente: è vero che gli individui hanno dei bisogni fondamentali e sono motivati da questi bisogni? Permettetemi di sottolineare un errore analitico che i teorici fanno regolarmente. Essi trovano qualche situazione in cui un individuo corre dei grandi rischi, o sacrifica persino la sua vita, e allora concludono: “Guardate, questo è l’esempio di qualcuno che non privilegia i suoi bisogni fondamentali. Questo non entra in contraddizione con l’idea che questi bisogni possono giocare il ruolo di motivazioni, con l’idea che esiste una natura umana?”. Ma lì abbiamo un modo fondamentalmente sbagliato di considerare il mondo sociale. Non si hanno delle generalizzazioni partendo da aberrazioni o da eccezioni. Si comincia in primo luogo da ciò che è normale, da quello che è il modello normale, elementare di comportamento, da quello che prevale in quanto motivazione. Da lì si cerca di comprendere perché vi sono delle deviazioni rispetto al modello normale. Chi nega i bisogni fondamentali considera innanzitutto le eccezioni, dicendo in seguito che queste eccezioni invalidano ogni argomento che afferma che la maniera normale di essere motivato o di agire è qualcosa di diverso. Questo è sbagliato da un punto di vista analitico ed è empiricamente falso. Se essi pensano dunque che i bisogni fondamentali non esistano, vorrei averne la prova. Mostratemi una cultura in cui la regola generale è che vi sia una uguale probabilità che le persone si suicidino e che desiderino vivere. Qualora trovaste tutto ciò allora concorderei che i bisogni fondamentali non sono i fattori-tipo della motivazione. Ma certamente sappiamo che questo è impossibile, non vi è alcuna prova di questo. Per questa ragione i teorici postcoloniali si impegnano in ogni tipo di argomento oscurantista.
D.: Che cosa pensa degli usi che sono stati fatti di Gramsci nei Subaltern Studies? Quali sono le relazioni tra la ripresa subalternista del concetto gramsciano di egemonia e il concetto marxiano di ideologia?
R.: Credo che sia un Gramsci di un certo tipo che sia importante per Guha. Si tratta di un Gramsci letto attraverso il prisma dei Cultural Studies e, in particolare, tramite i lavori della scuola di Birmingham diretti da Stuart Hall. Ci tengo a precisare che si tratta di un Gramsci “di un certo tipo”, un Gramsci che ha una concezione dell’egemonia intesa come consenso ideologico – consenso ideologico che significa qui consenso basato sulla legittimità. Penso che sia una lettura plausibile di Gramsci, anche se non credo sia una lettura corretta. Non ritengo che Gramsci abbia pensato che la ragione per cui gli operai diano il loro consenso al capitalismo è perché essi pensano che sia legittimo o perché vi sia una cultura inglobante in cui la borghesia parli per loro o per la nazione. È infatti così che Guha descrive l’egemonia: per lui la borghesia conquista l’egemonia poiché parla a nome di tutta la nazione. L’idea che Gramsci abbia potuto pensare che la borghesia fosse un legittimo portavoce degli interessi degli operai, mentre marciva in una prigione fascista, mi sembra perlomeno curiosa. La mia lettura di Gramsci è alquanto differente. Ritengo che i Quaderni dal carcere siano un testo molto caotico che autorizza differenti interpretazioni. Credo che per Guha il Gramsci di tipo culturalista sia più fondamentale che il Marx de L’ideologia tedesca. Ma credo pure che Gramsci si sarebbe del tutto accontentato de L’ideologia tedesca, e che la versione culturalista della sua opera sia una distorsione operata negli anni ’70 e ’80 che Guha ha fatto propria. Secondo me si tratta di un errore, credo che una delle cose che oggi dovremmo fare sia quella di mettere in luce un Gramsci diverso, più in sintonia con una comprensione più difendibile del capitalismo.
Il punto essenziale in tutto ciò è che non è importante sapere se Guha resti fedele a Gramsci o se Chatterjee lo sia nei confronti di Marx. Quello che importa è sapere se hanno ragione o torto. Teorici come Marx e Gramsci sono dei pensatori da cui dovremmo trarre ispirazione. Ma che le nostre idee coincidano o meno con le loro non può costituire il test decisivo per dire se le nostre idee siano vere o false. Il vero test consiste nel vedere se le nostre prove reggono o meno. Nel corso del dibattito che ho avuto con Chatterjee durante la conferenza Historical Materialism a New York[19], sono stato accusato di deviazione rispetto al marxismo, ho quindi detto qualcosa che nella blogosfera è stato giudicato divertente: «Deviare non mi disturba affatto». Quel che volevo dire era che non importa se io stia seguendo Marx alla lettera o meno, importa invece se la prova che io adduco supporta o meno la mia argomentazione. Che qualcuno la possa trovare un’affermazione curiosa o inaccettabile mostra soltanto fino a che punto la cultura intellettuale di sinistra sia precipitata.
D.: Nel suo libro lei sembra collegare la critica postcoloniale dell’“epistemologia” occidentale e l’idea, difesa da numerosi teorici postcoloniali, che il capitalismo non sia un sistema universale. Perché la critica dei saperi occidentali è correlata all’idea che il capitalismo non si è radicato nel mondo intero?
R.: Non credo vi sia una rilevante posta in gioco epistemologica in questo dibattito. Non penso che i Subaltern Studies operino attraverso un’epistemologia differente da quella, diciamo, dei marxisti. Ai subalternisti piace molto utilizzare questo termine e pretendono che vi siano in effetti delle profonde differenze epistemologiche. Ma alla fine sono tutti dei realisti, formulano delle proposizioni basate su prove e utilizzano delle argomentazioni razionali anche quando negano l’importanza della razionalità. Esistono delle persone attorno ai Subaltern Studies che potrebbero presentare delle differenze rispetto ai marxisti, ma la maggior parte dei subalternisti sostengono un realismo epistemologico.
Di certo vi è una correlazione, o se volete una connessione, tra l’idea che il capitalismo fallisca a universalizzarsi e quella che le teorie europee siano incapaci di comprendere l’Oriente. Questa connessione riposa sul fatto che gli autori postcoloniali pensano che le teorie europee presuppongano due cose: in primo luogo che il capitalismo si universalizzi e, in secondo luogo, che questa universalizzazione omogeneizzi il mondo. Questo secondo punto costituisce la chiave del dibattito, poiché viene tipicamente ritenuto che questa omogeneizzazione sia ciò che è richiesto affinché delle categorie astratte abbiano una presa qualunque sul mondo non occidentale. Ora, io ho affermato due cose nel mio libro: da una parte che, in effetti, il capitalismo si universalizza e che le teorie europee hanno quindi ragione a questo riguardo; dall’altra parte che l’universalizzazione non è la stessa cosa dell’omogeneizzazione. L’universalizzazione del capitale genera in realtà ogni sorta di differenza e la teoria sociale che viene dall’Europa non suppone che il mondo debba essere omogeneo affinché le sue categorie funzionino. Quel che mostro nel libro è che la teoria che Marx ci ha lasciato sostiene la tesi dell’universalizzazione del capitale, dandoci nondimeno gli strumenti per comprendere la differenza che il capitale genera. L’errore fondamentale della teoria postcoloniale è di assimilare universalizzazione e omogeneizzazione. Si tratta di un errore presente dappertutto in questi lavori. Si tratta di un semplice errore analitico, ma questo ha delle conseguenze molto rilevanti.
D.: Se si sostiene come fa lei che il capitalismo produce delle differenze universalizzandosi, non ne consegue che la teoria sociale deve essere “adattata” o “tradotta” in contesti non occidentali?
R.: Una teoria astratta è sempre modificata quando si applica a delle realtà concrete. La questione è di sapere fin dove si spinge questa modifica. Quel che affermano il marxismo e la teoria sociale è che un’istituzione sociale come il capitalismo debba, per poter essere chiamata “capitalismo” in contesti differenti, presentare certe somiglianze. Se prendiamo la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, che sono tutti dei paesi capitalisti, noi riscontriamo, ad un certo livello di astrazione, che essi condividono alcune caratteristiche comuni. Dunque, da questo punto di vista, non c’è bisogno di modificare nulla. Vediamo che seguono delle dinamiche molto simili e che si possono descrivere queste dinamiche a un certo livello di astrazione, ignorando le restanti caratteristiche di queste società. Ci concentriamo soltanto su quel che esse hanno in comune. Ma per apprezzare come esse differiscano le une dalle altre dobbiamo fare entrare in gioco altri fattori relativi alle loro storie, alle loro istituzioni, che sono diverse le une dalle altre. Per esempio, a differenza degli Stati Uniti, la Francia ha uno stato sociale piuttosto ben sviluppato che modifica il funzionamento del suo capitalismo. Questi paesi sono entrambi capitalisti, ma ci sono delle differenti variazioni all’interno del capitalismo stesso.
Credo che analizzare queste differenze richieda infatti di includere nell’analisi alcuni meccanismi e fattori causali che non sono presenti nella versione più astratta della teoria del capitalismo. I fattori causali che descrivono il più alto livello di astrazione sono sempre all’opera, ma il loro funzionamento è modificato dalla presenza di altri fattori che non sono descritti dalla teoria al più alto livello di astrazione e che si adattano ad essa a un livello di astrazione più basso. Non ritengo che si tratti realmente di una modifica della teoria, penso che sia semmai una concretizzazione di essa. Il marxismo deve sempre spostarsi dall’astratto al concreto. Il problema con i teorici postcoloniali è che essi pensano che ogni movimento dall’astratto al concreto, nel quale si fanno rientrare dei fattori che non sono descritti al livello più alto e più astratto, significhi modificare la teoria. Non si tratta di modificare la teoria, ma di accordarla con la realtà.
Che cos’è la teoria dello sviluppo ineguale e combinato di Trotskij? È una teoria che spiega quel che accade quando il capitalismo si introduce tardivamente in un paese meno sviluppato. Che cos’è la teoria della Nuova Democrazia di Mao? Si può essere d’accordo oppure no, ma è una teoria che dice quel che occorre fare in un paese in cui predominano i contadini. Qual è stato, prima di ogni altro, il contributo principale di Lenin alla teoria marxista? È stata la sua teoria dello sviluppo tardivo del capitalismo, nel suo primo libro Lo sviluppo del capitalismo in Russia. Qual è stato il contributo più importante di Lenin alla sociologia agraria? La teoria delle classi nel capitalismo agrario, una teoria che Mao ha in seguito sviluppato. Qual è stato il contributo di Amílcar Cabral alla teoria rivoluzionaria? La sua concezione del proletariato rivoluzionario nei contesti di arretratezza. Che cosa ne è di Che Guevara o del lavoro innovatore di qualcuno come Walter Rodney sull’Africa o di C.L.R. James sui Giacobini neri? Sono dei tentativi di concretizzare la teoria marxista nel Sud. Quel che desta una certa curiosità è che persone come Rodney e James sono oggi presentati come dei teorici postcoloniali. È del tutto falso. Essi stessi si pensavano come appartenenti alla tradizione marxista.
D.: Questo ci porta a un’ultima domanda. Vi è un’affermazione nel suo libro sulla quale sarebbe interessante ritornare. Contrariamente all’interpretazione di Robert J.C. Young, lei nega ogni forma di continuità tra l’anticolonialismo e la teoria postcoloniale. Può spiegarci il perché?
R.: Penso che sia evidente. Se voi, per così dire, tornaste indietro negli anni ’70, e, potendo parlare con le grandi figure dell’anticolonialismo, chiedeste loro a chi si ispiravano, vi direbbero a Marx, Engels, Lenin. E se voi domandaste quali sono i loro valori, vi risponderebbero che credono in un ordine razionalista, moderno e forse socialista, ovvero in dei valori che riguardano l’ethos progressista della tradizione razionalista (Enlightenment) del diciannovesimo secolo. Ritengo che sia così evidente da non richiedere alcuna ulteriore discussione. È vero che Fanon, aveva una propensione all’anti-razionalismo, ma penso anche che egli riconoscesse l’importanza della tradizione razionalista. Non credo sia in alcun modo credibile l’idea che essi siano dei precursori di Spivak, Homi Bhabha o della scuola dei Subaltern Studies. In realtà, i Subaltern Studies ai loro inizi furono concepiti come una mutazione all’interno del marxismo. Il punto di svolta verso la teoria postcoloniale è venuto successivamente, negli anni ’90.
La vera questione è di sapere perché Young o chiunque altro possa sentire il bisogno di fare un collegamento tra gli ultimi teorici postcoloniali e Marx. Penso che la ragione sia quel che dico nel libro, ovvero che tra di loro vi è il desiderio di presentarsi come gli eredi della tradizione radicale, e per farlo, devono stabilire un legame diretto tra essi stessi e gli iniziatori di questa tradizione. Il mio punto di vista è che se essi sono davvero gli eredi di questa tradizione, allora dovrebbero essere in grado di produrre una politica che sia coerente con essa. Ma se, come ho già detto, la politica che essi producono essenzializza l’Oriente, se nega l’importanza dei bisogni universali, la rilevanza degli interessi e il fatto che essi siano la fonte principale della politica, se rifiutano di accordare un posto centrale al capitale in quanto categoria sociale, per quanto di altro si possa dire sulla teoria postcoloniale, non si può in nessun caso accettare l’idea che essa abbia un qualsivoglia legame con Marx, Engels, Lenin, Mao, ecc. Il movimento di liberazione africano, Cabral, la liberazione in Mozambico, Rodney, sono tutti socialisti. Possono esserci qua e là dei disaccordi con loro, ma essi appartengono alla famiglia dei socialisti anticapitalisti della tradizione razionalista. L’idea che siano dei precursori dei Subaltern Studies o della teoria postcoloniale, che oggi proclama il suo rifiuto dei valori della tradizione razionalista, penso sia estremamente contestabile.
D.: Da questo punto di vista come considera C.L.R. James?
R.: C.L.R. James fu un trotzkista e un marxista per tutta la vita. James avrebbe riso come un pazzo, davanti a un testo degli ultimi teorici postcoloniali, se voi gli avrete detto “sono i vostri figli”. Davvero, avrebbe riso come un pazzo…
Traduzione dal francese di Orazio Irrera.
[1] Vivek Chibber insegna sociologia alla New York University (NYU). È autore di Locked in Place: State-Building and Late Industrialization in India, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2003.
[2] Félix Boggio Éwanjé Épée è dottorando presso il Centre d’Économie de Paris Nord (CEPN, Université Paris 13 Nord) ; Orazio Irrera è chercheur associé presso l’Université Paris 1 – Panthéon-Sorbonne e codirettore della rivista materiali foucaultiani; Matthieu Renault è chercheur postdoctoral all’Université Paris 13 Nord — PRES Sorbonne Paris Cité.
[3] In questa sede non ci occuperemo dell’identificazione che Chibber fa di Subaltern Studies e Postcolonial Studies né dell’affermazione secondo cui queste prospettive, malgrado le differenze e le tensioni interne al campo degli studi postcoloniali, costituiscono una teoria, premesse che forse qualcuno potrebbe contestare, ma che l’autore giustifica esplicitamente e che, almeno nel quadro dei suoi obiettivi, non ci sembrano infondate.
[4] Cfr. Paul Heidman & Jonah Birch, « In Defense of Political Marxism », International Socialist Review, n° 90, 2013 (http://isreview.org/issue/90/defense-political-marxism)
[5] Secondo una tradizione storiografica molto differente, ma a partire da obiezioni simili, il concetto di rivoluzione borghese è contestato da Yannick Bosc et Florence Gauthier nella loro prefazione a Albert Mathiez, La Réaction thermidorienne, La fabrique, Paris 2010.
[6] Cfr. infra estratto n. 1.
[7] L’argomentazione di Chibber sulla razionalità e gli interessi è afflitta dagli stessi difetti. L’autore accusa i teorici postcoloniali di rifiutare ogni nozione oggettiva e universale di “interesse” socio-economico. Ora, a questo viene qui contrapposto un razionalismo che si ispira ai dibattiti propri al marxismo analitico. Se questi dibattiti sono appassionanti dal punto di vista della metodologia delle scienze sociali, non si può in ogni caso esigere che gli autori postcoloniali sottoscrivano delle tesi che sono molto controverse entro la teoria sociale presa nel suo insieme.
[8] Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma 2004, p. 41.
[9] Robert J. C. Young, Postcolonialism : an Historical Introduction, Blackwell Publishers, Oxford 2001.
[10] Cfr. infra estratto n. 2.
[11] Cfr. infra estratto n. 3.
[12] Si può trovare una breve rappresentazione di tutto ciò nell’introduzione di Trotskij alla sua Storia della Rivoluzione russa [NdA].
[13] Cfr. Karl Kautsky, La questione agraria, Feltrinelli, Milano 1959 [NdA].
[14] Il riferimento è alla nozione di “Storia 2” in Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, op. cit., p 93 e sgg. [NdT].
[15] Per quel che riguarda il caso dell’orientalismo di Marx, credo che talvolta egli ne sia stato effettivamente il responsabile. Nondimeno, le accuse dei subalternisti contro Marx, quelle che lo dipingono come un apologeta dell’imperialismo, sono così fuori bersaglio da suggerire una genuina ignoranza dalla loro parte nei confronti della sua opera. Fortunatamente, uno straordinario libro recentemente pubblicato sgombera il campo da queste accuse una volta per tutte. Cfr. Kevin B. Anderson, Marx at the Margins: On Nationalism, Ethnicity, and Non-Western Societies (University of Chicago Press, 2011). Si confronti l’impressionante padronanza di Anderson con le accuse mal formulate e piuttosto prive di fondamento di Gyan Prakash nel suo “Postcolonial Criticism and Indian Historiography”, in Social Text vol. 31/32 (1992), pp. 14-15 [NdA].
[16] Si ringrazia l’editore Verso per averci autorizzato alla traduzione di questi estratti.
[17] Si ringrazia Felix Boggio Éwanjé-Épée per il contributo alla trascrizione nell’originale inglese della presente intervista.
[18] Vivek Chibber è intervenuto presso la Maison des Sciences de l’Homme a Parigi, il 26 luglio 2013, nel quadro del seminario “Décolonisation et géopolitique de la connaissance” diretto da Orazio Irrera e Matthieu Renault [NdT].
[19] Chibber fa riferimento alla conferenza “Marxism & the Legacy of Subaltern Studies” organizzata da Historical Materialism a New York il 26 aprile 2013, cui seguì il dibattito tra lo stesso Chibber, Partha Chatterjee e Barbara Weinstein. La registrazione audio/video di questo evento è disponibile integralmente online: http://www.youtube.com/watch?v=xbM8HJrxSJ4 [NdT].