Pubblichiamo qui un estratto del libro a cura di Alfonso Amendola e Linda Barone, Our Vision Touched the Sky. Fenomenologia dei Joy Division, Rogas edizioni.
Di GIUSEPPE ALLEGRI
Here are the young men, a weight on their shoulders. Ecco i/le giovani disadattate/i dei malati sobborghi d’Europa nel passaggio Settanta/Ottanta del Novecento, per i quali la musica e le parole dei Joy Division costituivano la colonna sonora ideale, come ricorda Liz Naylor, ai tempi autrice della fanzine di Manchester No City Fun: «allora la città era invasa dai diseredati e io mi sentivo diseredata e impotente. Di tutti i posti dove ho vissuto, solo quello era casa. I Joy Division li sentivo molto vicini. Furono la mia prima band. Sai, penso che fossero un gruppo che attirava gli outsider e le ragazze. Non mi sentivo una ragazza, ma lo ero ed ero molto vulnerabile e loro mi comunicavano qualcosa. Quello che mi piace dei Joy Division è che sono un gruppo legato al proprio ambiente: quando suonano non pensi a loro come a una band, ma come al rumore che qui ti circonda» (Savage 2019: 22).
Manchester culla e tomba del capitalismo.
E il rumore che ti circonda in quello scorcio di passaggio del Novecento è quello del disfacimento inesorabile e irredimibile della società salariale e della solitudine incomunicabile: «Manchester sembrava un set abbandonato. Come se fosse stata bombardata con bombe al neutrone e non fossero rimasti che edifici deserti. Era stata la culla del capitalismo, ne era diventata la tomba», per dirla con Richard Boom, manager dei Buzzcocks (Savage 2019: 58-59).
Quella era stata anche la Manchester grigia e brulicante di opifici e sfruttamento, dove negli anni Quaranta dell’Ottocento Friedrich Engels aveva indagato La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845), immaginando, con il suo giovane amico Karl Marx, potesse diventare il luogo adatto per far detonare la rivoluzione proletaria e anti-capitalista, perché, osserva provocatoriamente Tony Wilson, il visionario giornalista pop artefice della Factory Records dei JD, «il comunismo è nato solo perché Marx ed Engels hanno buttato uno sguardo su questa merda totale che è stata la prima città industriale» (Savage, 2019: 15).
Questo era il passato, presente e futuro che circondava quei quattro ragazzi poco più che ventenni, che suoneranno e pubblicheranno i loro EP ed LP (da An Ideal for Living, giugno 1978, a Closer, luglio 1980). «È oramai chiaro che il biennio 1979-80, gli anni con cui la formazione verrà sempre identificata, ha rappresentato un momento di soglia: l’epoca in cui un intero mondo (socialdemocratico, fordista, industriale) ha manifestato la sua obsolescenza, e i contorni di un nuovo mondo (neoliberale, consumista, informatico) hanno cominciato a diventare visibili. Si tratta naturalmente di un giudizio a posteriori: di rado i momenti di rottura vengono percepiti come tali nel momento in cui si verificano» (Fisher 2019: 75). Invero penso non solo a me paia evidente che i Joy Division vivessero, e quindi percepissero, questa condizione sulle loro precarie, giovanissime, esistenze, insieme alla loro generazione – Portrayal of the trauma and degeneration,/The sorrows we suffered and never were free – e tutti insieme approfitteranno dell’assalto punk per fare tabula rasa di passato, presente e futuro.
Epicentro di energia psicogeografica, dal 1819 al 1976.
L’assalto frontale del punk, già nella celebre estate del 1976, a partire dal concerto dei Sex Pistols, il 20 di luglio, alla Lesser Free Trade Hall di Manchester, sala da concerti e da ballo costruita con sottoscrizioni pubbliche a memoria della celebre e tragica manifestazione per il diritto di voto svoltasi in quei luoghi il 16 agosto 1819 e brutalmente repressa, con il Peterloo Massacre, decine di morti e feriti, per ricordare il quale Percy Bysshe Shelley scrisse il formidabile poema The Masque of Anarchy (1819). Sicché quello spazio trans-temporale «è diventato un gigantesco epicentro di energia psicogeografica» (ancora Tony Wilson, in Savage 2019: 15), di permanente immaginazione artistica e radicale sovvertimento dell’ordine esistente delle cose. E così vedere i Sex Pistols quella sera e in quel luogo, «per Ian fu la conferma che la vita poteva offrirgli altro da una carriera nel pubblico impiego» (Curtis 2017: 47). Ian che in quei giorni compiva vent’anni (era del 15 luglio 1956). E quella notte a Manchester, tra i 42 paganti, tutti i futuri gruppi mancuniani erano presenti al concerto: è lì che nasce la scena, il suono, lo stile, la vita di Manchester/Madchester.
Quella voce, per sorprendere la catastrofe
È una sovversione generazionale, certo, quella del (post)punk, ma è anche il collassare spazio-temporale di una secolare moltitudine di invasati, visionari dei tempi futuri, delle avanguardie europee compresse ed esplose in quella metà dei Settanta del Novecento, da Dada al Situazionismo, anche a partire dalla voce di Johnny Rotten, come ci è capitato di scrivere altrove. «Ho cominciato a chiedermi da dove provenisse quella voce. In un certo momento, intorno alla fine del 1975, in un certo luogo, a Londra, poi in tutto il Regno Unito, quindi in paesi e città di tutto il mondo, tutte le realtà sociali sono state rinnegate e si è diffusa la consapevolezza che tutto è possibile. “Ho visto i Sex Pistols”, ha detto Bernard Sumner dei Joy Division (in seguito, dopo il suicidio del cantante del gruppo, dei New Order) “erano pazzeschi. Ho pensato che fossero grandi. Mi è venuta voglia di dar di matto come loro”» (Marcus 1991: 17). Si tratta allora non solo di dare di matto come loro, ma anche di organizzare gli spazi, gli scantinati, i locali, i club, le città come piattaforme operative per ventenni irriducibili alla condanna di una vita in sottoccupazione/disoccupazione. E bisogna farlo in fretta, per anticipare e sorprendere la catastrofe, étonner la catastrophe, ci direbbe il caro Bernard Stiegler (1952-2020), citando Victor Hugo de Les Misérables, o almeno per mettersi di traverso al corso apparentemente ineluttabile della storia, direbbe invece Walter Benjamin.
Il Quinto Stato di critici attivisti e metamusicisti, ancora una volta
«A partire dalla fine del 1977, […] l’effetto combinato dei “critici attivisti” e dei “metamusicisti”, la cui opera costituiva una forma di critica attiva, alimentò una sfrenata sindrome evolutiva: […] tutto ciò contribuiva alla sensazione di una corsa impetuosa verso il futuro […]. Musicisti e giornalisti fraternizzarono abbondantemente in questo periodo: un’alleanza forse dettata da un senso di solidarietà e cameratismo nella guerra che opponeva il post-punk alla Old Wave, ma anche nelle lotte politiche dell’epoca» (Reynolds 2006: XXIX).
E dai primi anni Settanta, proprio a Manchester, era attiva una cooperativa di lavoratori e lavoratrici delle arti musicali e dello spettacolo, la Music Force, che aveva un locale in Oxford Road, dove musicisti solisti o gruppi musicali potevano prendere in affitto l’intero armamentario di strumenti, servizi, furgoni, etc. e farsi preparare locandine, comunicati, flyer, etc. È il laboratorio creativo dove opera anche Martin “Zero” Hannett (1948-1991), futuro artefice del suono Joy Division e fulgida meteora sonica, logorato dalle dipendenze, ai tempi immerso tra produzioni di compagnie di teatro radicale, collaborazioni con club, università, il politecnico locale, bar e pub. È in quel crogiuolo che comincia a formarsi quella comunità aperta di artisti, tecnici, musicisti, performer, grafici, reporter, artigiani e creativi di ogni genere e grado, quel Quinto Stato di lavoratori e lavoratrici intermittenti, precari-e, informali, occasionali che proverà a trasformare Manchester, a circa centocinquanta anni dal Massacro di Paterloo e dagli scritti di Marx ed Engels.
Costituzionalizzare The Haçienda
Potremmo dire che siamo dinanzi alla costituzionalizzazione di questo sodalizio, di un manipolo di intraprendenti lavoratori delle arti musicali, dello spettacolo e della comunicazione che nel giro di un lustro, passando per il lutto comune di Ian Curtis, andrà poi ad inaugurare The Haçienda (1982) il club dal nome che evoca volutamente il Formulario per un nuovo urbanismo (1953) di Gilles Ivain, pseudonimo di Ivan Chtcheglov, pubblicato successivamente nel numero 1 della rivista Internazionale Situazionista (Ivain 1958: 15-20): «tutte le città sono geologiche e non si possono fare quattro passi senza incontrare dei fantasmi, armati di tutto il prestigio delle loro leggende». Ecco la rivoluzione urbana nel cortocircuito spazio-temporale di Manchester, luogo di potenze psicogeografiche: dai fantasmi dei ribelli trucidati nel Paterloo Massacre ai punk scapigliati, malvestiti e allampanati che si spingevano ai concerti dei Sex Pistols nella torrida estate del 1976, fino ai dinoccolati, emaciati e nero-vestiti Joy Division. E il Formulario situazionista continuava con bisogna costruire l’haçienda, quel club, discoteca, locale notturno, sala da concerti, spazio liberato che attraverserà i due decenni successivi inseguendo l’aspettativa inevasa di fare di Manchester la capitale della rivoluzione urbana e musicale post-industriale.
Tra isolazionismo e comunanza: “questa è la dance music del futuro” (Martin Hannett)
Così, il lascito, forse più potente e duraturo, di quella evocativa potenza sonica che sono stati Joy Division è da rintracciarsi negli effetti “spaziali” partoriti dalla mentalità psicogeografica del loro produttore Martin Hannett, che vedeva il suono, lo plasmava, secondo quanto raccontava lo stesso Tony Wilson, creando spazio di ascolto, lavorando in solitaria in modo maniacale sui suoni della band nello studio di registrazione, da fan del dub quale era, come lo stesso Ian Curtis, e da indefesso adoratore della «psicogeografia dello spazio urbano», esaltato dai «luoghi pubblici deserti, dagli uffici vuoti nei palazzi» (Reynolds 2006: 239-241).
Ecco allora che la JD legacy può essere rintracciata nuovamente in una forse inaspettata bipolarità, di esitante musica dance del presente e del futuro, tra isolazionismo e comunanza. Da una parte, il conclamato fumoso filo nero che lega echi, riverberi, rumori, glitch, spore, spazialità immersiva nel dubstep stratificato e isolazionista degli anni zero e dieci del nuovo millennio di Burial, vero vettore tra post-punk, rave culture e musica elettronica a venire, forse passando anche per le peripezie soniche, esistenziali e liriche di Tricky. Dall’altra, tramite l’evocazione di alcuni intercessori – come i campionamenti da Aphex Twin, Boards of Canada, Postal Service, Death Cab for Cutie – si giunge alle basi emo-trap e alle liriche malinconiche, ruvide, sporche e dopate del compianto, giovanissimo, Gustav Elijah Åhr aka Lil Peep (1996-2017), nuovo – e forse imprevisto – mediatore evanescente di dilatati spazi sonici e siderali attraversamenti temporali per le recenti generazioni disperse nelle gelide ed entropiche gabbie di silicio degli automatismi digitali, a partire dalle proprie soffocanti camerette, tanto più nell’isolamento pandemico in cui eravamo rinchiusi, mentre si correggevano le bozze di questo volume collettivo che qui anticipiamo.
Allegri P., Una nuova idea di felicità e tempo libero?, in roots&routes, n. 28, maggio-dicembre 2018, assalto delle gole al cielo – 1968…2018, a cura di Silvia Calderoni, Ilenia Caleo, Viviana Gravano & Annalisa Sacchi
Allegri G. – Ciccarelli R., Il quinto stato, Ponte alle Grazie, Milano 2013
Curtis D., Così vicino così lontano. La storia di Ian Curtis e dei Joy Division, Giunti, Firenze, 2017
Fisher M., Niente più pleasures. I Joy Division, da un post di k-punk, 9 gennaio 2005, in M. Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, Minimum fax, Roma, 2019, 75-93
Ivain G. (aka Chtcheglov I.), Formulario per un nuovo urbanismo (1953), in Internazionale Situazionista, 1/1958
Marcus G., Lipstick Traces, 1989, trad. it. Tracce di rossetto. Percorsi segreti nella cultura del Novecento dal dada ai Sex Pistols, Leonardo, Milano, 1991
Reynolds S., Post-punk. 1978-1984, ISBN Edizioni, Milano, 2006 (2005)
Savage J., Joy Division. Autobiografia di una band, Rizzoli Lizard, Milano, 2019 (tit. or. This searing light, the sun and eveything else)
Foto di copertina di Raver Mikey su Flickr.