Di MARCO BASCETTA

Nell’estate del 1943, mentre gli alleati cominciavano a sbarcare e le bombe piovevano sul paese, agli studenti italiani fu risparmiato per quell’unica volta nella sua solenne storia l’esame di maturità. Pur non potendosi paragonare all’acme di una guerra devastante, la pandemia ha rappresentato e rappresenta uno scarto importante dalle abitudini, dalle possibilità e dalla vita relazionale di una società e delle sue articolazioni tra le quali il mondo della scuola occupa una posizione centrale.

Il danno subito che gli studenti denunciano è reale e tutt’altro che irrilevante. Non solo sul lato psicologico, quello solitamente più citato, ma anche e soprattutto per la rimozione, ricorrente negli ultimi due anni, di quel tessuto relazionale e di quelle interazioni (fisiche, emotive, a volte culturalmente illuminanti) che eccedono i contenuti e le procedure dell’insegnamento, ma costituiscono un fattore decisivo nello sviluppo della soggettività e della vita pubblica. Lo schermo della didattica a distanza contraddice in pieno quell’orizzontalità che la retorica dominante è solita attribuire alla generale interconnessione digitale. E quando non consente alternative, sottolinea piuttosto che lenire un sentimento di mancanza e deprivazione.

I ministri della pubblica istruzione incarnano, da tempo ormai quasi immemorabile, il massimo di ideologia che un governo occidentale possa permettersi, incuranti dei risultati miseri quando non disastrosi delle riforme a cui ciascuno ambiva legare il proprio nome, come i grandi medici tedeschi del passato a quello di una malattia. Tutti convinti di agire “all’altezza dei tempi” che però non mancavano puntualmente di contraddirli.

Non stupisce allora che il ministro Bianchi pretenda, nel perseguire ottusamente il suo modello dirigista di “maturità”, di prescindere non solo dal punto di vista di chi empiricamente vive la realtà della scuola, ma anche dal contesto profondamente anomalo e disagevole rappresentato dalla pandemia. Chissà cosa avrebbe deciso nel 1943, quando almeno l’emergenza bellica scongiurò velleità riformiste. Di certo, nel 2022, si accoda alla già folta schiera di una classe politica impegnata nel dimostrare nei fatti che la crisi pandemica non è occasione di alcun ripensamento e che di altro non si tratta che di restaurare per filo e per segno gli assetti precedenti.

Gli studenti delle scuole superiori che si sono mobilitati in massa in tutto il paese a partire da una condizione vissuta riportano in vita la più sensata tra le forme della politica, quella che passa al contropelo i precetti delle ideologie dominanti e il senso comune che si trascinano dietro.

Il primo obiettivo delle mobilitazioni studentesche è infatti l’abolizione dell’alternanza scuola-lavoro e, a maggior ragione, della sua obbligatorietà. Partorita dal modernizzatore di turno quando tra apprendimento, conoscenza e lavoro solo la più retriva delle ideologie si ingegnava ancora a tracciare confini, l’alternanza oscilla tra fantasie reazionarie e simulazione propagandistica, con possibili esiti tragici come purtroppo abbiamo visto.

Del tutto estranea all’articolazione reale delle forze produttive questa “riforma” si aggiunge alla lunga lista delle misure dedicate all’impossibile compito (per fortuna) di adeguare il mondo della scuola alla domanda delle imprese. Con il risultato di impoverire il primo e di confermare le seconde nella propria conservativa autoreferenzialità. Quanto più l’innovazione e la forza produttiva si sviluppano al di fuori del mondo del lavoro (o attraversandolo all’occasione opportunisticamente) tanto più i “riformatori” sproloquiano sul valore formativo della sua arcaica disciplina. La materia che l’alternanza obbligatoria impone è in buona sostanza, per usare un’espressione ormai bandita dal lessico della politica, il lavoro sotto padrone e l’obbligo di adattarsi a effimere mansioni. Oppure solo una grottesca messa in scena.

Questo attrito crescente tra il lavoro salariato nella sua forma stabile, e oramai più spesso precaria, e l’esperienza di vita relazionale, tutt’altro che astenica e improduttiva delle giovani generazioni, sottende da quasi mezzo secolo l’insorgere dei movimenti. Dal lontano 1977 alla Pantera, dall’Onda, al movimento attuale. Tanto lungo è stato il processo di superamento della società del lavoro mantenendone però le leggi, le misure, i rapporti di forze. Piegando cioè l’intero tempo di vita ai molteplici e mutevoli dispositivi dello sfruttamento. Le insorgenze che si sono di volta in volta opposte a questo processo, con tutte le diversità che le contraddistinguono, non rappresentano una coazione a ripetere, ma il filo conduttore di un conflitto mai del tutto sopito.

Seppure malconcia, sempre meno credibile, orfana di molti amati feticci, tanto più aggressiva quanto più incoerente e stantia, l’ideologia dominante dello stato e del mercato, nonché le politiche che vi si ispirano, non sono state certo sconfitte. Ma ogni movimento può assestare un ulteriore colpo e aprire una nuova crepa, grande o piccola che sia. Lo auguriamo agli studenti che occupano le scuole e invadono le piazze in questi giorni.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto l’11 febbraio 2022. Foto di copertina del gruppo Facebook “Rete degli studenti medi”

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