di FANT PRECARIO.
I
(CAPITALISTIC) IMPULSE
se qualcuno ruba un fiore per te
La vita del povero ha sempre accompagnato la vita del ricco (in fondo, anche all’osteria, la chitarra “accompagna” il solista, padrone della melodia e quindi della creazione del mondo) dalla nascita (quando il latte della poveraccia nutriva il bebè del padrone salvando le grazie della padrona) alla morte; quando si costruivano mausolei e dimore fittizie perché il ricco ha la presunzione di vincere la morte, superando anche questo scoglio e, addirittura, senza l’aiuto di un dio (ma attraverso la sofferenza del povero, che si trova dio negativo a sua insaputa). È per questo che le ricche hanno delle belle tette e la cultura registra la piramide di Cheope, il mausoleo di Teodorico, il Vittoriale di D’Annunzio e non il monolocale di Sergio o il loculo della Franca.
Il povero ha però (e soltanto da tempi recentissimi) un fiore, sull’arida montagna dell’appennino, e la gente (sempre meno, sempre più distratta) quando lo vede apprende che è il fiore del (povero) partigiano morto per la libertà.
Da qui si possono trarre due prime conclusioni:
(i) l’unico povero che ha il proprio (delicato e dolente) mausoleo è “ignoto”, e non è “un” povero, ma tutti i poveri. Il povero lo ricordi quando si fa moltitudine e si prende la scena: il povero in purezza non esiste, è attrezzo padronale;
(ii) il povero ha avuto un (quel) monumento soltanto perché si è contrapposto al ricco e ai suoi servi; quel fiore è nato dalla mitraglia – meglio: dal rivoltare la mitraglia verso chi abitualmente la usa.
Minchia, ma lo vedi che sei violento? E perché non hai aspettato gli americani? E i morti delle fosse Ardeatine? Non poteva il povero sopportare il tallone nazista? E poi per cosa? Per un fiore… almeno Graziani ad Affile c’ha il mausoleo.
Al contrario. Se il ricco ha tanti (prodigiosi) monumenti e il povero soltanto uno è perché il ricco si è dotato di armi e di leggi, cosicché lo sfruttamento del povero per l’utilità del ricco è obbligo codificato e la rivolta del povero orrido vomito di massa senza volto.
II
NINETTA MIA MORIRE DA PAGGIO CI VUOLE MOLTO CORAGGIO
Voi mi direte ma sono cose risapute, scritte, oltretutto, con un metro un po’ stantio, ma credo che vadano ricordate, fosse solo per introdurre una questione che, con lo sfruttamento del povero per la gloria del ricco, ha parecchio a che fare.
La morte (del povero) ha sempre accompagnato il proprio “servizio”: si moriva per erigere le belle magioni, per l’onore della figlia o della moglie del signore, per allargare il recinto di quel porcile che i ricchi chiamano patria. Si moriva per guadagnarsi la pagnotta.
Nulla di diverso da oggi, quindi si potrebbe opinare.
NO.
La morte del povero era evento occasionale; certo nessuno piangeva se un povero moriva, nessuno metteva in dubbio la bontà dell’attività “necessitata” che aveva condotto il povero alla morte, ma – neppure – la morte era voluta, desiderata.
Anzi: il povero, come ogni attrezzo, era talvolta tutelato (tutela non riconducibile, invero, ad atto di liberalità ma ad estorsione – per dirla con certi magistrati – attraverso una lotta che rivendicava l’indispensabilità del povero nella produzione di merci. In ogni caso, per molti anni di seguito le morti sul lavoro diminuirono).
Il perdurare della vita del povero era un onere che il capitale doveva accollarsi per averlo (disciplinato) e presente sul “posto di lavoro”.
III
POVERI MA BRUTTI
Sarà la vecchiaia, sarà la bruttezza della costruzione dell’uomo nuovo attraverso il decoro e i divieti, sarà l’impossibilità di poter almeno annusare il proprio respiro libero dalle catene (quelle classiche che avremmo dovuto perdere erano, in paragone, un letto di piuma) ma credo che – attualmente – la morte del povero sia cercata, desiderata, ottenuta.
La morte è richiesta al povero per perpetuare la vita del ricco; il povero (operaio) se moriva non poteva più costruire frigoriferi; il povero (precario) morendo valorizza se stesso e agevola il compito del capitale. Il corpo morente del povero si adagia nella ricostruzione del passato, ormai eterno presente, costituendo linea di congiunzione tra la merce di ieri e il nulla (entrambi produttivi, si badi) di oggi.
Ovvio, non sempre il capitale cagiona la morte (nel senso di materiale dipartita) per riprodursi: di solito preferisce lo spegnimento delle funzioni vitali “inutili”; in fondo, il precario potrebbe essere composto da un cervello funzionante come generatore di tristezza e da una mano per farsi delle pippe, il resto ben potrebbe essere abrogato per legge o decreto. Il povero deve essere brutto, sgraziato e continuamente parametrato ai criteri di bellezza/utilità che il capitale pone a proprio vantaggio.
Cos’è la morte oggi per il povero e perché il padrone la cerca con tanto accanimento?
Ripeto, persistono le vie tipiche, tipo investire il poveretto che picchetta fuori i cancelli della fabbrica, accidentalmente essere colpito da oggetti volanti, essere socialdemocraticamente accompagnato da una seducente bellezza nordica alla morte, scomparire negli accoglienti appartamenti che l’alleato libico riserva a molti o nei flutti del mare sempre più nostro, grazie anche alla (non più regia, ma sempre SUPER) Marina che giornalmente combatte contro l’orso russo come ricorda “Repubblica”, rendendo l’Adriatico una pozza imperiale e vendicando finalmente Lissa.
Ma accanto a tali piacevoli intermezzi che allietano la vita del ricco [ricordando la grandezza dello stivale (e dell’occidente tutto, che nasce da ROMA e torna a ROMA, passando per ROMA, iddio la creò)] e non minano certo il perpetuarsi dell’esistenza del povero, colpito ma non affondato, esiste una necessità immediata per il capitale di vedere morto il povero.
IV
CHE CENTO FIORI MUOIANO
Il povero, s’è visto, ha il suo fiore. Il fiore è l’attuale nemico del capitale, è rosso, bello nonostante l’abbandono della montagna verso le (già) belle città. Il fiore è il povero quando cessa il proprio servizio e si avvia a contraddire la costituzione materiale issata dal ricco.
Come può il capitale fare si che il povero non diventi fiore? Occorre reciderlo; la morte è necessaria, non più evento occasionale: caduto sul lavoro, caduto per la patria, questo va bene; ma come tutelarsi dal povero che
vuole levare i calzini arcobaleno a Mr. Olimpiade (già Signor Expo) per mostrarne la natura diabolica delle zampe?
vorrebbe essere considerato, almeno, quanto una fioriera?
sedersi su una panchina?
o mangiare un panino lungo le vie della propria città ormai estranea?
Due sono le soluzioni: la morte effettiva (la ripresa dei miti eterni della patria e dell’eroe e il dilagare di virus letali sono un bel passo in avanti) ovvero l’espunzione dal corpo precario di ogni organo che non sia strumentale alla produzione di morte.
Sopra ho detto che il precario contemporaneo potrebbe consistere in un cervello e una mano per le seghe; confermo, ma con la precisazione che il cervello deve esprimere solo pensieri mortiferi e la mano deve essere dolorante così da inficiare il piacere, in astratto, possibile.
V
SOFFRO QUINDI PERPETUO IL NULLA VESTITO A FESTA
La necessità di soffrire ha scandito gli ultimi anni della vita del povero. I cantori del padrone hanno chiarito che il povero è unicamente (si dà, realizza, pone, esiste) lavoro. Lavoro come coazione, ingiusta e sgradita, produzione di qualcosa che è estraneo al corpo e alla mente (ma la mente è una creazione dei/per ricchi, il povero è solo corpo) del povero.
Se ricordate, durante il lockdown tutto era vietato tranne lavorare.
“Milano non si ferma” era il motto del grande gentrificatore, laddove l’attività era solo lavorativa, perché anche l’aperitivo è lavoro, anzi ora d’aria del condannato al lavoro che così implementa i ricavi del bottegaio (figura orrenda partorita dal delirio di Lady Plusvalore al ritorno dal #jovabeachparty che riduce il corpo umano a scorreggia violenta, gassificando i cervelli riconducedoli alla produzione di merda a mezzo di pensiero di merda).
Un altro disse che i morti di Bergamo avrebbero voluto che il lavoro riprendesse, unendo l’esperienza da boy scout a quella di negromante al soldo di Pittigrilli.
Ricordo un giornale che nel giugno 2020 dava istruzioni ai fidanzatini per andare in vacanza: divertirsi si, ma baciarsi poco (non vi dico chiavare).
La vita come prestazione del sé integrale al padrone per un prodotto che deve esulare da ogni creatività rimanendo confinato allo studio del proprio cadavere.
La merda (rectius, la morte) partecipa alle elezioni del 25 settembre come candidato unico.
VI
LIBERTÉ FRATERNITÉ MA NON PER TE
Come ogni anno, in agosto, appoggio il culo sulla sabbia francese per riprendermi da un anno vissuto servilmente; da qui, e pur con scarsa comprensione, la visione dei telegiornali locali è quasi un dovere.
Tre gli argomenti che mi hanno colpito, tutti e tre, espressione di un sentire politico che riduce il richiamo alla devianza della figlia della lupa ad afflato mistico.
a) Un violentissimo attacco alla magistratura perché avrebbe -lo riconoscono anche i critici- applicato la legge, ma -orrore- a favore di un tizio che (i) non è francese; (ii) non affonda l’esistenza nelle radici cristiane della Francia (falsamente) repubblicana. Evidentemente, questi signori, laddove contestano al potere giudiziario la facoltà di disapplicare i provvedimenti amministrativi (principio peraltro proprio di origine francese e portato da noi con la L. 2248/1865 (per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia) e i suoi allegati (allegati che nei 150 anni di applicazione hanno salvato più di un culo e non solo di politicanti prezzolati) sanno che mai [in quanto bianchi, cristiani, a modo, con i loro vestiti attillati da autista di taxi parigino] saranno oggetto di provvedimenti che -ed è questo il punto- sono destinati esclusivamente ai deviati/non conformi. Il repubblicano, forte del bollino rivoluzionario, si sente chiquita tra mille banane ordinarie ed esige il rispetto della propria (superiore) diversità.
Come dire, cagare sopra la rivoluzione mai, a parole, rinnegata.
b) In prigione qualcuno ha deciso che, anche se orrendi scarti di galera, si possa godere di qualche attimo di passatempo. Giammai. L’avere violato la legge esclude la possibilità di un qualsiasi svago. Ci devi morire in prigione, magari di noia, sicuramente triste.
In questo 2022, quindi, è vietato assumere qualsiasi postura che non sia quella indicata dalla propria appartenenza al sistema produttivo che distrugge la vita per realizzare l’orrore produttivo.
VII
RODEO DRIVE
(ed ecco il terzo capolavoro della repubblica macroniana fondata sul dolore, lo tratto per ultimo perché mi tocca di persona)
Il capitale ha bandito ogni forma di godimento perché altrimenti la produzione di opzioni mortifere potrebbe arrestarsi. Lo fa in ogni modo: basta che un povero sorrida e subito televisioni e giornali a studiare il perché del godimento, cercare di trasformare il sorriso in reato, punire il colpevole in attesa che il legislatore faccia il proprio lavoro di codificatore della violenza autorizzata.
In questa calda estate, tra incendi straordinariamente estesi, siccità senza precedenti, uragani e tempeste, il ministro degli interni francese ha dichiarato guerra ai “rodei” urbani. Si tratta di qualche poveraccio di periferia che “fa le penne” per mettersi su instagram, “scianca” con l’amico per vedere chi arriva prima al bar dell’angolo.
Ebbene, la discussione si è subito estesa:
– al “diritto” per la polizia di abbordare i veicoli in corsa,
– all’origine migrante dei rodeanti,
– alla necessità che il popolo (quello sano e nostrano, ovviamente) prema sul parlamento affinchè le leggi siano modificate e
i pochi emmerdeurs siano gettati sul ciglio della strada senza vita.
Il procedimento evocato dal ministro (pompamento dell’insussistente fenomeno terrorismo mediatico – censura dell’inerzia del potere legislativo – necessità di una cautela anticipatoria a mezzo revolver) non si è fatto attendere.
Dopo pochi giorni due tizi che avevano tirato dritto a un posto di blocco sono stati freddati (uno colpito alla testa, uno al cuore: ovviamente si è trattato di legittima difesa da parte del gendarme “lievemente ferito”).
Il superamento del potere legislativo da parte del cuore pulsante della republique fascista si è dato nel giro di pochi giorni.
VIII
ATTO DI FORZA NUMERO 10
Anche in questo caso (parrebbe) nulla di nuovo sul fronte occidentale.
Da sempre, chi scappa da un posto di blocco è centrato dalla casuale difesa legittimissima dei servitori dello stato, da sempre le “corse” non sono gradite dagli abitanti dei quartieri “bene”, però un tempo, non si chiamava alla sollevazione della società civile contro 4 poveracci che sgommano sotto casa (che poi non era la loro, perché ce ne stavamo tranquilli nella nostra calda merda periferica), si cercava di tutelare il proprio sistema di vita (che era già mortifero ma non esteso all’intero genere umano, restando confinato nella borghesia ammuffita cantata da Claudio Lolli) e di tenere lontano le orde barbariche.
Ora no.
Sono stato un rodeista. Lo confesso.
L’unica soddisfazione dell’essere figlio dell’operaio professionista era quella di saper elaborare una moto. Noi che la fabbrica l’avremmo vista da fuori i cancelli, ormai in vista di prossima chiusura, popolata di uomini stanchi di chinare la testa di tirare avanti, ne apprendevamo il prodotto ultimo per distrarlo dall’uso cui era deputato (la produzione di merci, la produzione di uomini mercificati) per divincolarci dalla norma fondamentale del capitale [che ce lo vedi Kelsen allungato sul vespone 200, sella con le frange, jeans vita alta, canotta a righe e gridare alla madama “piggime asenun” (per quelli che non sanno le lingue: “prendimi, asinone”)].
Si prendeva una strada sull’Appennino, si passava la voce tra i quartieri rossi di scritte e di insurrezione particolaristica. La sera, di notte, su strade non chiuse, senza autorizzazione alcuna, si saliva avendo cura di evitare i veicoli che arrivavano in senso contrario. Amici persi in via Reta, sul curvone dalla Centrale del Latte, sulla Bocchetta, al Giro del Vento. Erano, le nostre, Vespe, le stesse che usavamo per andare a scuola, neppure poi troppo sofisticate. Ancora di droga ne circolava poca, sarebbe arrivata due anni dopo e non è un caso che le corse finiscano allora (o siano oggetto di regolamentazione precisa).
Le sanzioni? Non credo ne sia mai stata comminata una. Anche quelle arrivarono dopo (con la droga?), quando si cominciò a vociferare del fatto che l’introdotto obbligo del casco avrebbe favorito le rapine a fini di sovvenzionare il terrorismo. E le raffiche di mitra. E le bande chiodate. E la legge Reale.
Anche allora la società civile insorse contro i rodeisti – sempre meno, sempre in sella a mezzi più potenti, sempre meno lucidi: ma lo faceva per difendere lo stato democratico. Il nemico era l’eversore, colui che predicava l’insurrezione, che voleva colpire un cuore che non c’è mai stato.
Ora le cose, egregi, parrebbero diverse. Dove sta l’eversione? Mica i periferici vogliono il Soviet? Mica contestano il Lama di turno. Vogliono solo esistere.
Quindi, cari, delle due l’una:
(i) Il capitale oggi prende un abbaglio e cerca di colpire quattro ragazzotti per vendetta personale, perché bellissimi nel gesto di sollevare la Yamaha rubata,
(ii) oppure anche questa è davvero eversione.
Ritorniamo al punto di partenza. Nei ’70 si colpirono i rodei in prospettiva antiterrorismo: a nessuno fregava nulla delle origini dei rodeanti (diversi erano di buona famiglia), del fatto che si divertissero, che oltre a non sopportare di sentirsi dare “del coniglio” battesse nel loro cuore l’autoriduzione.
Ora è diverso, il motard è combattuto in sé, non perché ricondotto a una particolare setta rivoluzionaria. Il motard va abbattuto perché (magari in modo sguaiato, e questa è colpa ulteriore) si diverte. Bisogna togliere il sorriso al motard, perché non si deve sorridere. Nella catena di montaggio dell’ovvietà che edifica il capitalismo postfinanziario (risostanzializzato) il sorriso è vietato, il motto salace (a maggior ragione se espressione corporale) deve essere combattuto e represso.
La periferia deve soggiacere alla stessa regola in questa putrida riproduzione degli anni ’80. Ordine e disciplina debbono irrigare le pianure che il capitale solca per produrre e il ministro difende con il fucile.
Migranti, motard, vagabondi sono gli obbiettivi di una guerra orrenda che è stata scatenata dal capitale nel plauso di giornali, televisioni e società civile.
Si tratta di decidere se arrendersi, dismettendo ogni desiderio; ovvero moltiplicare i gesti di allegria, evasione, riapprensione dell’interezza del proprio corpo.
Per questo ognuno deve saltare sulla propria moto (come una volta si imbracciò lo sten) e cercare lo scontro con se stesso (prima che con il muro – anzi quello, e lo dico per esperienza personale, sarebbe meglio evitarlo); perché essere felici in una periferia che riprende vita mentre passa il motard (perché ogni contrada è patria del motard, ogni ragazza a lui dona un sospir) è quanto di più insurrezionale oggi si possa concepire.
IX
DIVENTARE CINGHIALI
Certo, (ir)ridere non basta, né è sufficiente forzare un posto di blocco: occorre organizzare il movimento del singolo corpo verso altri corpi. Non si tratta né di destituire né (per ora) di costituire; occorre immaginare sé stessi come armi sorridenti che si coagulano ad altri poveracci per riprendersi il corpo e la capacità di esplodere revocando ogni norma e consuetudine posta dal capitale.
Avete mai visto una banda di cinghiali in città?
Mica temono la repressione, lo sguardo impaurito del cittadino: proseguono dritti, perfettamente organizzati in testa e in coda i soggetti più forti, in mezzo i piccoli.
Non deviano per auto o guardiani: sono le auto che deviano magari tracimando odio e invidia.
Il cinghiale modifica la città secondo le proprie esigenze lasciandola, apparentemente, com’è.
La vita del precario, la potenza del povero emarginato, comunque annegato nel capitale può consentire al precario stesso di farsi cinghiale, abrogando leggi, decreti, azzerando la voluttà di presidenti di regione pelato/mascelluti.
Il precario deve essiccare ogni fonte di creazione appropriabile da parte del capitale, farsi cinghiale e imporre il proprio corpo come invenzione del “nuovo” mondo, popolato di soli cinghiali, nell’estinzione di saggi servitori e padroni bolsi.