Segnaliamo l’uscita di Le frontiere del capitale di Into The Black Box e pubblichiamo qui la postfazione di Sandro Mezzadra.

di Sandro Mezzadra

Reinventare la “conricerca” a fronte di un capitalismo che è radicalmente cambiato rispetto a quello industriale in cui fu originariamente inventata e praticata dall’operaismo italiano: è questa, in buona sostanza, la sfida a cui risponde il collettivo Into the Black Box, di cui in questo libro avete potuto leggere interventi e materiali maturati nel corso degli ultimi cinque anni. Dire “conricerca” oggi, tuttavia, significa sollevare un insieme di questioni teoriche di grande rilievo che si tratta di affrontare nel momento stesso in cui si interviene all’interno di una lotta nei magazzini della logistica o si contribuisce a organizzare uno sciopero metropolitano dei rider che lavorano per le piattaforme digitali. Come sono cambiati gli spazi del capitale, come si distribuiscono e si articolano circolazione, produzione e riproduzione? Come si sono trasformate le figure e le esperienze del “lavoro”, come è mutato il suo stesso concetto? E che dire della temporalità, del ritmo che i processi di valorizzazione e accumulazione del capitale tentano di imporre alla società nel suo complesso? Quali sono i principali punti di resistenza, attrito e conflitto che in questo modo si generano? Le domande potrebbero essere facilmente moltiplicate, e le pagine che precedono questa postfazione ne formulano in effetti molte altre. Sono domande che richiedono un insieme di strumenti teorici che vanno necessariamente al di là dell’eredità dell’operaismo italiano. Into the Black Box le affronta in modo spregiudicato, intervenendo con grande originalità nel dibattito internazionale su questi temi.

In questione è la natura stessa, la specificità del capitalismo contemporaneo. Non è un tema nuovo, e il fatto che il dibattito critico continui ad assumere come riferimento la crisi del “fordismo” negli anni Settanta conferma in fondo una difficoltà a stabilire “in positivo” i caratteri distintivi della formazione capitalistica al cui interno ci troviamo a vivere. Il lavoro di Into the Black Box contribuisce da questo punto di vista a muovere qualche decisivo passo avanti. In primo luogo, affrontando un tema solo apparentemente astratto, quello delle coordinate temporali e spaziali dei processi di valorizzazione e accumulazione del capitale. Il punto di partenza è classico, ed è offerto da un celebre passo dei Grundrisse: il capitale, scrive qui Marx, “tende ad annullare lo spazio attraverso il tempo; ossia a ridurre al minimo il tempo che costa il movimento da un luogo all’altro”. Queste righe sono parse a molti premonitrici rispetto agli sviluppi contemporanei del capitalismo, in particolare nei dibattiti degli anni Novanta sulla “globalizzazione”. Vorticosa accelerazione dei movimenti delle merci e dei capitali, riorganizzazione delle geografie della produzione, scompaginamento di ogni identità definita in termini di classe o di luogo: questi sembravano, semplificando un poco, i segni distintivi di un’epoca in cui il capitale approfondiva il suo dominio facendosi definitivamente cosmopolita. Il tempo sembrava davvero avere annichilito lo spazio.

Paiono in fondo, tanto più scrivendo mentre la guerra infuria in Ucraina, parole maturate in un tempo definitivamente trascorso. Ed è bene sottolineare che già dopo l’11 settembre e l’inizio della “guerra globale al terrorismo” quell’immagine della globalizzazione (e dunque del capitalismo contemporaneo) è stata messa radicalmente in discussione da molteplici punti di vista. L’originalità del lavoro di Into the Black Box consiste precisamente nel fatto che continua ad assumere l’elemento di accelerazione temporale a cui Marx fa riferimento nel citato passo dei Grundrisse come carattere distintivo del capitalismo contemporaneo, senza tuttavia derivarne l’annichilimento dello spazio. Al contrario lo spazio (tutti gli spazi) è investito per via di quell’accelerazione da potenti processi di trasformazione, lacerazione e riorganizzazione che continuano a farne una variabile fondamentale delle operazioni contemporanee del capitale. Quel che ne deriva è un’immagine del globale profondamente originale, a cui consegue una fondamentale indicazione di metodo: i processi globali di riorganizzazione dello spazio devono essere assunti come necessaria cornice per l’intervento e la “conricerca” all’interno degli stessi contesti più “locali”.

All’origine del lavoro di Into the Black Box, del resto, c’è un ciclo di lotte operaie che si è sviluppato dall’inizio dello scorso decennio in uno specifico contesto “locale”: le lotte dei facchini nei magazzini della logistica in Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. Nel mio personale “montaggio” degli scritti raccolti in questo libro, quelli dedicati a quelle lotte vanno senz’altro letti per primi. È del resto ai cancelli degli interporti che i membri del Collettivo Into the Black Box si sono incontrati, prima di confrontare le loro analisi in ambiti di dibattito accademico, in Italia e altrove nel mondo. Nei picchetti si parlavano lingue diverse (gli operai della logistica erano in buona misura migranti), i primi tentativi di disegnare le rotte seguite dalle merci che transitavano nei magazzini ponevano capo a geografie intrecciate e inattese, luoghi consueti vi occupavano nuove posizioni. Non è eccessivo dire, si legge nel Prequel, “che davanti a noi si aprì un mondo”. È questo mondo che negli anni successivi Into the Black Box ha continuato a indagare, mantenendo una essenziale focalizzazione sulla logistica.

Come si legge in diversi capitoli del libro, attorno alla logistica si sono andati accumulando negli ultimi anni studi critici profondamente innovativi. A lungo oggetto esclusivo di analisi da parte di militari, studiosi del management, tecnici e ingegneri, la logistica è oggi al centro di un dibattito che ne ha definitivamente contestato la pretesa di “neutralità” e che ne ha fatto emergere la natura di forza essenziale al cuore dei processi globali contemporanei – il suo definirne la “costituzione materiale”. Into the Black Box si inserisce con autorevolezza in questo dibattito, tra l’altro combinando un originale lavoro storico di ricostruzione delle origini della logistica moderna con l’analisi delle sue operazioni contemporanee. Non è qui necessario dare conto nel dettaglio dei risultati di questa ricerca (lo fanno egregiamente le pagine che precedono). Più rilevante è sottolineare che il lavoro sulla logistica – che ha condotto Into the Black Box ad ampliare il raggio della ricerca dai magazzini ai traffici marittimi, dal tema delle infrastrutture alle grandi piattaforme digitali – ha da una parte consentito di approfondire lo studio delle coordinate temporali e spaziali dello sviluppo capitalistico contemporaneo, mentre dall’altra ha progressivamente messo al centro della riflessione politica il rapporto tra tecnica, macchine e lavoro. Ma soprattutto ha fatto emergere una categoria molto originale di sguardo logistico, un tentativo – si potrebbe dire – di rovesciare il paradigma della logistica e di guardare il mondo che quest’ultima punta a costruire dal punto di vista degli attriti, delle resistenze e delle lotte che ne costituiscono il tessuto materiale.

Occuparsi di logistica oggi significa occuparsi di digitalizzazione, come è in fondo evidente fin dall’invenzione del container. Le piattaforme digitali, la cui evoluzione deve essere intesa in continuità con gli sviluppi della logistica negli ultimi decenni, determinano tuttavia un salto di qualità. Into the Black Box affronta il tema della digitalizzazione prima di tutto dal punto di vista delle trasformazioni del lavoro, sottolineando il vero e proprio cambio di paradigma nel passaggio dalle macchine industriali al “sistema macchinico” che caratterizza il management algoritmico contemporaneo del lavoro. Senza alcuna euforia, ma anche senza tonalità “tecnofobiche”, il “divenire cyborg della forza lavoro” è qui registrato come una “realtà concreta” che contribuisce a definire il “campo di battaglia strategico” al cui interno si collocano le tendenze di sviluppo del capitalismo digitale. C’è qui, mi pare, un’indicazione fondamentale per le lotte a venire, che dovranno necessariamente disporsi a intervenire sul terreno del “sistema macchinico” che, lungi dal caratterizzare soltanto le operazioni delle piattaforme digitali, si sta diffondendo in modo sempre più pervasivo nelle nostre società. Del resto, a chi indirizza le proprie operazioni il management algoritmico? Omnes et singulatim, potremmo rispondere citando il titolo di un noto saggio di Michel Foucault. In altri termini: il management algoritmico disciplina il singolo lavoratore nel momento stesso in cui ne organizza la connessione con tutti gli altri – ovvero la cooperazione. La logistica, si legge in un passo particolarmente importante di questo libro, “si muove sull’ambivalenza tra frammentazione e connessione della forza lavoro”: è una fondamentale indicazione di metodo, tanto per la ricerca quanto per l’azione politica, considerato che l’individuazione dei punti in cui l’articolazione tra i due piani indicati può essere sottratta alla scienza del comando e rovesciata in una politica di classe costituisce una delle poste in palio cruciali della “conricerca”.

In questo libro, come già si è detto, è costante l’attenzione agli attriti, alle resistenze e alle lotte che scandiscono le operazioni della logistica. Percorsi di sindacalizzazione, di sabotaggio, di coinvolgimento comunitario, sperimentazioni sul terreno del “cooperativismo di piattaforma” e del “socialismo 4.0” vengono descritti e vagliati tanto empiricamente quanto teoricamente. Le lotte nei magazzini si incrociano con gli scioperi metropolitani dei rider (particolarmente durante la pandemia), a definire una ricca fenomenologia di “lotte nella circolazione” il cui rilievo è evidente se si assume l’ipotesi che la logistica, intesa in senso lato, occupi oggi una posizione essenziale nel capitalismo nel suo complesso. D’altro canto, l’ipotesi di Into the Black Box, non è che assistiamo a un semplice rovesciamento dei rapporti tra circolazione e produzione, ma piuttosto che entrambe queste “sfere” si stiano trasformando profondamente – come mostrano ad esempio i riferimenti alla “riproduzione sociale” sulla scorta della critica femminista delle piattaforme. Anche qui, dunque, il problema è quello della “connessione” delle lotte, muovendo da un’analisi della composizione del lavoro vivo che delle trasformazioni indicate deve farsi carico. E si tratta di ragionare sugli spazi politici che sono necessari perché questo lavoro di “connessione” possa avere successo. Come combinare lotte sul lavoro e nella società con la costruzione di una nuova civitas aperta al mondo (tema fondamentale in un tempo di guerra) è una delle domande fondamentali che questo libro ci consegna.

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