Di SANDRO MEZZADRA e BRETT NEILSON

Sono passati due anni dal 24 febbraio 2022, dall’invasione russa dell’Ucraina. Doveva essere una guerra lampo, da concludere con la presa di Kiev e con un cambio di regime orchestrato da Vladimir Putin? Non è forse così importante dare una risposta a questa domanda. Il fatto è che la guerra è proseguita, combinando immagini arcaiche (la guerra di trincea) con i voli dei droni e l’impiego da parte degli ucraini della rete satellitare Starlink di Elon Musk, spettacolari sabotaggi (del ponte di Crimea e dei gasdotti Nord Stream) e bombardamenti delle città e delle infrastrutture. La guerra in Ucraina è stata anche un formidabile laboratorio per l’industria delle armi, un’occasione per “rottamare” e rinnovare gli arsenali per i Paesi coinvolti nonché per mettere alla prova nuove tecnologie e strategie militari. Il tutto, come sempre nelle guerre, al prezzo del massacro di migliaia di corpi e della distruzione di città e ricchezza, a prefigurare il grande business della ricostruzione dell’Ucraina.

Non solo la guerra è proseguita. Dopo l’“offensiva ucraina” della scorsa estate sembra essersi assestata in una fase di “stallo”, come aveva del resto previsto già nel novembre 2022 Mark Milley, Capo dello stato maggiore congiunto dell’esercito statunitense. In questi due anni la resistenza dell’esercito ucraino all’invasione russa ha certo potuto contare su un diffuso appoggio popolare, ma nella cornice dominante di un nazionalismo sempre più esasperato, coerentemente del resto con una tendenza che è ben lungi dall’essere limitata all’Ucraina. In Russia, d’altra parte, la sostanziale tenuta dell’economia e del consenso per il regime di Putin ha impedito aperture significative sul piano democratico e della mobilitazione sociale, consolidando un pervasivo autoritarismo (che certo non avrebbe messo in discussione Prigožin se la sua sollevazione avesse avuto successo). Lo stallo della guerra agevola questi processi, e per quanto riguarda l’Ucraina è come raddoppiato dalla prospettiva di un’adesione all’Unione Europea i cui tempi sono incerti e saranno comunque molto lunghi, così come quelli della ricostruzione.

Conviene assumere proprio questo stallo come angolo visuale privilegiato sul significato della guerra. In questi due anni, molte cose sono cambiate sul piano della politica mondiale, e gli avvenimenti in Ucraina hanno rappresentato la cornice generale in cui questi cambiamenti si sono verificati. All’indomani dell’invasione russa, avevamo scritto che la guerra appena cominciata era una guerra europea (per ragioni storiche e politiche) che tuttavia toccava il centro del sistema mondiale. Con questa affermazione, intanto, ci riferivamo al fatto che poneva direttamente di fronte potenze nucleari come la Russia e gli Stati Uniti, mentre sullo sfondo si stagliava il profilo della Cina. La retorica della “nuova guerra fredda”, che circolava da qualche anno in Occidente, sembrava trovare una minacciosa verifica, in una condizione che a partire dalla crisi finanziaria del 2007/8 ci sembrava caratterizzata da un multipolarismo centrifugo e potenzialmente conflittuale.

La guerra in Ucraina ha rappresentato una svolta in questo senso, in primo luogo in quanto ha impresso un’accelerazione alla diffusione di un regime di guerra ben al di là dei Paesi belligeranti. Con questo termine, ci riferiamo a processi di militarizzazione della politica e dell’economia che, nel segno di un pervasivo riferimento alla “sicurezza nazionale”, si possono osservare in molte parti del mondo. La corsa al riarmo e il cambiamento di composizione della spesa pubblica (di cui abbiamo molti esempi anche in Europa) costituiscono tanto l’esito quanto il presupposto di questi processi, in cui le dimensioni “geopolitiche” si intrecciano inestricabilmente con quelle “geoeconomiche”. La guerra si installa al centro della globalizzazione capitalistica, nella misura in cui il conflitto riguarda l’organizzazione dei suoi spazi, o, se si vuole, l’organizzazione politica del mercato mondiale in una congiuntura in cui l’egemonia degli Stati Uniti appare in crisi ed è sfidata dall’emergere di nuovi attori (dalla Cina alla Russia, dai BRICS al “Sud globale”).

Queste sfide si sono moltiplicate e rafforzate negli ultimi due anni. Al contempo, a conferma di quanto scritto da Raúl Sanchez Cedillo (Esta guerra no termina en Ucrania, Katakrak, 2022), la guerra “calda” cominciata il 24 febbraio 2002 non è rimasta limitata all’Ucraina. In questione non è un nesso diretto con quanto accade a Gaza dal 7 ottobre dello scorso anno, entro un conflitto che come del resto quello ucraino ha radici antiche e irriducibili agli scenari globali appena delineati. Il punto è che questi scenari danno conto di alcune novità e al tempo stesso si modificano alla luce della terribile violenza dei bombardamenti israeliani, con un impatto distruttivo e un numero di morti sconvolgente (oltre 27.000 mentre scriviamo). Per fare soltanto qualche esempio: la difficoltà degli USA nel fronteggiare le azioni del governo di estrema destra israeliano si combina con la crisi degli “Accordi di Abramo” e con l’emergere di nuovi equilibri e attori regionali; il ruolo dell’Iran sembra uscirne rafforzato, mentre l’iniziativa del Sud Africa davanti alla Corte di giustizia dell’Aia è ampiamente percepita come segno di un nuovo protagonismo del “Sud globale”, che punta a riqualificare la funzione delle Nazioni Unite; in Europa e negli Stati Uniti assistiamo a violente pressioni all’allineamento a fianco di Israele mentre la Turchia assume (come già in parte sulla guerra in Ucraina) posizioni dissonanti all’interno della NATO, di cui è un membro fondamentale, rivendicando autonomia strategica.

La guerra a Gaza, del resto, rivela una continuità di medio periodo negli sviluppi globali. Già l’inizio della pandemia da Covid-19 era stato caratterizzato da una crisi delle catene globali di fornitura, di quelle supply chain che costituiscono lo scheletro infrastrutturale dei processi globali. La guerra in Ucraina aveva aggiunto ulteriori dimensioni a quella crisi, in particolare rispetto ai cereali, al gas e al petrolio. Ora, a essere messa in discussione è nientemeno che l’operatività del Canale di Suez, fin dalla sua apertura nel 1867 giuntura essenziale dei traffici tra Asia ed Europa e icona del libero commercio. L’ostruzione del Canale nel marzo del 2021, quando la portacontainer Ever Given vi si era incagliata, aveva in qualche modo anticipato – in piena pandemia – quanto accade ormai da molte settimane, con gli attacchi condotti dagli Houthi (che controllano ormai la capitale e gran parte del territorio dello Yemen) contro le navi in transito nel Mar Rosso, in solidarietà con la popolazione di Gaza. L’effetto sui traffici è devastante, con le principali compagnie di shipping che hanno abbandonato Suez, il conseguente allungamento delle tratte, l’aumento dei prezzi dei trasporti e delle merci e le potenziali ricadute sull’inflazione.

L’esito di un’altra guerra, quella dello Yemen, si combina così con quella in corso a Gaza, moltiplicandone gli effetti di destabilizzazione geopolitica e geoeconomica. La Cina, che pure aveva assunto un’iniziativa diplomatica per porre fine alla guerra in Yemen (che è stata anche un conflitto per procura tra Arabia Saudita e Iran) si trova in una situazione per molti aspetti paradossale, considerato il fatto che la crisi nel Mar Rosso può allontanare dagli scenari “indo-pacifici” l’attenzione e gli assetti militari statunitensi, ma al tempo stesso il commercio cinese con l’Europa passa in buona parte per il Canale di Suez. Le dichiarazioni degli Houthi sul fatto che non intendono colpire navi russe e cinesi sono sintomatiche dei nuovi fronti che si sono aperti negli ultimi due anni, ma non devono apparire rassicuranti a Pechino, dato che attraversare un mare solcato da missili e navi militari in assetto da combattimento è comunque un rischio per i commerci. D’altra parte, è pure difficile pensare che la Cina possa aderire a operazioni a guida occidentale, come “Prosperity Guardian”, o addirittura sostenere operazioni militari come quelle anglo-americane contro gli Houthi in Yemen, all’insegna di quella “libertà dei mari” che fin dalle sue prime formulazioni all’inizio del Seicento è stata un tassello fondamentale dell’espansione coloniale europea.

Sono scenari che sarebbe stato difficile immaginare prima del 24 febbraio 2022. La guerra, lo ripetiamo, è oggi al centro dei processi globali, la diffusione di quelli che abbiamo chiamato regimi di guerra scandisce il ritmo delle trasformazioni del capitalismo, condiziona e limita drasticamente il fronteggiamento della crisi climatica, determina un irrigidimento dei rapporti sociali, a partire dalle linee di dominio di genere e di razza che li innervano. Il nazionalismo si afferma in vecchie e nuove forme, anche in Paesi e movimenti che non hanno alcuna possibilità di governare su base nazionale i processi globali che li attraversano. Di più, il multipolarismo che caratterizza l’attuale situazione mondiale è diffusamente interpretato da governi e forze politiche dominanti secondo la prospettiva di costituzione di blocchi, l’uno contro l’altro armato. Non accade certo solo in Occidente, ma qui viviamo e qui dobbiamo lottare contro questa tendenza: questo significa oggi lottare contro la guerra.

Sotto il profilo dell’analisi, è importante dare conto dell’intreccio tra sviluppi geopolitici e geoeconomici, come abbiamo tentato di fare in questo breve articolo. Dobbiamo rifiutare, però, quel primato della geopolitica che sempre più caratterizza oggi non solo il discorso pubblico, ma anche le posizioni di quanti vedono nella formazione di un “campo” antioccidentale (spesso identificato nel “Sud globale”) l’alternativa su cui puntare. Mentre riconosciamo le opportunità che si aprono nello scenario multipolare, ribadiamo che la vera discriminante per noi è la qualità dei rapporti sociali e politici che prevalgono in ogni Paese e in ogni regione del mondo. E questa qualità è direttamente proporzionale all’intensità delle lotte per la libertà e per l’uguaglianza. L’opposizione ai blocchi e alla guerra non può che partire da qui.

Di fronte all’immane violenza dei bombardamenti israeliani su Gaza, un nuovo movimento si è espresso in molti luoghi, anche in Europa: è un movimento che combina diverse motivazioni, dal rifiuto della guerra alla solidarietà con il popolo palestinese, dall’orrore per il massacro e per l’incipiente pulizia etnica a componenti religiose e financo fondamentaliste. Questo movimento, nella sua complessità, rappresenta comunque il riferimento fondamentale per una politica contro la guerra. Cessate il fuoco, ora è la sua prima rivendicazione. Siamo consapevoli della differenza delle situazioni, e tuttavia come abbiamo cercato di spiegare, c’è un nesso essenziale tra Gaza e l’Ucraina. Cessate il fuoco, ora, a Gaza e in Ucraina è la parola d’ordine – difficile ma necessaria – per un movimento capace di invertire la tendenza globale alla diffusione dei regimi di guerra e di dare nuovamente un senso del tutto materiale alla parola “pace”.

L’articolo è in corso di pubblicazione in tedesco in “medico-Rundschreiben”. Foto di copertina da Flickr.

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