di SANDRO CHIGNOLA1
Pubblichiamo questo testo come primo materiale in vista della costruzione di un dossier e di un seminario europeo sulle – passateci il termine ancora del tutto inadeguato – esperienze di sindacalismo sociale metropolitano che agiscono lungo il crinale vita/lavoro [EuroNomade].
In una recente intervista pubblicata con ampio risalto e immediata diffusione europea sul «Financial Times» («A German union of dogma and pragmatism»), Berthold Huber, ex-presidente della potente IG-Metall, il sindacato dei metalmeccanici tedeschi, mette a fuoco con ammirevole secchezza la posizione della sua organizzazione. La crisi avrebbe definitivamente messo fuori corso il capitalismo delle corporations e implicherebbe perciò la necessità di una ridefinizione generale delle relazioni industriali. A fronte del modello gestionale volto alla semplice e veloce realizzazione di utili da redistribuire tra gli azionisti – il modello anglosassone di shareholders capitalism – vengono rivendicati i meriti della cogestione (Mitbestimmung) alla tedesca, offerti come modello e come monito generale per il sindacalismo europeo. Huber parla innanzitutto, suscitando un compiaciuto brivido di approvazione nel suo intervistatore, della sua esperienza fondativa, quando nei primi anni ’90 viene mandato ad organizzare i lavoratori della IG-Metall nei territori dell’ex DDR. Lì, egli dice, apprende il disastro dell’utopia e la necessità del realismo riformista. Poi ammanisce una lezione che, egli dice, non piacerà ai «sindacati spagnoli» (e, più in generale, a tutte le esperienze organizzative che legano le rivendicazioni salariali al tasso di inflazione, sganciandole, con ciò, dalla «produttività»). Il successo dell’economia tedesca, egli sostiene, non è dipeso da un recupero di competitività favorito dalla compressione dei salari, ma dall’obiettivo, praticato grazie alla contrattazione di impresa, dell’incremento qualitativo e quantitativo della produzione.
Non è strano che questa intervista sia stata rilanciata da giornalisti e bloggers economici anche in Italia. Essa viene realizzata dopo una vittoria significativa dell’IG-Metall – l’aumento delle paghe del 4,3% come veicolo per il rilancio dei consumi interni e come premio per la responsabilità sindacale, un risultato che non si vedeva da vent’anni – e permette un intervento tanto nel dibattito sulla rappresentatività sindacale, quanto nella discussione sull’ancoraggio e il possibile controllo del finanzcapitalismo. Da un lato, sulle ceneri del conflitto tra capitale e lavoro, la cogestione offerta come nuovo modello per le relazioni industriali. Dall’altro, e sempre grazie ad essa, il rilancio di un modello di democrazia partecipativa in grado di sviluppare «dal basso» forme di contrasto allo strapotere delle grandi corporations e di attivare i fondi pensione gestiti dai sindacati (lo suggeriva tra gli altri da noi Luciano Gallino) a funzioni di contrasto della speculazione finanziaria. Per uscire in maniera «equa e duratura» dalla crisi, si sostiene sulla scia di Huber, sarebbe perciò indispensabile introdurre nelle aziende forme di «democrazia economica» che erodano i margini operativi di altre soluzioni, identificate come ultrasindacaliste (o solo conflittuali) e iperpoliticiste (o neokeynesiane), che si propongano di impattare frontalmente la realtà dei processi economici bypassando la partecipazione dei lavoratori alla conduzione d’impresa, esattamente come lo fanno gli iperliberisti che tendono a liquidarne il problema poiché in essa rinvengono soltanto un ostacolo nella competizione di mercato.
Due ricerche europee vengono spesso citate a ulteriore sostegno di quest’ipotesi. La prima, Does good corporate governance include employee representation? Evidence from German corporate boards, è stata condotta sulle aziende tedesche quotate in borsa [«Journal of Financial Economics», 2006]. La seconda, The European Partecipation Index: a tool for Cross National quantitative comparison, è uno studio comparativo dell’ETUI sulle performance dei diversi paesi europei con o senza democrazia industriale [European Trade Union Institute, Ottobre 2010]. Ciò che in esse rileva è che, contrariamente a quanto ritiene chi scatena processi di ristrutturazione volti a marginalizzare le organizzazioni sindacali, non solo la Mitbestimmung non danneggia le aziende, ma essa può anzi offrire un contributo fondamentale allo sviluppo economico e alle politiche di occupazione. Come del resto sostiene Huber, e proprio perché nel modello tedesco, a differenza di quanto avviene in quello anglosassone prevalente in Europa, le aziende non vengono valutate solo per il loro valore speculativo sul mercato finanziario, contratti di impresa, alti salari e limitazione delle forme di lavoro temporaneo e precario sono cose che vanno, o che dovrebbero andare, assieme. E sarebbe proprio questo a rendere la Germania un paese a basso tasso di disoccupazione, con buona protezione sociale e redditi più che dignitosi per i lavoratori.
Vale forse la pena di rammentare brevemente come è venuto strutturandosi il modello tedesco di cogestione che queste teorie vorrebbero mettere in circolazione a livello europeo. Quello tedesco è un sistema duale. Imposto ad una controparte, quella degli industriali, dopo un duro scontro politico agli inizi degli anni ‘50. Esso prevede sia la cogestione (nell’impresa e nel singolo stabilimento) sia la contrattazione collettiva per settori. I lavoratori partecipano alle decisioni delle società attraverso due organi, il Betriebsrat (il consiglio di fabbrica) e l’Aufsichtsrat, (il consiglio di sorveglianza). Il primo viene eletto dai lavoratori nei singoli luoghi di lavoro ed è formato interamente di dipendenti. Il secondo è un organo aziendale composto per metà da rappresentanti della proprietà e per metà da rappresentanti dei lavoratori, che fa capo alla sede centrale. Lo si trova nelle società con più di 500 dipendenti, ossia nelle medie e grandi imprese tedesche, ed è considerato un potente istituto di vigilanza rispetto alla conduzione dell’azienda. La cogestione a livello di impresa ha come fine la supervisione del management. L’influenza diretta dei sindacati sulle condizioni lavorative e occupazionali deriva invece da quella a livello di singolo impianto, regolata dalla legge del 1952, che vale per tutte le aziende con più di 5 lavoratori. Sono tre i principi chiave del sistema. Il primo è che la legislazione tedesca auspica la collaborazione costruttiva tra le parti e fissa il governo in posizione di neutralità rispetto alla contrattazione tra sindacati e associazioni imprenditoriali. Il secondo è che, proprio per il dualismo che sorregge il sistema, i consigli non hanno voce in capitolo sulle materie della contrattazione collettiva che coinvolge invece settori e regioni, ma ne hanno invece, e molta, in ciò che riguarda l’allocazione e l’impiego del capitale umano (riorganizzazioni interne, assunzioni, licenziamenti individuali). Di qui, almeno per gli apologeti di questo modello di relazioni sindacali, il successo per quanto attiene al reintegro dei lavoratori licenziati. Il terzo è che gli scioperi sono autorizzati solo se approvati dalla maggior parte dei membri dei sindacati e solo dopo il fallimento di negoziati e arbitrati. Gli imprenditori possono rispondere con le serrate e non è prevista la possibilità di scioperi «politici» o generali.
Quando Berthold Huber rivendica contro il modello anglosassone di impresa – iconicamente rappresentato attraverso i due principi della redditività immediata e della precarizzazione del lavoro – il modello della cogestione di impresa – sicurezza del lavoro e produttività – sono entrambi gli assi di scorrimento del dispositivo giuslavorista tedesco ad essere valorizzati. Con in più l’implicito del peso che i sindacati tedeschi, attraverso i propri fondi pensione, possono esercitare rispetto alla volatilità della speculazione finanziaria.
Che questo modello «tenga» – e alcune delle prese di posizione dei sindacati confederali italiani sembrano darlo per scontato prima ancora che nel dibattito, nella vischiosa materialità della governance di settori ad alta valorizzazione come quelli della logistica, nella quale essi sono presenti con le proprie cooperative e nei quali la «cogestione» con i loro committenti a discapito di migranti e precari è in qualche modo attuata nelle cose – non è tuttavia facile assumerlo aproblematicamente. E ciò che andrebbe altrettanto problematizzata la distinzione tra shareholders capitalism e capitalismo alla renana, in una fase in cui è la finanza a dettare i ritmi dell’accumulazione. L’aumento dei salari contrattato a livello di impresa comporta in molti casi la compressione dei salari per i lavoratori delle catene di subappalto e fornitura. Lo dimostra, ad esempio, quanto accade nel settore della produzione delle auto. Ad ottobre del 2013 uno sciopero ha coinvolto la Daimler-Benz a Brema per il progetto di outsourcing di parti del processo di produzione (saldatura e presse) della nuova Mercedes classe E. L’esternalizzazione non è stata bloccata e l’aumento dei salari ha finito di fatto con l’essere pagato dai lavoratori della Rhemus che montano i pezzi per la Daimler-Benz. In generale, questo è un processo che coinvolge l’intera industria automobilistica europea. Modelli di fornitura e subappalto simili a quelli sviluppati da H&M o Wal-Mart – con effetti di segmentazione e di gerarchizzazione estremamente radicali progressivamente estesi alla maggior parte della forza lavoro – vengono applicati dagli stessi brand della automobilistica di lusso. Alla BMW di Leipzig, ad esempio, un terzo dei lavoratori sono direttamente assunti dalla BMW, un terzo sono contratti a tempo determinato, un terzo lavorano per oltre venti ditte di subcontractors. Quanto questa situazione impatti il doppio livello della contrattazione dei salari e della condizione di lavoro lo dimostra la difficoltà di tradurre in termini di piattaforme e di mobilitazioni unitarie le differenze che attraversano la composizione di classe. In occasione della chiusura degli impianti Iveco a Weisweil (Freiburg) e della Renault-Trucks a Brühl sono scattati presidi e blocchi che hanno comportato una immediata e forte mobilitazione, rispetto alla quale, però, il ruolo di mediazione della IG-Metall (quanto a reimpiego, riallocazione dei lavoratori, formazione pagata per chi si sarebbe ritrovato disoccupato) si è rivelato ininfluente e, a giudizio di molti, dannoso, proprio per l’aver lavorato sulle linee che dividono lavoratori a tempo indeterminato e occupati nelle forniture.
In Germania il processo di flessibilizzazione del lavoro e di ristrutturazione dei diritti sociali, può forse essere utilmente ricordato allo scopo di contestualizzare l’intervento dei sindacati tedeschi, è stato direttamente organizzato dal pacchetto Hartz. In particolare, con Hartz IV (2005), l’ultimo dei quattro tempi della riforma che in precedenza aveva costruito la serie delle agenzie per il lavoro interinale, previsto mini e midijob come contratti di lavoro atipici e precari a bassa tassazione, affiancato ai disoccupati consiglieri e percorsi di formazione per reinserirli nel mercato del lavoro, viene realizzata una riforma volta a inquadrare e a far emergere le forme di occupazione informale. L’obiettivo è stato quello di assicurare ai disoccupati la possibilità di accedere al mercato del lavoro anche grazie a lavori marginali, creando posti e spazio per le persone poco o non qualificate, non più destinate ai lavori in nero, grazie alla regolarizzazione e legalizzazione del mercato del lavoro. L’indennità di disoccupazione (Arbeitslosengeld I) viene concessa a chi, nei precedenti tre anni, abbia lavorato almeno 12 mesi, versando i contributi e spetta per un periodo di 12 mesi (esteso a 18 per gli over 55), rispetto ai 32 precedenti, in misura del 60% dell’ultimo stipendio netto o del 67% nel caso il disoccupato avesse un figlio a carico. La soglia massima tenuta in considerazione per la retribuzione è pari a uno stipendio di € 4.500 lordi. La riforma Hartz IV, che per alcuni si qualifica come un reddito di cittadinanza, mentre per altri come un reddito minimo garantito, scatta dopo un anno senza lavoro ed è rivolta anche a coloro che non trovano lavoro dopo aver completato il proprio percorso di studi.
Si tratta di una tendenza, questa, che ha coinvolto molti settori. Di recente, la rete ARD – l’equivalente dell’italiana RAI1 – ha messo in onda un documentario estremamente interessante sulle condizioni di lavoro nei magazzini di Amazon in Germania. Amazon recluta lavoratori migranti – in questo caso in Spagna – con la promessa di un lavoro a tempo indeterminato. Poche settimane prima dell’assunzione, tuttavia, attraverso un e-mail la multinazionale comunica ai lavoratori che verranno contrattualizzati da un’agenzia di lavoro interinale, la Trenkwalder, secondo condizioni che, per «motivi di privacy» potranno essere chiarite solo al loro arrivo in Germania. Le assunzioni, non a tempo indeterminato, ma per tre mesi ed effettuate in occasione delle festività per l’incremento di lavoro e la necessità di velocizzare le consegne, vengono effettivamente gestite dalla Trenkwalder una volta che i lavoratori, ormai arrivati in Germania, si trovano costretti ad accettare le seguenti condizioni di lavoro: paghe orarie più basse di quelle promesse, condizioni abitative penose, trasferimenti difficili e faticosi nei quali si prolunga inesorabilmente il tempo di lavoro non pagato, sorveglianza continua da parte di un’agenzia privata di security (legata all’estrema destra, pare) non soltanto durante l’orario di lavoro, ma anche nei residence nei quali i lavoratori vengono acquartierati. Nel centro logistico di Amazon di Koblenz lavorano 3500 persone, delle quali soltanto 200 hanno un contratto a tempo indeterminato. In quello di Augsburg lavorano nel periodo di Natale 5038 persone e anche in questo caso solo 1038 di esse hanno un posto fisso. Centrale è in Amazon – secondo modalità che tornano anche in Francia (a Saran, Montélimar, Sevrey e in un prossimo futturo a Lauwin-Planque) – il ruolo di mediazione delle agenzie di lavoro interinale per rispondere ai flussi intermittenti di lavoro e alle sue accelerazioni. Qui, la flessibilità estrema, tuttavia, si unisce a una drastica gerarchizzazione e a un feroce controllo.
In Germania, il sindacato Ver.di. monitora da tempo Amazon e cerca di sviluppare forme di organizzazione dei lavoratori. Le condizioni di lavoro in Amazon sono molto dure (si veda l’inchiesta di Jean-Baptiste Malet, En Amazonie – un infiltrato nel “migliore dei mondi”, Kogoi 2013). Un processo industriale informatizzato con alti standards tecnologici organizza e sincronizza la fatica di squadre di facchini e operai (Inbounds) che ricevono e che stoccano nei magazzini i prodotti che arrivano su gomma ai centri di smistamento, e degli addetti al prelevamento e all’imballaggio (Outbounds) che preparano e organizzano le spedizioni. Ogni turno di lavoro è preceduto dall’esposizione degli obiettivi di produttività. I turni ruotano sull’intera giornata di produzione e sono tre: dalle 5:50 alle 13:10; dalle 13:40 alle 21:00; dalle 21:00 alle 4:50. Le pause, due, di venti minuti, sono solo in parte pagate da Amazon. La seconda delle due viene decurtata in busta paga. Allo stesso modo, non pagato è il tempo che il lavoratore deve impiegare per percorrere la distanza tra l’orologio timbratore e i tornelli di entrata e di uscita, nonché il tempo che viene perduto per uno screening del tutto simile a quello che si effettua in aeroporto: il passaggio attraverso uno body scanner, cui i lavoratori vengono sottoposti al tornello di uscita che si attraversa tanto per tornare a casa quanto per andare in pausa. Sul luogo di lavoro, gli addetti alla produzione non possono portare orologi, gioielli, occhiali da sole. E, allo screening, devono rovesciare il contenuto delle tasche. Le funzioni di screening e controllo vengono, anche in questo caso, svolte da una società di sicurezza privata. Una fitta gerarchia di managers reclutata secondo il raggiungimento di obiettivi di produttività prefissati e valutati dal computer organizza, filtra e sorveglia il processo produttivo. Amazon prevede inoltre di trasformare in associates – premiati con una manciata di azioni – i dipendenti più produttivi, contrattualizzandoli a tempo indeterminato. Anche in questo caso, ad uno stretto numero di lavoratori upgraded al rango, anche soltanto simbolico, di cogestori dell’azienda, corrisponde il vasto numero precari e flessibili senza diritti il cui lavoro, migrante e comandato, viene invece reclutato tra i disoccupati della periferia Europea. Che cosa sia l’Europa, quale siano le striature e i cleavages che l’attraversano, le frontiere che al suo interno vengono immaterialmente tracciate dalle differenze di salario e dal riconoscimento di diritti, lo raccontano anche le storie dei lavoratori spagnoli in Amazon.
Il sindacato Ver.di è intervenuto in Amazon cercando di organizzare i lavoratori in una piattaforma rivendicativa volta a ottenere salari all’altezza delle altre compagnie di spedizione tedesche. Numerosi scioperi hanno bloccato la produzione nei magazzini attorno a Natale. Ed è stato proprio sfruttando le leggi sulla cogestione che Amazon ha potuto adoperare tecniche antisindacali all’americana dividendo i lavoratori e spingendo – in Germania tutti sono convinti sia stata un’iniziativa diretta del management di Amazon – un migliaio di lavoratori a firmare una lettera contro le iniziative di Ver.di. Opporre il core dei lavoratori a tempo indeterminato alla fluida massa del lavoro migrante flessibile e precario è una tattica che paga e ancora recentemente i sindacati IG-Metall e Ver.di hanno dovuto prendere posizione – in alcuni casi con qualche ambiguità e con tensioni interne – a favore dell’immigrazione, specie se qualificata, in un dibattito che vede, nel procedere della crisi, un arroccamento generale in difesa del lavoro nazionale. Nel nord della Germania una parte di Ver.di ha sostenuto con un appello l’iscrizione al sindacato dei rifugiati di «Lampedusa ad Amburgo» nonostante il loro status non fosse (o ancora non sia) quello di lavoratori occupati (o occupabili) sul territorio nazionale (si veda il documento: Migrationskontrolle ist nicht unser Geschäft! Für eine ver.di-Mitgliedschaft unabhängig vom Aufenthaltsstatus! Diffuso il 12 Dicembre 2013 ad Amburgo).
La questione delle migrazioni incrocia potentemente, in Germania, quella dell’organizzazione sindacale del lavoro. Essa marca una frontiera che a sua volta attraversa quella tra lavoro a tempo indeterminato e lavoro precario. La NGG (il sindacato Nahrung, Genuss, Gaststätten) che organizza i lavoratori nei mattatoi ha affrontato a sua volta le pessime condizioni in cui versano i lavoratori migranti occupati nei macelli della Bassa Sassonia e in altri Länder periferici. La vertenza per il contratto collettivo e il salario minimo ha dovuto affrontare l’ostilità che le organizzazioni di destra fomentano contro l’immigrazione dall’Est europeo da dove provengono molti dei lavoratori, ma sembra procedere verso un esito positivo.
Un esito positivo lo ha conseguito Ver.di. nel pubblico impiego. Dopo un duro contenzioso con le amministrazioni locali, regionali e dello Stato che, a fronte di una richiesta di aumento salariale del 6,5 % da parte del sindacato offriva la metà, i lavoratori hanno conquistato un aumento di fatto del 6,3 % spalmandolo sui prossimi due anni. Frank Bsirske, leader di Ver.di, ha giudicato il risultato una conquista «considerevole e rara» non solo per quanto riguarda il salario, ma anche per altri aspetti della vertenza. Non solo i giovani dopo la qualifica potranno aspirare ad un’assunzione a tempo indeterminato nella pubblica amministrazione, ma, e la cosa è interessante, i datori di lavoro contribuiranno alle spese di trasporto che essi dovranno affrontare per la frequenza delle scuole professionali nelle quali verranno formati durante gli anni di apprendistato. Come nel caso di Amazon, ma in questo caso con esito differente, la questione della mobilità e la valorizzazione del tempo di vita come tempo di lavoro, si dimostra in qualche modo centrale. Per le amministrazioni pubbliche, in gran parte deficitarie, l’accordo rappresenta uno sforzo enorme. Molti rappresentanti dei datori di lavoro temono, come conseguenza, un’ondata di privatizzazioni e tagli al personale. Il ministro federale degli interni, Hans-Peter Friedrich, nella conferenza stampa comune dopo l’accordo ha tuttavia potuto riconoscere nei lavoratori i vincitori della trattativa: «noi apprezziamo il loro impegno e vogliamo retribuirlo in modo adeguato», egli ha detto. Ribadendo come l’ambito dei servizi pubblici vada difeso dalle privatizzazioni.
Non è facile trarre da queste esperienze una sintesi. Certo, le linee di conflittualità che attraversano l’«Europa alla tedesca» attraversano la stessa Germania. Linee di frattura tra lavoro garantito e lavoro precario, dumping per abbattere il costo del lavoro, crescente rilevanza di lavoro migrante e lavoro temporaneo, differenze radicali tra organizzazioni sindacali che fanno leva su cogestione e contrattazione aziendale e organizzazioni che cercano di reinventarsi nel solco della nuova composizione del lavoro vivo, tracciano e ritracciano continuamente lo spazio europeo. Difesa del lavoro «nazionale» e apertura delle organizzazioni sindacali a migranti indipendentemente dallo statuto professionale segnano una contraddizione esplicita che si rende ancora più acuta se si valuta il ruolo che i fondi pensione (in particolare quelli gelosamente custoditi dai sindacati tedeschi) svolgono rispetto all’accumulazione del capitale finanziario e ai processi di investimento che governano il debito e spingono le migrazioni in altre aree d’Europa. In molti casi la contrattazione collettiva si demoltiplica a livello di impresa. In altri, le lotte non sono in grado di aggredire il problema della traduzione che permetta di reinventare un profilo generale delle rivendicazioni in grado di trasmetterle al di fuori dei singoli settori. Anche in Italia, del resto, le lotte nei circuiti della logistica nel Nord, spesso additate come esemplari in Germania, non si sono ancora dimostrate in grado, nonostante la loro indiscutibile rilevanza e i successi materialmente conseguiti, di generalizzarsi al punto di tracciare linee di significativa innovazione. L’organizzazione del lavoro ha davanti a sé il compito di abbattere la frontiera che separa garantiti e precari, operai nazionali e migranti, tempo di vita e tempo di lavoro. Essa deve affrontare il nodo dell’invenzione di una conflittualità che non sia solo vertenziale e che si dimostri in grado di spingersi oltre le mura della fabbrica per estendersi agli ambiti della mobilità e alla formazione. E ancora: che sia capace di rimettere in discussione il ricatto del debito come strumento di governo e l’estrattività del capitale finanziario come istanza di cattura della cooperazione sociale. In questa prospettiva, il riferimento alla cogestione (il pragmatismo di un patto dei produttori in grado di garantire nello stesso tempo occupabilità e produttività e di muovere oltre il conflitto) tenderà a diventare un riferimento importante e sempre più presente nella discussione europea. Anche se esso si alimenterà della divisione tra garantiti e precari. Mentre il modello Ver.di (l’intervento nel conflitto, l’apertura di vertenze in grado di rompere i confini tra garantiti e precari, tra lavoratori e singolarità, per reinventare la cittadinanza e per politicizzare il confronto sulla mobilità e sulla formazione) potrà forse aprire spazi di confronto, se non si pretenderà di assumerlo e tradurlo così com’è.
Molte di questi problemi affiorano nella discussione dei compagni tedeschi. La reinvenzione di un sindacato sociale europeo procede di qui. Per questo continueremo a raccogliere e a produrre autonomamente materiali di riflessione e di inchiesta. L’Europa è per noi uno spazio di conflitto e di politicizzazione: percorrere le esperienze che lo attraversano è la condizione preliminare per poterlo ridisegnare e restituire dal basso.
Hanno collaborato Luigi Emilio Pischedda e Giulia Valpione. Thanks to Thomas Seibert, Lars Stubbe. ↩