Di ALI ZOKAEI

Dopo l’assassinio di Ismail Haniyeh, tutti i media parlano dello scoppio di una guerra regionale su vasta scala. Non è la prima volta che i media pubblicano notizie del genere: dopo l’omicidio di Qassem Soleimani e il bombardamento del consolato della Repubblica Islamica in Siria si è creata un’atmosfera molto ambigua. Ma il problema è che dobbiamo guardare a questa situazione da un punto di vista diverso. Siamo al di fuori della dicotomia pace-guerra e tutte le strategie politiche basate su regimi di guerra permanente sono sempre multipolari e senza un centro, permettendo di modulare la formazione dei governi in base alla durata e alle diverse fasi all’interno di questi regimi di guerra. Per questo motivo, l’attuale situazione bellica non è leggibile attraverso i canoni della guerra tradizionale, configurandosi piuttosto come un’espansione di conflitti pregressi e reazioni innestate sulle infinite guerre contemporanee.

I campisti e discorsi di sicurezza

Dopo il 7 ottobre 2023, le forze del cosiddetto “asse della resistenza” hanno inizialmente voluto celebrare la loro vittoria militare ma, dopo la reazione di Netanyahu e il massiccio massacro che ne è conseguito, l’invasione della Striscia, la distruzione delle città, e l’esodo della popolazione, sono stati costretti a ritirarsi. Ma questa infinita violenza organizzata per l’egemonia nella regione non ha ridotto la loro implicazione nella guerra permanente. Piuttosto, insistono più che mai sulla prosecuzione di una guerra su vasta scala e si sono posti l’obiettivo di continuare questa situazione di guerra con pazienza strategica. E, naturalmente, questo allungamento del tempo nella situazione di guerra contemporanea porta con sé questioni di genere, di classe, ambientali, ecc., per le quali la militarizzazione delle forze dell’asse della resistenza e dei governi militaristi riproduce le oppressioni ad esse collegate. In questo senso i cosiddetti pensatori dell’“asse della resistenza” sopprimono le nuove forme di movimento per la libertà nel Medio Oriente attraverso teorie securitarie e belliciste, fondando la loro politica sull’emergenza bellica continua.

Queste forze agiscono nelle guerre contemporanee attraverso il “multipolarismo centrifugo e conflittuale”[1]e riproducono tutte le sofferenze e le crisi da essa causate. Esse essenzialmente sopprimono i movimenti libertari e centristi che potrebbero rappresentare potenziali di solidarietà transnazionale e internazionalista. Il loro strumento principale è la guerra. Ma la guerra si produce nello stesso modo in cui si produce l’attuale mondo multipolare. Non è quindi necessario che si espanda dal punto A (guerra) al punto B (pace) o viceversa, ma può riprodurre costantemente l’aura di guerra all’interno di una situazione eccezionale permanente.

Tutto ciò è alimentato anche dai mercati globali, dalla corruzione finanziaria e dalla corsa agli armamenti o, nell’esempio dell’Iran, dall’indebolimento del potere produttivo della società, perpetrato attraverso la repressione delle donne e dei lavoratori nel regime di emergenza permanente; lo stesso discorso vale per la crisi finanziaria che ha causato il collasso dell’economia libanese nell’ultimo decennio e ha portato allo scoppio di numerose rivolte popolari contro gli Hezbollah libanesi.

Come abbiamo visto, il regime di guerra permanente porta alla repressione delle ribellioni che nascono all’interno di queste crisi da parte dei poteri centrifughi e multipolarizzati. Ora, come si è detto, questa repressione è diretta. Ma il punto è che i discorsi securitari del cosiddetto “asse di resistenza” collocano questa centrifugazione e multipolarizzazione della guerra permanente in una logica campista, abbracciano il capitalismo solo nel suo metodo di accumulazione nazionale e, comunque, pongono le relazioni militari prima di tutte le altre forme di politica, mettendosi insieme. Ora, va detto, l’“Asse della Resistenza” è colpito proprio dalle stesse forze centrifughe della guerra permanente e dell’attuale multipolarizzazione che hanno plasmato le relazioni di potere contemporanee. E quindi si può dire che questa forza non è, di fatto, contro il sionismo e il governo di Netanyahu, ma fa parte delle forze alleate con Israele nella repressione della società e nel plasmare il regime di guerra mondiale. Ciò che resta dietro questi discorsi è la distruzione di Gaza, l’eliminazione della popolazione, la morte, la povertà, mentre la grave inflazione causata dalle minacce finanziarie dell’Occidente contro la Repubblica islamica e il Libano incide pesantemente sui mezzi di sussistenza della popolazione e perpetua l’oppressione di classe.

Macchine da guerra

La macchina da guerra contemporanea lavora per riprodurre l’oppressione di classe, l’oppressione di genere, l’enorme flusso di rifugiati in diversi paesi, ed è fondamentalmente basata sull’egemonia capitalista e sull’ordine del mercato globale. Per questo motivo si dispiega con differenti velocità, tenendo in scacco la società attraverso il regime di guerra permanente, al fine di prevenire l’emergere di qualsiasi rivolta contro il capitale globale. La guerra permanente in Medio Oriente segue la logica della riproduzione del capitale e offre la possibilità ai governi di portare avanti la multipolarizzazione del potere. In questo senso, le espressioni “severa vendetta” o “onesta promessa”, spesso pronunciate da Khamenei, non servono ad altro scopo se non a perpetrare la guerra per giocare la partita tra la Repubblica islamica e Israele. Anche lo spazio e il tempo sono diventati terreno di contesa, rendendo difficile l’azione delle forze che dovrebbero svolgere un ruolo deterrente in questa situazione di guerra. Come mostrano le metafore utilizzate, la lotta tra Netanyahu e Khamenei riguarda anche il “tempo”. Gli israeliani vorrebbero che la guerra si allargasse fino a Teheran, o come dicono loro, fino alla “testa della piovra”, ma la Repubblica Islamica di Iran, tuttavia, agisce per prolungare il confronto in maniera lenta ed erosiva: Netanyahu ha fretta e Khamenei, anche se ha pubblicamente gridato alla “vendetta” per Ismail Haniyeh, paventando dure reazioni, vuole prolungare il corso degli eventi. Più promette “dura vendetta”, più sostiene la cosiddetta “pazienza strategica”. Anche se i venti di guerra svolgono un ruolo deterrente per i governi e i loro rapporti economici, sono già nello stesso rapporto centrifugo per cui qualsiasi azione può dare inizio a un caos mortale. Pertanto, qualsiasi possibilità diplomatica è intrappolata dentro questi venti di guerra. Ad esempio, Ismail Haniyeh ha ripetutamente promosso la pace ma la macchina da guerra israeliana non vuole essere inclusa nel processo del cessate il fuoco, perché Netanyahu ha interesse a riprodurre continuamente il regime di guerra. D’altronde gli attuali rapporti multipolari non consentono di domare il fuoco. Da un lato l’opposizione in Israele manifesta contro Netanyahu, dall’altro diverse forze e organizzazioni non riconosciute da un punto di vista formale dal governo iraniano (ma da esso sostenute) combattono contro Israele un conflitto di lunga data.

Questi fattori ci rendono chiaro che nemmeno un cessate il fuoco potrà spegnere il regime di guerra permanente.

Questo perché Ansarullah nello Yemen, gli Houthi, Hamas, Hezbollah stanno riproducendo l’attuale regime di guerra così come Israele stesso, sostenuto dall’Occidente, in una spirale che difficilmente potrà lasciare spazio a un effettivo cessate il fuoco e a una pace duratura e solida.

Piuttosto, solo i metodi di normalizzazione possono essere in grado di calmare l’attuale regime di guerra, non a lungo termine, ma solo tatticamente, perché la geopolitica e l’attuale regime di guerra multipolare si alimentano già dall’interno della guerra, degli antagonismi statali, ecc.

E questo a condizione che ciascuno di essi partecipi in modo eterogeneo all’ordine mondiale del capitale. Questa situazione ha precisamente trasformato il mondo unipolare (imperialismo unico) in un mondo multipolare. «Lungi dal celebrare il multipolarismo, quest’ultimo è per noi la forma, non sappiamo se transitoria, in cui si sta riorganizzando un capitalismo che continua a essere attraversato, caratterizzato e costituito da molteplici processi globali.»[2].

Pertanto, secondo l’argomentazione che Michael Hardt e Sandro Mezzadra seguono nel loro ultimo articolo, si può dire che le macchine da guerra sono strumenti per plasmare il regime globale di guerra, che si sta diffondendo in modo sfrenato su tutti i livelli: «[p]roponiamo il concetto di “regime di guerra” per afferrare la natura di questo periodo. Il concetto di regime di guerra può essere compreso, innanzitutto, in riferimento alla militarizzazione della vita economica e al suo crescente allineamento con le esigenze della “sicurezza nazionale”. Non solo la spesa pubblica è destinata agli armamenti, ma lo sviluppo economico nel suo complesso, come scrive Raúl Sánchez Cedillo, è sempre più plasmato da logiche militari e di sicurezza. Gli straordinari progressi dell’intelligenza artificiale sono in gran parte alimentati da interessi militari e tecnologie per applicazioni belliche»[3].

Abbiamo visto come la questione degli investimenti e il collegamento dei finanziamenti per gli armamenti e l’aumento delle macchine da guerra nella regione del Medio Oriente, dalla completa soppressione della società con il pretesto della sicurezza, elimini ogni obiezione alle crisi, e neghi l’esternalizzazione di qualsiasi tipo di sistema di welfare, ambientale, ecc. Allo stesso tempo assistiamo al saccheggio economico come al rafforzamento dei sistemi militari. Tutte queste questioni sono state messe al centro dai manifestanti nelle recenti rivolte in Iran. Il costante processo di impoverimento della società iraniana ha prodotto slogan contro la militarizzazione, che deruba la ricchezza collettiva e spende in guerra e armamenti. In questo senso, la militarizzazione e la guerra non sono più una chiara espressione dello Stato-capitale ma sono piuttosto, nella nostra situazione attuale, una forma di governo capitalista e non possono essere distinte l’una dall’altra. In effetti, il problema della guerra permanente è il progetto di governo attraverso la riproduzione di crisi, caos e oppressione. Per questo motivo, il flusso economico e di classe non può essere esaminato separandolo dall’attuale regime di guerra: «L’intima relazione tra guerra e circuiti del capitale non è certo qualcosa di nuovo. La logistica moderna, in particolare, ha una genealogia militare che affonda le sue radici nelle imprese coloniali e nella tratta atlantica degli schiavi. Tuttavia, l’attuale congiuntura globale è caratterizzata dalla crescente compenetrazione di “geopolitica” e “geoeconomia”, in un continuo processo di composizione e scomposizione degli spazi di valorizzazione e accumulazione del capitale, che si intersecano con la contestata distribuzione del potere politico in tutto il pianeta»[4]. Per questo motivo la guerra non ha più nemmeno il ruolo di calmare e moderare le crisi capitaliste, in questo senso la guerra stessa è il capitalismo contemporaneo.

Militarizzazione e riproduzione delle oppressioni

Non è sbagliato affermare che lo stato di guerra permanente e di multipolarizzazione centrifuga riproduce, rafforzandole, guerra esterna e guerra interna: si pensi ai giorni successivi agli attentati al consolato della Repubblica Islamica a Damasco. Allo stesso tempo, la Repubblica Islamica, attraverso la polizia morale, ha imposto una guerra alle donne e alle soggettività non conformi ai dettami del regime e ha continuato la guerra contro le donne, gli attivisti, ecc. in varie forme, dalla reclusione alle condanne a morte. In molti momenti della storia, gruppi militari statali e non statali hanno represso i movimenti sociali e intensificato le gerarchie di oppressione. In questi casi, la sottomissione si diffonde, le lotte di classe si indeboliscono e i movimenti sociali vengono repressi dall’interno e dall’esterno.

Pertanto, le correnti militari impongono sempre nuove gerarchie sociali alimentando il nazionalismo e l’identità (per esempio nel caso di Israele), il fondamentalismo e l’identità religiosa, il patriarcato, ecc., e quando sono impegnate in una guerra, iniziano a reprimere l’opposizione, i lavoratori, ecc. Questo è il motivo per cui nel regime di guerra permanente la governance è tale da essere presente sia all’interno del Paese che all’esterno. Lo stato di emergenza permanente permette di attuare la repressione più sfrenata.

Questa logica centrifuga della guerra ha abbracciato tutti i movimenti che lottano contro il dominio, il capitale e l’oppressione, e conferisce loro intensità.

È evidente che quando le macchine da guerra prenderanno il potere, le politiche reazionarie, tutti i tipi di oppressione di genere, l’omofobia, il rifiuto e l’espulsione degli immigrati afghani, ecc. si diffonderanno sempre di più. Come accennato in precedenza, i discorsi securitari “orientati alla resistenza” stanno dando adito a queste politiche reazionarie, che intensificano la guerra di oppressione interna. Le campagne contro la guerra dovrebbero mirare esattamente agli stessi punti multipolari, ad esempio, le campagne in solidarietà con la Palestina dovrebbero allo stesso tempo legarsi a campagne contro l’oppressione di genere e contro il fondamentalismo religioso, per colpire la macchina della guerra alla giusta altezza.

Solo così si può sperare di generare solidarietà fuori dal campo bellicista e alimentare il potere contagioso delle campagne contro la guerra.

I campisti vedono l’origine dell’oppressione e della guerra solo in un polo del mondo, non riuscendo a comprendere chiaramente la diffusione della guerra a diversi livelli.

Per questo motivo, la lotta contro l’apartheid di Israele e l’allontanamento della popolazione di Gaza attraverso le operazioni militari non dovrebbero rimanere intrappolati nella logica stessa della guerra. Difendere il militarismo della Repubblica Islamica e dei suoi delegati fa esattamente questo gioco, rimanendo nel campo bellicista.

Non possiamo sostenere una forza militare che, attraverso il saccheggio economico della popolazione, costruisce e alimenta la guerra, creando allo stesso tempo un regime eccezionale di assenza di diritti civili ed economici per il Baluchistan e le periferie delle città. Se questa forza vuole iniziare la resistenza contro il governo fascista di Israele, l’unico modo in cui vuole farlo è attraverso l’oppressione, alimentando la crisi permanente ed eliminando ogni forma di opposizione e resistenza dal basso. Per questo, nella situazione di “multipolarità centrifuga e conflittuale”, è impossibile immaginare una qualsiasi forma di resistenza alla guerra.

L’unico modo per resistere davvero non può che passare per lotte contagiose dal basso, per migliorare le condizioni di vita e la libertà contro le fazioni dell’attuale regime di guerra.

Per questo motivo, la lotta contro la guerra deve essere anche una lotta contro le oppressioni che hanno dato la possibilità di far emergere questi regimi di guerra: «No alla guerra, no alle spese militari, reddito e salario degni per tutti e tutte, intersezionalità delle lotte: su parole d’ordine semplici ritroviamoci insieme per coniugare – ancora una volta, ma in modo sempre rinnovato – lotta di classe e internazionalismo»[5].

Foto di copertina di Peter Steiner su Pexels. Traduzione dal farsi di Farnosh Rezaei.


[1] S. Mezzadra, B. Neilson, “Per un nuovo internazionalismo. Considerazioni preliminari”: «È quanto proviamo a fare proponendo come concetto per definire l’attuale stato della politica mondiale quello di multipolarismo centrifugo e conflittuale. Ciò che per noi è importante è mettere al centro dell’analisi il processo di formazione dei poli, che sarebbe sbagliato leggere come già costituiti e perimetrati da stabili confini. In questo processo giocano ruoli essenziali non solo gli Stati (quelli “imperiali”, in particolare), ma anche una pluralità di attori capitalistici nonché i movimenti e le lotte sociali».

[2] Ivi.

[3] M. Hardt, S. Mezzadra, “Un regime di guerra globale”.

[4] Ivi.

[5] Ivi.

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