di SIMON LE BON.

I – tempo e luogo.

Qualche giorno fa, in coda sul ponte di Cornigliano (che nonostante la somiglianza con quello di Brooklyn mai qualcuno mi abbia baciato offrendomi la nota gomma), in sottofondo le note di → Love letters in the sand (e qui già anticipo quello che debbo dirvi dato che Pat Boone estrasse tons di plusvalore dal bacino di Elvis), chino sul fatturato, ascoltando una compilation di pseudo punk italiano in memoria del compianto Freak Antoni.
Meditavo sulla Italian Theory.
Non che ci capisca una cippa, ma c’ero e → A proposito di Italian Theory mi consigliava di incazzarmi [PS: se non ho capito male, non farebbero meglio a chiamarlo italian style? Tra l’altro sarebbe anche più trendy e come brand si potrebbe quotare in borsa].
C’era qualcosa che non quadrava nel ricordo e nel mare di melassa e munizioni che fuoriuscivano dal tablet e dal cd.

II – provateci anche voi.

1 – Ascoltate attentamente quanto segue:

Io il sesso
non lo faccio sopra il letto
ma lo vivo sopra il tetto
sulla faccia ti rimetto
il mio vomito mi piaceee
mi fa schifo la tua paceee
c’ho di bello un gran toracee
star seduto non mi piaceee
mentre leggo il mio giornaleee
ho festeggiato un funerale
senza soldi vivo malee
la mia stefani è normale
Se ci trovi un po’ di fiori in questa storia sono i tuoi! (1).

2 – Contestualmente riflettete:

Il nesso antagonista fra rapporti di produzione e forze produttive, tra soggettivazione del dominio capitalista e soggettivazione prodotta dai comportamenti della forza-lavoro sociale si accentua ed è man mano resa drammatica dalla trasformazione dei rapporti di forza dentro questa polarità antagonista. D’altra parte, il capitalismo investe sempre più la vita in termini “estrattivi” di plus-valore quando la società intera, la vita intera, sono diventate produttive – ma su questo medesimo terreno si scorge la tendenza della società produttiva a riappropriarsi di un’autonomia sempre più significativa ed importante. Al contesto biopolitico si oppone così in maniera sempre più evidente un biopotere – e la resistenza si configura, nella tendenza, in termini sempre più autonomi, costituenti ed istituenti (2).

3 – Ne consegue che:

L’avanguardia è alternativa non fa sconti comitiva, l’avanguardia è molto dura e per questo fa paura, Fate largo all’avanguardia siete un pubblico di merda applaudite per inerzia ma l’avanguardia è molto seria (Io) vado contro corrente perché sono demente e sono ribelle con l’urlo nella pelle (3).

Come dicevo, ci pensavo e non capivo. Poi d’un tratto il coro (tratto da qualche quotidiano): Baricco ministro nel governo Renzi?
Seguì un’alluvione di “indiscrezioni” che riguardavano il nuovo piccolo padre e le sue modalità operative, l’adesione intuitiva e agiografica di Rainews, Fazio e Sanremo, Baglioni che imita Lando Fiorini che imita Baglioni, Max Pezzali che vede bene come ministro Jovanotti (e noi che ne avevamo abbastanza di Jovanardi, e con il supporto della Corte Costituzionale ).
Allora tutto mi fu chiaro.

III – perché Lenin è amore e faro di giustizia e libertà (4).

«La dittatura del proletariato, se si traduce quest’espressione latina scientifica, storico-filosofica in un linguaggio più semplice, significa: solo una classe determinata, e precisamente gli operai delle città e in generale gli operai di fabbrica, gli operai industriali, è in grado di dirigere tutta la massa dei lavoratori e degli sfruttati nella lotta per distruggere il potere del capitale, nel processo di distruzione, nella lotta per distruggere il potere del capitale, nel processo di distruzione, nella lotta per assicurare e consolidare la vittoria, nella creazione del nuovo ordine sociale, dell’ordine socialista, in tutta la lotta per l’abolizione completa delle classi. (Notiamo fra parentesi che la differenza scientifica fra socialismo e comunismo consiste unicamente in questo: la prima parola designa la prima fase della società nuova che sorge dal capitalismo, e la seconda, la fase successiva, superiore, di questa società.) L’errore dell’Internazionale gialla “di Berna” sta nel fatto che i suoi capi riconoscono soltanto a parole la lotta di classe e la funzione dirigente del proletariato, mentre hanno paura di andare fino in fondo con il loro pensiero, hanno paura appunto di quell’inevitabile conclusione particolarmente temibile e assolutamente inammissibile per la borghesia. Essi temono di riconoscere che la dittatura del proletariato è anch’essa una fase della lotta di classe, la quale rimane inevitabile finché le classi non sono state abolite, e cambia di forma diventando, nei primi tempi dopo la caduta del dominio del capitale, particolarmente accanita e manifestando forme specifiche (e in effetti, tra finanziarizzazione, Baricco, Renzi, il capitale, pur intonando L’ombelico del mondo ovvero Strada facendo – chiaro richiamo al governo del fare – risulta assai accanito, ndr).
Dopo aver conquistato il potere politico (estinto il potere politico, ndr), il proletariato non cessa la lotta di classe, ma la porta avanti fino all’abolizione delle classi, però, naturalmente, (i) in un altro ambiente, (ii) sotto altre forme, (iii) con altri mezzi.
Ma che cosa significa “abolizione delle classi”?
Tutti coloro che si dichiarano socialisti riconoscono questa meta ultima del socialismo, ma non tutti – siamo molto lontani dalla totalità – riflettono sul significato di questa meta ultima. Si chiamano classi quei grandi gruppi di persone che si distinguono tra loro per il posto che occupano in un sistema storicamente determinato di produzione sociale, per il rapporto (per lo più sanzionato e fissato da leggi) con i mezzi di produzione, per la loro funzione nell’organizzazione sociale del lavoro e, quindi, per il modo in cui ottengono e per la dimensione che quella parte di ricchezza sociale di cui dispongono.
Le classi sono gruppi di persone, l’uno dei quali può appropriarsi il lavoro dell’altro grazie al differente posto che occupa in un determinato sistema di economia sociale.
È chiaro che per abolire completamente le classi non basta abbattere gli sfruttatori, i grandi proprietari fondiari e i capitalisti, non basta abolire la loro proprietà, ma bisogna anche abolire ogni proprietà privata dei mezzi di produzione, bisogna sopprimere tanto la differenza fra città e campagna quanto la differenza tra lavoratori manuali e intellettuali. È un’opera di lungo respiro» [(5): ed è l’unica citazione che inserisco, le altre ve le andate a cercare – La grande iniziativa, V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 29, marzo – agosto 1919, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 373].

IV – fino all’ultimo respiro.

ultimo-live-skiantosIl punk non è mai esistito.
Nel 1976 la parola era in voga da almeno un decennio e individuava tutt’altro (i Pretty Things erano ribelli – ma sarà poi vero? limitiamoci alla musica – fordisti).
Quando Eddie and the Hot Rods (le volte che mi vestivo da mummia mia mamma diceva: quanto sei abelinato) sparigliarono le carte, invero putrescenti, del dualismo zombies west coast (ah: per tutti gli ernestoassante del mondo è uscito il nuovo di David Crosby) – roboanzaprogressive, il dado era già stato tratto.
Rifiuto del lavoro, speranza in un reddito garantito, desiderio di benessere “a prescindere”, informavano i due accordi ripetuti per 1’50” max.
L’accozzaglia di sottoproletari che sputava da Sampierdarena a Pordenone, intendeva l’estinzione dello stato che, si badi – per tutti – era quello socialdemocratico (da Johnny Rotten a Basetta) in salsa british ovvero ligure-tosco-emiliana.

V – il potere costituente.

Quello che rinviene (un po’ come dopo avere mangiato una testa d’aglio anticapitalista) da Lenin a Paul Weller è il formarsi di un potere costituente che informa il movimento (già) operaio (ora) precario nel proprio spiegarsi vivendo e attraverso l’utilizzo scarmigliato della chitarra.
I Sex Pistols cominciarono con le cover degli Small Faces solo perché erano più facili (come nei ’70 nella creative music vi fu un proliferare di dischi “solo” perché costavano meno), ma anche perché l’epopea mods batteva nella memoria e rivestiva il loro essere in un’attitudine pur differente data dall’estinzione della fabbrica.
Probabilmente c’è un (tragico, nella fattispecie) legame tra Tony Blair e il Brit Pop, tra la terza via e gli Oasis, un legame che lega l’abbattimento delle fabbriche a Manchester e la fine del thatcherismo.
Sono i due accordi “precari” e diseleganti che legano la rivoluzione proletaria all’insorgenza precaria delle moltitudini come esigenza di rifiuto dell’appropriazione capitalistica.

VI – il capitale non va mai in vacanza.

E il capitale è lì che ti aspetta.
Non è un caso che il tradimento delle speranze rifondarole fu opera del duo Prodi-Fossati (pare che Prodi riformando l’amministrazione controllata delle grandi imprese in crisi canticchiasse alzati che sta passando…).
Colpire l’eccedenza con la miseria, con la speranza di un portamonete (vuoto) o di una ventiquattrore (come cantava Lolli).
Per ogni camicia a fiori di Nico Di Palo 1000 lagne deandreiane (con buona pace di Don Gallo), per ogni Anthony Braxton 1000 Beyoncé…. colpirne 1 per educarne 100, fosse attraverso marce dei 40.000 (e i “tartassati” di ieri in mostra a Roma facevano rimpiangere Totò e Fabrizi), fosse attraverso la collocazione a tempo pieno del cantautorame nostrano poco importa ( il concertone del 1 maggio resta lì a palesare la vera Great Swindle, altro che il povero Malcom o la tenera Vivienne).
Ma quello di Renzi è un reale balzo in avanti.
Altro che Mao o Billy Bragg.
Renzi con l’evocazione di Baricco, lo sguardo alla chiesa la domenica mattina, la smart (piccola ma fica), il giubbotto in pelle su camicia bianca su busto flaccido, l’utilizzo delle musiche jovano(gro)ttesche (ahh, nostalgia per le sorelle Boccol), Eataly, Diego Della Valle (l’uomo peggio vestito dai tempi di Scelba, l’unico a godere di essere chiamato mr. Tod’s, prova tu a chiamare Kim Jong Un mr. Ciabatta o Signor Mocassino, e comunque l’uso di inserire nella pubblicità amici suoi pretesamente rich and famous, così che l’uno accredita l’altro in un circolo virtuoso di povertà di spirito è dimostrazione imprenditoriale dell’essere Renzi ) porta a compimento l’opera iniziata nei primi ’90 da Amato e Fazio (entrambi, l’imitatore di Minà e il finanziere tarocco).
Ecco qui forse (e se ho ben capito) sovviene l’Italian Theory.
L’ammucchiata benevola e distante tra Prinz e Inti Illimani, il riciclo del peggior Glam italiota, la sostituzione della bandiera rossa con la maglietta fina comportano la pace sociale.
La stessa pace di Dresda la notte del 13 febbraio 1945.
Ma c’è di più.
Sollevare la merda quale orizzonte da contemplare è operazione più fine.
Informa il futuro, inondandolo di passato indolore e smussato.
Si sorride agli ABBA per redigere lo schema di un mondo che si vende, a pezzi.
Si valorizza il passato, che siamo noi (un po’ come la storia di De Gregori che ancora frigna per il 2 aprile del 1976 ) per aggredire il futuro dirigendo la vita precaria nel regime concorrenziale dell’impresa.
Per fare abortire la generazione spontanea del comune, occorre un metro, una misura; e più la misura è ridotta, misera, priva di vita, più è degno antidoto alla soggettivazione precaria.
Si deve essere piacenti, non belli; cantare (anche alla cazzo) non produrre suoni e armonie; vincere e non partecipare.
L’individuo proprietario ha bisogno della solitudine dei lounge bar come del vuoto fraseggio di Galimberti (purtroppo ci siamo scordati solo di Duccio), come del rap di MTV Spit per creare se stesso e rilasciare (ad uso del capitale) il comune che come singolarità produrrebbe.

VII – non esiste creazione di sapere critico al di fuori delle lotte.

(tornando a Vladimiro)
Per fortuna ora abbiamo: (i) un altro ambiente, (ii) altre forme, (iii) altri mezzi.
Però, come allora, a noi invece piacciono i film western, quelli della «crisi», il teatro-provocazione (quando lo è veramente), il rock, i fumetti più illogici possibile, i libri senza martiri ed eroi, la riscoperta del proprio corpo, dell’immaginazione e della fantasia, ci piace il whisky e il comunismo lo pensiamo come una cosa molto lussuosa, dove nessuno starà a piedi nudi su una zolla di terra a sudare piscia e sangue ( 6 ).
E soprattutto: la soggettivazione è produttiva quanto è prodotta. Ma questo rapporto antagonista è “estrattivo”, nei due sensi di quella insolubile dualità che la dialettica negativa propone. Da un lato, il biopotere estrae dall’insieme degli individui la sua ricchezza e la sua legittimità; dall’altro le singolarità, promuovendosi come potenza comune nella cooperazione produttiva, espropriano il biopotere della sua capacità di governo. Qui, dopo cinquant’anni, la filosofia nuova ritorna (oltre ogni orpello della Italian Theory) a chiedersi quale sociologia e quale economia politica possano essere “cassette di attrezzi” per ricostruire – in queste nuove condizioni – una militanza del comune che recuperi e sviluppi la forza sovversiva delle origini – nella formazione del comune ( 7 ).

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Quindi, cari ricchi-baricchi (o rocchibarocchi), anche stavolta per voi non sarà facile.

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