di ANTONELLA FESTA e ROBERTA POMPILI.
Il 26 febbraio Il Parlamento Europeo ha approvato la risoluzione basata sul rapporto presentato dalla deputata laburista Mary Honeyball che, pur non avendo carattere vincolante per gli stati membri, indica le linee guida in materia di prostituzione, individuando come riferimento il cosiddetto modello nordico, cioè quello abolizionista in vigore in Svezia, Irlanda e Norvegia e da dicembre anche in Francia. Il voto sulla risoluzione, con 343 favorevoli, 139 contrari e 105 astenuti, è stato trasversale, perché in linea di massima quasi equamente distribuito tra le fila dei conservatori del centro-destra (PPE) e quelle dei Socialisti e Democratici (S&D)
Non possiamo comprendere le indicazioni politiche del parlamento europeo, se non effettuiamo una analisi della dimensione di genere dentro il piano di ri/produzione dei confini della governance europea e degli stessi confini nazionali.
Il rapporto Honeyball, infatti, assimila prostituzione e sfruttamento sessuale e lega entrambi al genere, definendoli una forma di violenza contro le donne, violazioni della dignità umana, contrarie ai diritti umani e alla uguaglianza di genere.
Mentre pensavamo ingenuamente superate una serie di retoriche abolizioniste – a dire il vero mai del tutto sepolte – incalzate dal protagonismo di sindacati e comitati di diritti delle prostitute, in realtà intorno al tema della prostituzione, come ad altri temi che riguardano vita materiale, corpi, sessualità (vedi legge aborto in Spagna e non solo) si apre un duro e improcrastinabile campo di lotta.
L’entrata in scena della prostituzione migrante, dopo gli anni 90, ha comportato un cambiamento di scenario dovuto alle politiche migratorie e al mutato contesto della globalizzazione. Migrazione e genere, femminilizzazione del lavoro, sono le chiavi che iniziano ad essere utilizzate per leggere un contesto in rapido mutamento. Dentro questo piano, se da una parte si consolida l’idea dentro il dibattito di una parte del movimento femminista che le pratiche prostituzionali possono essere lette attraverso la chiave del lavoro post-fordista contemporaneo, un lavoro emozionale e di cura, d’altra parte è evidente che i confini mettono in scena rapporti di potere (di violenza) per le donne migranti che dettano le condizioni dei rapporti di vita e (e di lavoro). Le donne migranti vengono prodotte e riprodotte, osservano da tempo gli studi femministi postcoloniali: corpi sessualizzati e razzializzati che dovrebbero incarnare le doti femminili della docilità, della disponibilità alla cura, della dedizione a compiacere.
Ma nel dibattito mainstream il discorso sulla tratta e il traffico comincia ad imporsi come egemone, rispetto alle pratiche prostituzionali e, svuotato delle analisi sulle politiche migratorie che determinano i contesti entro i quali esse avvengono, inizia a costruire un piano retorico, quello delle migranti vittime di tratta, mentre il dibattito politico e sui diritti umani si concentra sulle “pericolose”, quanto “generiche” manifestazioni di ineguaglianze di genere globali che sarebbero la causa della tratta e del traffico stesso. Tale spostamento, che coinvolge anche una parte del femminismo liberale, tende a neutralizzare le lotte intorno alle questioni del lavoro, delle migrazioni e della libertà sessuale e riproduttiva attraverso l’assimilazione della prostituzione volontaria con una non meglio specificata “schiavitù moderna” e con la seguente ricollocazione del sex work nel terreno della violenza di genere e dello sfruttamento. L’abolizionismo, che era caduto sotto i colpi di una nuova soggettività e del femminismo emergenti, rientra, nel contesto di un mutato e problematico quadro geopolitico, dalla finestra del discorso umanitario e vittimista.
Il rapporto Honeyball recepisce lo spostamento del dibattito politico sul piano vittimista e della tratta, definendo la prostituzione un cross-border problem che interessa esclusivamente le donne, soprattutto se migranti, e minori, soggetti insistentemente definiti vulnerabili sotto il profilo sociale, economico, fisico, psicologico, emotivo, esposti a violenza più di ogni altra persona impegnata in qualsiasi altro lavoro
Costringere le soggettività, in questo caso quella femminile e migrante, dentro relazioni gerarchiche limita la mobilità non solo fisica, ma anche sociale, configura una strategia di controllo definita ad esempio da Genevieve LeBaron e Adrienne Roberts come strategia della carcerabilità contemporanea. Secondo le studiose, in sostanza, la governance neoliberale si esprime attraverso dispositivi che rinchiudono un crescente numero di soggetti dentro le logiche del mercato neoliberista, nella tensione a contenere le contraddizioni, l’insicurezza e le resistenze generate dalle mutevoli relazioni di produzione e riproduzione sociale. Vittimità, produttività subalterna, genderizzata e razzializzata, e sua regolamentazione rappresentano dunque dispositivi disciplinari che operano a delimitare e rinchiudere le possibilità e le scelte di vita, incatenandole ad un sistema di relazioni fondato sulla disuguaglianza e sulla marginalizzazione delle classi sociali medio-basse e limitando la mobilità sia fisica che sociale. Ne sono riprova le condizioni di vita e di lavoro di gran parte delle migranti impiegate come domestiche che suppliscono alle necessità dei lavori di cura – ai quali sono indirizzate dai programmi di protezione e di assistenza previsti, per esempio, dalle recente legge abolizionista francese – mentre lo stato neoliberale smantella il welfare pubblico.
Ma le indicazioni politiche della governance europea si attestano su un piano decisamente più consistente. Se analizziamo attraverso la lente dei confini (Mezzadra – Neilson) la risoluzione Honeyball riveliamo un potente strumento che si erge nei confronti delle pratiche di mobilità moltitudinarie atto a riprodurre contemporaneamente gli stessi confini e le condizioni che generano rapporti di potere (e violenza) genderizzati e razzializzati: la costruzione di una premessa imprenscindibile per una nuova strutturazione delle soggettività al lavoro e le forme dell’accumulazione del capitale nell’attuale fase.
E’ una straordinaria articolazione di governance quella dell’ordine liberale europeo, che si declina in maniera differente nei diversi paesi, ma sostanzialmente in termini omogenei e coerenti alle funzioni di valorizzazione e violenza del capitale stesso. Il dispositivo politico che entra in scena allude, neanche tanto velatamente, alla costruzione di un modello normativo di genere (razzializzato): il genere diventa un potente dispositivo (una potenziale attitudine) per contenere la potenza della vita e indirizzarla verso un utilizzo compatibile al sistema capitalistico, organizzando gerarchie di potere, alzando barriere e costruendo confini che agiscono come strumenti di controllo della dimensione spazio-temporale e dei corpi stessi.
Che tipo si soggettività femminile entra in scena in questo modo? E dunque che tipo di produzione di soggettività funzionale al capitale? Non c’è solo in ballo una produzione di alterità sostanziale dentro il modello dicotomico bianche occidentali emancipate che scelgono volontariamente l’attività prostituzionale e povere donne degli altri paesi ridotte in schiavitù. Il rapporto Honeyball riconosce e produce le donne come “deboli” dentro il paradigma umanitario, insieme agli “esclusi”, ai “senza”, sussumendole dentro categorie apolitiche e togliendo loro la possibilità di essere soggetto in grado di conquistarsi un avvenire politico (e diritti). Le vittime, infatti, sono fuori dal linguaggio politico, esistono solo dentro il linguaggio tecnico, poliziesco e assistenziale. La negazione di qualsiasi forma di agency, allude ad una condizione generalizzata di vulnerabilità/vittimità femminile. In altri termini, costruisce le donne in quanto soggettività principalmente vulnerabili, premessa indispensabile perché nello scacchiere di una Europa provincializzata il genere (insieme alla razza) possa riprodursi come uno strumento formidabile di captazione, controllo e messa a valore della vita.