di VERÓNICA GAGO E DIEGO SZTULWARK*

In Argentina la crisi del 2001 è una data attuale. Ritorna ogni dicembre da più di un decennio. Come un’immagine che evoca qualcosa molto semplice e al contempo molto potente: la crisi come momento costitutivo e luogo privilegiato della nostra attualità.

Neoliberalismo e crisi continuano a essere, nonostante tutto (ovvero nonostante la destituzione della legittimità delle politiche neoliberali dopo la reazione popolare del 2001 e il tentativo simultaneo di un riformismo statale in buona parte della regione) le variabili che meglio illuminano non solo la nostra attualità, ma anche la traiettoria a contropelo del decennio lungo che ci separa e ci unisce a quella data. In questo senso possiamo dire contemporaneamente: sono trascorsi dodici anni dal 2001 e del 2001. Il 2001 non è solo una data segnata ma il segno dell’immanenza della crisi, la crisi come virtualità sempre presente.

La nostra ipotesi è che il 2001 non sia stato, come suole dirsi, la fine di una tappa caratterizzata dalle resistenze contro il neoliberalismo, ma l’inizio di un’altra nella quale il gioco politico (e certamente quello delle istituzioni politiche) ha assunto come dinamica centrale la produzione di governamentalità. Questa inflessione è dovuta al modo in cui i movimenti sociali, e più in generale l’occupazione delle strade, si sono impossessati della scena pubblica.

Con “produzione di governamentalità” intendiamo un processo complesso, su vari livelli. La governamentalità di cui parliamo permette di comprendere l’inclusione di una buona parte dei movimenti sociali nei dispositivi di governo dei territori, una mutazione che da conto tanto dei mutamenti di quei territori quanto della perdita del ruolo trasformativo degli stessi movimenti.

Ma anche altri importanti livelli della nostra realtà possono forse trovare un’approssimata comprensione nell’ambito della governamentalità (termino che usiamo, soprattutto, nel senso che Foucault ha dato alla governamentalità neoliberale, che non esclude ma piuttosto include il ruolo attivo dello stato). Tra questi altri livelli segnaliamo: la produzione di processi e retoriche statali; l’articolazione del mondo delle finanze con il consumo; l’inclusione del territorio nazionale nel mercato mondiale a partire dall’esportazione di commodities[1].

Questo insieme di elementi deve essere compreso in riferimento alla crisi e all’impulso del mondo popolare, delle sue tendenze all’appropriazione e dell’ambivalenza che caratterizza le forme di consumo legate a quello che abbiamo chiamato “neoliberalismo dal basso”.

A continuazione, esponiamo dunque, brevemente, lo sviluppo di questi elementi nel corso dell’ultimo decennio, non a partire da un registro sociologico-descrittivo, ma in vista di un’urgenza politica pratica: l’emergenza di un nuovo conflitto sociale nei territori e il modo in cui vi si risponde ricorrendo a una duplice morsa: l’installazione crescente di uno scenario di “guerra contro il narcotraffico” e la moralizzazione della politica per mezzo dell’influenza crescente e trasversale della Chiesa, con la rinnovata figura di Papa Francesco.

 

Neoliberalismo e potere destituente

Nella regione, e in Argentina in particolare, il neoliberalismo non riguarda solo un insieme di politiche macroeconomiche sostenute dall’alto, ma suppone piuttosto una rottura durevole a livello della produzione di soggettività, del regime di accumulazione e del campo istituzionale, della stessa forma statale. È con questa immagine che vogliamo discutere il diagnostico di certe sinistre che danno per scontato il carattere esterno di un neoliberalismo che, pur alterando le linee dello sviluppo interno, può essere rovesciato mediante l’interventismo dei cosiddetti governi progressisti della regione.

Guardandolo dal punto di vista del presente, risulta evidente che il neoliberalismo esploso negli anni ’90 aveva cominciato a svilupparsi a metà degli anni ’70, in maniera emblematica durante la dittatura. Nei decenni neoliberali si rende necessario, per le organizzazioni sociali, attivare nuove strategie politiche. Dagli anni ’90 le pratiche di inchiesta militante si sono dedicate a identificare e a sviluppare forme soggettive di resistenza e sollevazione all’interno del neoliberalismo (che è una maniera di dar conto di un movimento che è simultaneamente dentro, contro e oltre). In questo senso, l’inchiesta militante è stata una prospettiva interna a queste resistenze che ha assunto il ruolo di discutere e di problematizzare la relazione tra conoscenza e politica.

La crisi del 2001 si ripercuote, amplificandole, sulle resistenze a livello regionale. Il ciclo di lotte dei movimenti, che la crisi ha visibilizzato, ha mostrato nuovi caratteri di autonomia, aprendo un grande dibattito, pratico e teorico, sul rinnovamento delle forme e delle teorie politiche per pensare la trasformazione sociale, iniziando dalla rivolta zapatista.

Con il passare del tempo, il livello destituente che raggiungono in quel momento le lotte (che destituiscono, effettivamente, la legittimità delle politiche neoliberali di aggiustamento, le forme di rappresentanza politica tradizionali e la repressione come forma di controllo del conflitto sociale) permane in una condizione di visibile sfasamento rispetto alla sua capacità costituente. Questo problema, che possiamo chiamare di costituzione politica (o, in altro modo, di prolungamento dell’energia destituente in un potere costituente), si presenta non solo nell’Argentina del 2001-2003 e nell’intera regione ma anche nel ciclo di lotte che si danno ancora oggi in varie parti del mondo (dall’11M di Madrid, all’Occupy Wall Street, passando per piazza Tahrir e i riots londinesi). La potenza destituente, nella sua traduzione e nel suo impatto istituzionale, non da luogo a forme costituenti all’altezza della sua capacità di innovazione. Questo significa che i movimenti riescono a formulare “elementi costituenti” importanti ma non a pensare, con la chiusura dell’orizzonte rivoluzionario degli anni ’70, come costituire quegli stessi elementi in istanze di governo. La sfida di creare istituzioni e dinamiche costituenti continua a essere presente. Tuttavia, attualmente questa riflessione deve fare i conti con le traduzioni in termini di governamentalità di cui quegli stessi elementi costituenti sono stati protagonisti.

 

Il ciclo dei governi progressisti

Come possiamo pensare la relazione dei governi progressisti con questi elementi costituenti e con la dinamica del movimento sociale come dinamica politica? Al di là delle loro differenze, se possiamo individuare dei tratti in comune dei governi progressisti che li definiscano come tali, questi hanno a che vedere con il loro carattere post-neoliberale (termine oggi in grande discussione in America Latina). Un carattere che sarebbe loro attribuito dal fatto di succedere alle lotte che hanno destituito l’egemonia neoliberale e di estrarre la loro propria legittimità da una situazione paradossale: governi che operano sulla base degli elementi costituenti espressi dalle lotte, ma riscrivendoli in un orizzonte governamentale.

Segnaliamo dunque questi caratteri comuni: un riconoscimento simbolico dei soggetti protagonisti delle lotte contro il neoliberalismo (nuovi soggetti); lo sviluppo di un insieme di politiche di inclusione sociale a partire da tale riconoscimento simbolico (politica di riparazione dei danni causati dal neoliberalismo); l’impulso di una politica di cittadinizzazione mediante l’aumento e la generalizzazione del consumo; il riposizionamento dello stato come attore capace di maneggiare l’interdipendenza e l’inserzione nel mercato mondiale, approfittando della crisi globale come un’opportunità per la cattura relativa di introiti finalizzati alla costruzione del mercato interno e al finanziamento delle politiche pubbliche di sussidi sociali.

 

In senso stretto, tuttavia, non si tratta di un “riposizionamento” dello stato, ma di nuovi elementi di governamentalità. E questo passaggio presenta una caratteristica fondamentale: lo sfasamento tra retorica e pratiche statali. Mentre la retorica parla di un “recupero” dello stato come se potesse tornare indietro a un punto precedente al neoliberalismo, le pratiche statali danno conto di un’articolazione con dinamiche neoliberali legate tanto al mercato mondiale quanto alle parziali deterritorializzazioni dei processi statali stessi e, ancora, alle pratiche installate come razionalità degli attori sociali (dalle imprese ai settori “sussidiati”).

 

Non si tratta di definire queste pratiche dello stato governamentale come “nuove” o “vecchie”. In esse vi sono elementi centralizzanti e gerarchizzanti e si rinnovano pratiche del sistema dei partiti, messe in questione durante il ciclo destituente, che rispondono a una preoccupazione per l’ordine (l’idea diffusa della “paura dell’insicurezza”) e a una governamentalità che si traduce in una rilegittimazione delle istituzioni (tanto dei poteri dello stato ricollocati come sinonimo della “politica”, quanto della stessa accumulazione di capitale come sinonimo di “sviluppo”). Per questo parliamo dell’emergenza di elementi che necessitano una nuova teoria dello stato ai fini di intendere i modi in cui si da lo spiazzamento di uno stato che ha cominciato a fare politica al di fuori dello stato e a dirigersi ai territori per entrare in relazione con i movimenti. Lo stato si reinventa laddove non sapeva come intervenire né come conseguire interlocutori in seguito alla perdita di efficacia delle mediazioni tradizionali (legate al ciclo politico precedente). La necessità di implicare i quartieri si territorializza e si incarna nella figura del militante, di modo che lo stato pone in gioco nella sua propria dinamica momenti subordinati di auto-organizzazione. Si tratta di elementi di una governamentalità che non si fa solo dall’alto. Per questo l’immagine della cooptazione non è sufficiente per pensare dinamiche di governamentalità che si nutrono di una certa impasse dal basso e della gobernamentalizzazione dello stato, e che procedono, con tecnologie e strumenti eterogenei, verso una nuova forma di normalizzazione.

 

Cosa succede oggi con questi governi?

Come abbiamo segnalato, se esiste una condizione post-neoliberale dei governi della regione si da per il fatto di ottenere la loro legittimità dalla delegittimazione delle politiche neoliberali prodotta dai movimenti destituenti dal basso. Non si è potuto – e finora non si può – governare l’America di oggi proponendo austerità, aggiustamento e repressione. Tuttavia, post-neoliberale non significa che il momento attuale possa essere caratterizzato come un mero superamento del neoliberalismo. Convivono logiche miste. Da un lato, fuori dallo stato esiste un neoliberalismo popolare radicato in pratiche e soggettività che organizzano in modo intenso la dinamica territoriale[2]. Dall’altro, esiste un neoliberalismo che sussiste a partire dal vincolo concreto che i governi promuovono con il mercato globale mediante politiche neo-estrattiviste (prezzi delle commodities determinati dalle politiche finanziarie) e spossessive. Non ci troviamo nello stesso neoliberalismo degli anni ’90, ma neanche in un oltre, come affermano le retoriche neo-sviluppiste. Il neo-sviluppismo si combina – anziché superarlo – con il neoliberalismo. Il neoliberalismo è presente oggi come organizzazione delle soggettività mediante l’egemonia delle finanze. Le nuove modalità di intervento statale non costituiscono di per sé un superamento del neoliberalismo, ma dedicano parte degli introiti catturati dalle commodities a sussidi sociali (che non sono solo alla povertà, ma ampliamente destinati al consumo) in maniera tale da includere la gestione della povertà nella logica della governamentalità[3].

 

Cosa sono oggi i movimenti sociali?

Nel linguaggio che abbiamo impiegato intorno al 2001 “movimento sociale” voleva dire commozione sociale, spiazzamento radicale, messa in discussione mediante l’azione e il discorso delle strutture della società (la condanna all’inanità per mancanza di lavoro, la passività innanzi al gioco della rappresentanza politica). I movimenti sociali hanno avuto un momento organizzativo privilegiato – ma non esclusivo – nei movimenti piqueteros e dei disoccupati.

Tuttavia, quando si parla dei “movimenti sociali” oggi lo si fa da prospettive abbastanza differenti. Le scienze sociali, per esempio, ne parlano come di movimenti che operano formulando domande al sistema dei partiti politici e/o direttamente allo stato, istanze, queste sì, autenticamente politiche, che si incaricano di rielaborarle[4]. Sul piano del linguaggio politico militante si suole riferirsi a tali movimenti come a un insieme di organizzazioni di militanti più o meno strutturate, indipendentemente dalla capacità effettiva di impatto critico sui meccanismi che strutturano il sociale.

Questo modo di guardare ai movimenti sociali non fa che confermare, ancora una volta, che intorno a essi non sta succedendo nulla di interessante, né a livello nazionale né a livello regionale. In questa prospettiva, i movimenti sociali o si trovano estremamente indeboliti o giocano un ruolo subordinato nei diversi schemi della governamentalità. Per quel che riguarda il punto di vista delle scienze sociali, c’è da dire che non è possibile verificare nella pratica il funzionamento dei movimenti secondo la logica delle domande: come si traduce e rielabora, per esempio, la domanda “que se vayan todos” che ha caratterizzato il 2001 argentino? Se dal punto di vista organizzativo, assistiamo a processi interessanti di ricostituzione militante, questi gruppi sono per di più valorizzati dall’angolo di analisi del loro appoggio alla governamentalità (che per certi aspetti si sostiene proprio sul ruolo giocato da certe organizzazioni sociali) dimenticando che caratteristiche importanti della potenza del movimento sociale – modalità d’azione e di organizzazione – si sono trasferite verso altri attori. Facciamo riferimento, per esempio, all’emergenza di bande – a volte legate ai cosiddetti “narcos” – che adottano forme di azione assunte frequentemente dai movimenti, come nel caso della dinamica sempre più espansiva delle occupazioni di terre.

Pertanto, pur risultando interessante l’esistenza di organizzazioni sociali, la loro presenza non suppone necessariamente l’apertura di nuovi campi di possibilità politiche[5]. L'”esaurimento del ciclo kirchnerista” di cui tanto si parla, si manifesta soprattutto in un indebolimento della relazione – di governamentalità – tra organizzazione sociale e governo. Non ci sembra casuale, a questo riguardo, che sia proprio in un momento di massima precarizzazione di questo schema di governo del sociale a essere proposta una nuova trasversalità cristiana che Papa Francesco (già critico, con il nome di Bergoglio, del kirchnerismo) cerca di guidare a livello globale con una rinnovata idea (una svolta senza dubbi conservatrice) su come trattare il problema della povertà e il crescente conflitto nei territori.

In questo modo, l’iniziale intensità della relazione tra movimento e governo post-insurrezione del 2001 si è venuta esaurendo. L’idea di un’inclusione senza capacità di novità e impulso si trasforma sempre più in un processo debole interpellato dall'”insicurezza” e dal “voto per la povertà”. Eppure, in quello che stiamo affermando non vi è nulla che supponga l’inesistenza di una molteplicità di esperienze e nuclei di organizzazione che mantengono aperta la possibilità di una nuova produttività politica. Al contrario, è con queste e solo con queste che possiamo pensare e affrontare la nuova conflittualità sociale.

 

Un nuovo conflitto sociale

Le organizzazioni sociali affrontano un nuovo conflitto nei territori. Prima di descriverlo dobbiamo però liberare il campo dai discorsi dell’opposizione al kirchnerismo. Per quelli si tratta di denunciare la corruzione, l’insicurezza e l’inflazione. Tutto un linguaggio dei sintomi: quella che loro chiamano “inflazione” è per noi il sintomo della precarietà del modello economico kirchnerista. Quella che chiamano “corruzione” è, a essere rigorosi, il sintomo della natura “sporca”[6]della governamentalità di questi anni. Allo stesso modo, quella che chiamano “insicurezza” non è che il sintomo dei limiti del processo di inclusione sociale e dell’attivazione di nuovi mercati. Intorno a questo linguaggio mistificato e moralista si preparano le politiche più reazionarie del momento.

Per affrontare questo tipo di cose, preferiamo parlare, in altri termini, di un nuovo conflitto sociale che si spiega, in buona misura, con la reazione sociale innanzi alle caratteristiche più aggressive del modo di accumulazione vigente nell’ultimo decennio. Ci riferiamo chiaramente allo schema di affari che dinamizzano oggi l’economia: attività neo-estrattive, di sfruttamento dei giacimenti di energia, diffusione del narcotraffico, boom immobiliare (mercato formale e informale) e agro-business, vale a dire, le molteplici forme del divenire rendita del profitto.

È questo divenire rendita, come motore della proliferazione degli affari, a spiegare il nucleo della nuova conflittualità. Nuova non in termini assoluti, ma in relazione con la conflittualità della miseria che abbiamo conosciuto durante il 2001. Il nuovo conflitto sociale a cui facciamo riferimento si estende come violenza nei territori che, solcati da dinamiche di valorizzazione finanziaria, hanno perduto la loro vecchia condizione di periferia per diventare sempre più centrali (basti pensare a processi come l’espansione delle frontiere agrarie, minerarie e degli affari urbani).

In questi territori si giocano nuove forme di sovranità (di proprietà, di retoriche, di logiche coercitive) per opera di bande e di uno stato di eccezione che prolifera nell’istituzione poliziesca. Si tratta di modalità di sovranità, di comando e di regolazione (forme di esercitare la forza, di appropriazione, di religiosità popolare, di modi di vita) “post-statali”, nella misura in cui sconfinano, sostengono e minacciano la forma statale stessa. Una “seconda realtà”, nelle parole di Rita Segato, che penetra e riorganizza l’istituzionalità dello stato[7]. Lo sviluppo di questo nuovo conflitto sociale[8]assilla, perfora e attacca elementi fondamentali della trama democratica costruiti dalle lotte dei diritti umani a partire dal 1983 (diritti civili contro l’intervento delle forze armate) e dal 2001 (diritti sociali).

 

L’inchiesta militante oggi

Crediamo che la produttività del movimento sociale dipenda oggi dalla sua capacità di affrontare il nuovo conflitto sociale e di tentare l’apertura di nuove possibilità politiche. Ci situiamo in un luogo che non può essere compreso mediante la mera opposizione tra “si” o “no” allo stato (dentro versus fuori dallo stato). Immaginiamo un concatenamento di parti di nuove e vecchie forme di militanza con parti del movimento sociale, di gruppi di inchiesta e segmenti di istituzioni.

Se nel 2001 era chiaro il “contro chi” (stato neoliberale e repressivo) e una certa dose di dinamica comunitaria convertita in movimento (dal baratto all’assemblea e al piquete), oggi si lotta contro attività legate alla rendita (un astratto principio affaristico) che impongono l’appropriazione privata sulla trama comune, dando impulso a economie più potenti e diffuse, più articolate e profondamente ambigue (dalla fiera informale alle occupazioni di terre).

È fondamentale far convergere l’esperienza politica, organizzativa e di contenzioso dei diritti umani con la produzione di diritti che siano all’altezza delle nuove conflittualità. In questo senso è necessario identificare tanto le situazioni conflittuali quanto i soggetti coinvolti in queste forme di lotta che chiaramente non rispondono all’immagine dei movimenti sociali che abbiamo conosciuto durante la crisi. D’altra parte, si rende necessaria la produzione di enunciati e di immagini, di narrazioni e di un discorso intorno alle forme organizzative per affrontare questi nuovi conflitti. Il tema della narrazione compie almeno due funzioni: 1. Nominare nuove realtà delle quali non sappiamo parlare. 2. Impedire di restare rinchiusi all’interno di retoriche di destra che nominano il nuovo conflitto in maniera reazionaria, come nel caso della “sicurezza” e della “lotta contro il narco“.

Emerge qui un tema fondamentale della inchiesta politica: non conservare la separazione tra beni naturali da proteggere e una società danneggiata da riparare (che in maniera sempre mistificata si incasella come opposizione tra lotte ambientali versus finanziamenti sociali). Per andare oltre questa dicotomia, la prospettiva della lotta contro la rendita ci permette di ampliare e di ricomporre una dinamica articolata del comune con una maniera di difendere le infrastrutture del benessere create dal basso.

Un altro binarismo che va disarmato è quello che resta congelato tra un’autonomia originaria e la politica del governo amico. Conviene piuttosto disaggregare lo stato per dar conto delle sue funzioni e dei suoi segmenti che non operano su un unico livello né tantomeno in modo uniforme. Nella sua complessità, si tratta di pensare e rafforzare la capacità di incidere tra istituzioni popolari e livelli dello stato (combinando conflitto e articolazioni). L’orizzonte della costruzione di nuove istituzioni popolari, post-statali, né fuori né dentro lo stato, ha come possibilità quella di riformulare e riarticolare le istituzioni politiche esistenti.

Si tratta, in definitiva, di tornare a pensare tutto questo in un nuovo scenario politico dominato dalla crisi e dall’indebolimento del kirchnerismo che suppone un deterioramento dello scenario che ha preso forma nella fase ascendente dei governi progressisti e nel quale Francesco Papa gioca un ruolo, come abbiamo detto, fondamentale, nella costruzione di una nuova avanzata conservatrice. Contro ogni apparenza, a essere in disputa non è il riconoscimento o il disconoscimento del decennio kirchenrista, ma il modo di interpretare la nuova conflittualità sociale e la sua genealogia a partire dal 2001.

 

*Colectivo Situaciones/Instituto de Investigación y Experimentación Política. Pubblicato in Revista Herramienta n. 54 autunno del 2014, anno XVII. Traduzione di Maura Brighenti.

 



[1]Per un approfondimento su questo punto, si può vedere Gago, Mezzadra, Scolnik y Sztulwark (2012): Apuntes sobre el Estado en América Latina, disponibile nell’archivio www.uninomade.org. 

[2]Chiamiamo neoliberalismo dal basso la congiunzione di una mobilitazione economica popolare con la forma di autoimprenditorialità diffusa durante gli ultimi decenni. L’ambivalenza della formula contiene tanto un impulso innovatore, politicamente stimolante, quanto un insieme di regole di obbedienza classicamente capitalistiche.

[3] Le relazioni tra tutti i livelli della governamentalità non sono semplici. I legami tra i processi di produzione di statualità e il neoliberalismo risultano paradossali. Quando le politiche sociali interpretano la povertà nell’ottica della vittimizzazione e della marginalità, cosa che suole succedere nella prospettiva delle retoriche ufficiali dell’inclusione, sottostimano il ruolo attivo della povertà nelle dinamiche di valorizzazione. I dispositivi finanziari elaborano invece un’interpretazione più adeguata di questa realtà. È questa la conclusione a cui giunge il rapporto del Ministerio Público Fiscal PROCELAC, disponibile in www.mpf.gob.ar/procelac/

[4]Persino un pensatore sofisticato come Laclau pensa la situazione dei movimenti come un “asse orizzontale”, unità di domande che si integrano con un asse “verticale” che deve elaborarle nei termini della loro significazione politica. 

[5]Distinguiamo le organizzazioni che colgono le premesse della governamentalità e elaborano le loro posizioni al calore del nuovo conflitto sociale (con le quali stringiamo relazioni e lavoriamo) assumendo una discussione aperta con le organizzazioni di sinistra più tradizionali che ricorrono a parole d’ordine massimaliste e a una struttura centralizzata come unica via per l’elaborazione dei problemi politici.

[6]Per approfondire la relazione tra governamentalità sporca e potere delle finanze a livello popolare come forma di sfruttamento si veda il rapporto precedentemente citato del PROCELAC.

[7]Per pensare la complessità della funzione della governamentalità nel presente si veda l’intervista a Sandro Mezzadra, in Colectivo Situaciones (ed), Conversaciones en el Impasse, Buenos Aires, Tinta Limón, 2009. In termini generali pensiamo la governamentalità capitalistica secondo il seguente schema che riprendiamo dall’opera di Félix Guattari: il capitalismo tende, al contempo, alla decodificazione dei suoi sistemi sociali e al loro orientamento secondo uno schema sssiomatico. Se pensiamo per esempio al modo in cui le dinamiche finanziarie deterritorializzano gli elementi dell’economia produttiva e della scala nazionale, possiamo vedere come simultaneamente la finanziarizzazione è governata da agenti e attori che determinano i processi produttivi e statali-nazionali. Nell’attualità assistiamo alla mediazione sociale a partire dal consumo, più che dal modo stereotipato del lavoro fordista. Il governo degli elementi della deterritorializzazione che si danno nel mondo del consumo riveste anche una funzione nella governamentalità.      

[8]La scorsa estate ci ha rivelato un intero catalogo della nuova conflittualità. Mentre a  Rosario, Córdoba e Mendoza cresce l’influenza della trama “narco”, dicembre è stato il mese degli ammutinamenti della polizia, delle “paritarias callejeras”, della crisi dello schema dei servizi pubblici dell’energia e dello schema monetario sotto la pressione di coloro che controllano il mercato delle valute.  

 

 

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