di VITO DE LUCIA.1

Queste riflessioni trovano lo spunto nell’imminente (al momento in cui si scrive) #strikemeeting, una tre giorni in cui “si alterneranno assemblee, workshop e discussioni collettive” il cui obiettivo è di“ricreare le condizioni per una mobilitazione efficace contro il Jobs Act e le politiche sul lavoro dei governi dell’austerità”.2 Questo #strikemeeting vuole proporre riflessioni collettive al fine di immaginare “percorsi duraturi di autorganizzazione e ricomposizione di un fronte sociale inclusivo ed efficace”.3
La chiamata è ad uno “sciopero sociale”, che debba raccogliere e in qualche modo coordinare la moltitudine e l’eterogeneità delle lotte e dei percorsi sindacali conflittuali emersi nel mondo del lavoro, e più in generale negli interstizi situati tra disoccupazione, precarietà e lavoro, e nei territori. Lo sciopero è quindi caratterizzato anche come “generale”, “precario”, “metropolitano e meticcio”, “in rete” e “politico”, al fine di manifestare la pluralità delle lotte e dei conflitti che vorrebbero essere rappresentati e inclusi in un fronte sociale unico e di largo respiro.
Questa chiamata per uno #strikemeeting ha suscitato delle risonanze e delle riflessioni che volevo condividere con questo breve articolo, per offrire un contributo, seppure minimo e da lontano,4 alle pratiche e alle riflessioni sul comune. In particolare, le mie riflessioni si agganciano al ruolo dello sciopero come strumento della lotta di classe non in funzione economica, ma politica e giuridica. A tal fine questo breve articolo si soffermerà sulle vicende della prima secessione plebea del 494 a. C., momento assolutamente centrale nell’ambito della dialettica di classe nella prima Roma repubblicana, e del processo di costruzione costituzionale della Repubblica Romana, e cercherà di mettere in relazione questo processo storico, e le sue conseguenze politiche e giuridiche, con le contemporanee lotte del comune in generale, e in particolare con le pratiche e le riflessioni che muovono questa chiamata ad uno sciopero sociale.
La “messa in relazione” è un passo metodologico cruciale, su cui val bene spendere due parole chiarificatrici. Chi scrive ritiene che non si debba, né si possa trovare, in eventi storici così lontani e frutto e conseguenza di un contesto sociale e di una mentalità5 così diverse, modelli da riproporre o ripercorrere. Il massimo cui si può ambire è quello, appunto, di mettere in relazione eventi e avvenimenti al fine di esplorare quali risonanze possano emergere da tale messa in relazione. Un secondo elemento che è sì metodologico, ma che, per molti versi, è anche e forse soprattutto politico,6 è quello della memoria come strumento dell’insorgenza. Come insegna Foucault, l’insorgenza è una pratica che riattiva saperi emarginati o nascosti in virtù di genealogie epistemologiche che normalizzano e disciplinano saperi “ribelli”, formando così terreni di egemonia che non lasciano spazi che non siano saturati da, appunto, egemonia epistemologica.
Ma ora è il momento di addentrarci in questo esercizio di memoria, e quindi volgere l’attenzione alla secessione plebea del 494 a.C..

La situazione

L’idea (e poi la pratica) della secessione maturò in una situazione socio-economico in cui la popolazione plebea si era venuta a trovare in sempre più diffuse condizioni di asservimento (in senso letterale, come vedremo) nei confronti della classe dei patrizii.7 La plebe veniva coordinata e inquadrata in funzioni militari dal Senato e dai magistrati patrizii, attraverso chiamate di leva continue che impedivano ai singoli plebei di occuparsi dei loro piccoli lotti di terra, determinandone quindi la perdita di autosufficienza alimentare. Ne conseguì un indebitamento generalizzato dei plebei, situazione complicata attraverso meccanismi di credito a usura. Questo indebitamento risultò poi impossibile da sanare in virtù proprio delle continue chiamate di leva, che alimentarono quindi la creazione di un circolo vizioso da cui era difficile, se non impossibile, divincolarsi.
Nel quadro giuridico dell’epoca, a fronte dell’incapacità di ripagare debiti direttamente (ossia, in pecunia), si profilavano situazioni di asservimento che potevano avere genesi negoziale (il debitore si assoggettava “volontariamente” al creditore al fine di ripagare il debito entrando nel di lui servizio, attraverso la figura giuridica del nexum), oppure giudiziale, attraverso l’esecuzione personale sul debitore. In entrambi i casi il debitore era assoggettato al creditore, e svolgeva forme di lavoro vincolate e sottoposte – era asservito appunto. Questo processo, frutto del monopolio patrizio sulle fonti di produzione della ricchezza, nonché del loro controllo e manipolazione del credito, aveva portato ad un certo punto ad una situazione di indigenza e asservimento generalizzata.

La Secessione del 494 a.C.The Secession of the Plebs

A fronte di questa situazione, e del suo protrarsi, nel 494 a.C. la plebe, ancora in armi e di ritorno dall’ennesima campagna contro i Volsci, si ribellò e abbandonò la città, per accamparsi su un colle trans anienem, colle che poi verrà ribattezzato Monte Sacro. L’atteggiamento della plebe sembrava alludere all’idea “di voler fondare un’altra città se il senato patrizio non accoglierà le sue prime fondamentali rivendicazioni”.8 La plebe prevedeva infatti l’ipotesi di un’uscita piena dal “sistema”, o meglio, attuò un a tale uscita in via temporanea, contemplando la possibilità di un’uscita definitiva. Il mondo patrizio, in tutto dipendente dalla plebe – in termini di economia, produzione, attività militari
etc. – a quel punto si fermò.
Questa secessione, è bene precisarlo, fu il frutto di un processo rivoluzionario ben cosciente e meditato, sia nella sua forma che nella sua sostanza, maturato attraverso momenti preparatori e progettuali quali le riunioni notturne e clandestine – le cosiddette conjurationes. E infatti i conflitti erano iniziati già nel 498 a.C., e si erano manifestati sotto forma di cosiddetti “scioperi militari”, ossia rifiuti di rispondere alle chiamate di leva. E si erano manifestati nelle lotte contro gli interessi degli usurai, e contro le crudeltà dei creditori che infierivano sui loro nexi, sui loro asserviti. È bene anche ricordare come i patrizii avessero a più riprese fatto ricorso all’arma dell’”unità nazionale”, utilizzando nemici comuni – materiali e simbolici – al fine di dissipare i conflitti interni e riorientarli verso l’esterno. È , infine, utile ricordare come il sentimento che animava la plebe, così come traspare dai commentatori, era quello dell’indignazione, indignazione rivolta contro i soprusi di usurai e creditori.
La secessione plebea – unita come moltitudine di singoli e come singolarità collettiva – ha ben presente i suoi obiettivi, le sue richieste. Una prima richiesta è di carattere sociale ed economico: liberazione dalla condizione di asservimento di tutti i plebei. L’altra ha invece carattere politico e, soprattutto, giuridico, e si traduce in una dimensione costituente di classe, in una (ri)strutturazione costituzionale della Repubblica Romana, attraverso la previsione e creazione della figura del Tribuno della Plebe, magistrato di parte, e attraverso la nascita del plebiscito come strumento normativo plebeo, anch’esso di parte, sebbene con validità erga omnes.

La forza costituente della plebe

machiavelliNell’ambito della secessione esistono tre momenti, tre dimensioni, che segnano in maniera significativa lo sviluppo e la successiva articolazione delle dinamiche di classe e dei meccanismi costituenti che maturano in questo momento storico. Queste tre dimensioni, per quanto strettamente correlate, si possono ditinguere al fine di tracciarne contorni peculiari, pur nella consapevolezza che esse si sostengono e si arricchiscono vicendevolmente. Vi è una dimensione giuridico-istituzionale: il tribunato; una dimensione giuridico-religiosa: le leges sacratae; e una dimensione di produzione e proiezione normativa: il plebiscitum. Tutte e tre queste dimensioni sono il risultato, la manifestazione della forza costituente delle plebe. Ed è proprio la forza costituente esprimentesi attraverso questi tre momenti che diviene la chiave di volta dell’intera architettura costituzionale della repubblica romana, e trasforma la capacità auto-normativa della plebe in validità giuridica per tutto il populus.
In uno società di classe come quella Romana proto-repubblicana, tutte le istituzioni erano di matrice patrizia, con la conseguenza che la plebe rimaneva interamente al di fuori delle dinamiche di esercizio del potere e dei processi di formazione e applicazione del diritto. Una delle dimensioni quindi cruciali nella lotta della plebe, e che trovò espressione durante la secessione, fu quella di creare una propria magistratura che potesse condurre istituzionalmente la lotta politica. Il Tribunato della Plebe fu quindi una magitratura “rivoluzionaria, creata dalla plebe per la propria lotta, strumento della lotta di classe”,9 e dotato di un penetrante potere negativo di veto, capace di “cassare” le iniziative del potere positivo (di governo) esercitato dalle istituzioni patrizie, in virtù di una potestà “coercitiva” nei loro confronti.10
Un altro elemento centrale del tribunato, il cui ruolo assumerà via via più importanza, aveva tuttavia connotazioni positive e propositive, e consistenva nella facoltà dei tribuni di convocare l’assemblea della plebe al fine di legiferare.11 In questo modo il tribunato diventerà un elemento fondamentale dell’assetto costituzionale repubblicano in virtù della sua funzione di mediazione – ma sempre da una prospetiva di parte (plebea) – dell’articolazione della dialettica tra la moltitudine plebea e i patrizii, o quello che oggi si potrebbe chiamare l’1%.12 Questa pretesa rivoluzionaria di istituzionalizzare una propria partecipazione alla dialettica del potere rispondeva all’esigenza di rompere l’egemonia che i patrizii esercitavano sulla comune organizzazione sociale e politica attraverso la sovrapposizione su di essa della propria esclusiva organizzazione istituzionale. Il tribunato è quindi una “arma rivoluzionaria costituzionalizzata”,13 è insieme “sbocco e perpetuazione istituzionale”14 del conflitto di classe tra plebe e patrizii. Ora, è bene ricordare come il nesso tra il tribunato e la plebe, come ci ricorda Giovanni Lobrano, è elemento essenziale, fondante, dell’istituto tribunizio, così come essenziale è che la potestà tribunicia è “espressione giuridica”15 di una parte del popolo, e cioè la plebe.16 D’altra parte, pur essendo il tribunato radicato nella plebe, la validità del suo potere aveva carattere generale all’interno dell’intera società (civitas). Va, infine, sottolineato come la potestà tribunicia fosse espressione di una immanente forza costituente e di auto-organizzazione della plebe, come ordine autonomo rispetto a quello dello Stato – o meglio del popolo17 – Romano (uno stato nello stato), e come gruppo istituzionale dotato di capacità auto-normativa.18
Questo processo di auto-regolazione e le deliberazioni attraverso cui la plebe creò una magistratura di parte quale il tribunato, vennero sanzionate attravero giuramento. Il giuramento, manifestazione solenne, aveva il fine politico di vincolare attraverso una manifestazione di carattere religiosa i partecipanti, essendo le deliberazioni avvenute al di fuori del quadro costituzionale, e quindi, formalmente, in un vuoto di potere. La dimensione religiosa era però anche strumentale alla protezione della figura del tribuno. Infatti il tribunato veniva dotato della cosiddetta sacrosanctitas, ossia di una qualità giuridico-religiosa che gli conferiva inviolabilità19 attraverso la sanzione del sacer esto nei confronti di chiunque avesse attentato alla libertà ed indipendenza dei tribuni: chi fosse stato dichiarato sacer avrebbe potuto essere ucciso impunemente. Tale sanzione veniva così a compensare “il vuoto di potere che [avrebbe impedito] la comminatoria di una pena e proclama rivoluzionariamente la validità di un atto di parte (ossia della sola plebe) nei confronti dell’intera civitas”20
Il plebiscito, infine, è l’articolazione e manifestazione della forza costituente che rappresenta forse il momento più significativo della secessione plebea in proiezione futura. La plebe, autoorganizzatasi, si era riunita in assemblea, inaugurando la prassi dei plebisciti, atti giuridici di parte eppure validi e vincolanti su tutta la collettività.21 Atti di una parte, quindi, la cui validità per il tutto (per l’intero popolo romano)22 è da trovarsi significativamente, al di fuori dell’ordine costituito; è da trovarsi nella forza costituente immanente a questo soggetto collettivo rivoluzionario. La plebe si trova e riconosce se stessa come moltitudine.23 Questi sono i semi da cui emergerà la maiestas plebis, e da cui poi si svilupperà più pienamente l’idea di sovranità popolare, ossia la capacità di (auto)normazione di una comunità che si istituzionalizza attraverso un processo di auto-riconoscimento.
Naturalmente i patrizii opposero resistenza al riconoscimento di questo potere di produzione giuridica alla plebe, protraendo la controversia sulla validità dei plebisciti per lungo tempo, come evidente dalla “necessità” di ulteriori secessioni24 e di ripetute leggi,25 nell’arco di un periodo di 150 anni.26

Conclusione: che relazione tra Montesacro e #StrikeMeeting?

Attraverso una veloce panoramica incentrata sui suoi punti salienti, abbiamo offerto una ricostruzione, seppur assolutamente sommaria, della vicenda storico-giuridica alle origini dell’architettura costituzionale della repubblicana romana, al fine di metterla in relazione con le vicende contemporanee e con quelle pratiche sociali e collettive che cercano vie percorribili per uscire da una profonda crisi. Tale crisi è multipla: è crisi dello Stato; è crisi dei rapporti di classe e sociali all’interno di esso e del quadro più generale delle crisi del capitalismo finanziario e cognitivo; è crisi infine delle istituzioni liberali e post-liberali rappresentative, crisi di legittimità riflessa non solo negli scandali di costume, ma anche e soprattutto, nel saccheggio delle istituzioni e della cosa pubblica operato da una classe politica espressione di prassi di corruzione il cui ultimo, e unico, obiettivo è personale e privato.

L’intenzione di queste riflessioni è quella, come già menzionato, di una messa in relazione, piuttosto che quella di riproporre un modello, al fine di verificare che tipo di risonanze si possono innescare. Ed in effetti, seppure con tutte le dovute distinzioni, non è forse troppo azzardato considerare il precariato contemporaneo come una forma non trasparente di asservimento; precariato assediato da persuasioni e costrizioni all’indebitamento; precariato ricattabile – e ricattato – proprio in virtù della sua precarietà; precariato privato di mezzi di sussistenza sufficienti, e privato dell’accesso a forme di lavoro stabile, libero e appropriatamente retribuito. E al debito privato si può – si deve – aggiungere il debito pubblico,i cui eccessi determinano ora, nel momento dell’esplosione della crisi del capitalismo finanziario, la fase dell’austerity e delle chiamate all’unità nazionale, per traghettare la nazione di nuovo all’interno di un’Europa che però si allontana sempre di più dalle comunità in nome di tecnocrazie e progetti neoliberisti. E questa austerità si risolve anch’essa nell’asservimento, non trasparente ma sostanziale, dei nuovi plebei, delle classi e comunità vulnerabili. Questa trasformazione in senso plebeo attraverso coercizione e umiliazione, attraverso l’articolazione del potere come dominio “che liquida ogni mediazione democratica e ogni messa in scena parlamentare”, è d’altra parte oggetto di valutazioni e critiche oramai ricorrenti.27

Pur richiamando paralleli e similarità, è tuttavia bene sottolineare come le situazioni storiche siano talmente lontane e differenti da non poter invitare a nulla più che, appunto, riflessioni sulla questione centrale della forza costituente di formazioni sociali dentro, contro, al di là, e al di fuori di un quadro costituzionale costituito, Statale e statalista. Il risorgente ed insorgente manifesto del comune, d’altra parte, sembra proprio voler indicare la necessità storica e l’urgenza sociale di una riappropriazione della giuridicità come fatto immanente alle comunità e alle società, piuttosto che come forza, comando, violenza che discende dal sovrano. Le emergenti/insorgenti manifestazioni del comune si possono forse
immaginare, in altre parole, come un risveglio di questa residuale, immanente forza costituente che reagisce alle pratiche di saccheggio sociale, nonché al tramonto delle forme della rappresentanza. E già in altri momenti storici di transizione, pregni di forze ribollenti e al cospetto di strutture istituzionali e di rapporti sociali in crisi, l’ispirazione delle vicende costituzionali romane è emersa, ed ha attivato risonanze.
Così Babeuf, nel periodo rivoluzionario francese, si ergeva ad avvocato del tribunato come unica modalità per istituzionalizzare il conflitto sociale e difendere, sulla scorta dell’insegnamento Rosseauiano, la legge in qualità di manifestazione della sovranità del popolo. Babeuf ipotizzava quindi l’istituzione di “curatori della libertà”, il cui compito sarebbe stato quello di valutare l’operato di governanti e deputati, ed eventualmente richiederne la revoca. E così ancora Babeuf sosteneva la prassi dello sciopero, asserendo che “finché [noi, il popolo] non avremo ripreso possesso [dei nostri diritti naturali e imprescrittibili] ci dichiariamo dispensati dal minimo dovere verso la patria che ci respinge, […] dispensati da ogni pubblica contribuzione, diretta e indiretta e se ciò non bastasse, ci dispenseremo anche dal mettere le nostre braccia al servizio” della produzione.28
Ed in questo senso lo sciopero si propone come esercizio del potere costituente, negativo, di una delle classi sociali che costituiscono la struttura della società. Non è un caso quindi che è proprio nel contesto teorico, politico e giuridico del sindacalismo rivoluzionario (si pensi, in Italia, all’opera di Panunzio) che la ricostruzione qui brevemente offerta di un ordine plurale, e costituito tramite il conflitto29 riemerge e si riattiva, seppure con un linguaggio (e un’orizzonte) differente e senza apparente contatto genealogico. Ed è così anche che, attraverso la teoria istituzionale del diritto di Santi Romano,30 la quale offre una nuova griglia interpretativa, studiosi come Grosso affrontano con “spregiudicatezza”31 la questione del potere nella Roma repubblicana, e ritrovano proprio attraverso una visione pluralsitica del diritto i fondamenti di una struttura federativa tra due ordinamenti distinti – quello dei patrizii e dei plebei – che non solo si consuma durante la secessione, ma che si pone alla base della civitas come ordinamento non integrativo e sovraordinato, ma costituito proprio con la, e dalla, federazione – sulla base del foedus – dei due ordini. Ordini che sono sia sociali che istituzionali, e quindi, in linea con la teoria istituzionale del diritto di Santi Romano, giuridici.
Nel momento storico contemporaneo, le (ri)occupazioni, (ri)appropriazioni e restituzioni (alle comunità) dei beni comuni,32 e le correlate pratiche costituenti che stanno squarciando la tela neoliberista e statalista, riattivano con decisione e lucidità proprio questi meccanismi del conflitto,33 a fronte di una tendenza pacificatrice e disciplinare dell’Europa delle austerità e della politica del Berlusconismo prima e del Renzismo ora; una politica questa che (in virtù di imbarazzanti continuità) individualizza, de-politicizza, disattiva e riorienta il conflitto verso un velocismo decisionista e tecnico, che non lascia spazio ad alcun dialogo; e che, di fronte a pratiche critiche quali quelle dei beni comuni, esprime violenza.34
Ma le contingenze della contemporaneità vengono attraversate dalle pratiche del comune nella misura in cui esse tracciano una linea di fuga dall’interà modernità giuridica (e dalle sue derive postmoderne), e alludono ad un’uscita altermoderna35 anche attraverso le insorgenze di un diritto che vive nelle pratiche sociali.
La domanda forse più urgente rimane però legata alla pluralità di orizzonti “costituzionali” che le pratiche del comune si trovano di fronte. Ed è questo un chiaro elemento di differenza rispetto alle pur significative suggestioni che vengono riattivate attraverso un messa in relazione del presente con la sua genealogia. Se da una parte infatti tali pratiche si pongono al di fuori dell’ordine costituzionale, in virtù di una propria ed originaria forza costituente che da tale ordine, necessariamente, è negata, dall’altra rivendicano alle loro pratiche una funzione intra-costituzionale di attuazione diretta della Costituzione vigente,36 in una sorta di costituzionalismo vivo sorretto anche da una pratica giuridica il cui contributo attivo, partecipe e critico produce effetti dentro e contro le istituzioni costituzionali. Ed è in relazione a questa urgente domanda che il Montesacro si può collegare allo #StrikeMeeting e ai beni comuni, e forse sussurrare ancora qualcosa di attuale.

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  1. Vito De Lucia è Research Fellow presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Tromsø, Norvegia 

  2. Citazione tratta da http://www.communianet.org/content-12-13-14-settembre-strike-meeting-%C3A8%-tempo-di-sciopero-sociale 

  3. Citazione tratta da http://www.communianet.org/content-12-13-14-settembre-strike-meeting-%C3A8%-tempo-di-sciopero-sociale 

  4. Chi scrive infatti lavora e vive nella Norvegia artica 

  5. Nel senso in cui mentalité è usato dalla scuola degli annali, ma anche da storici del diritto quali Paolo Grossi 

  6. E qui la distinzione si sovrappone alla questione di come ogni scelta di un metodo comporti sempre anche una scelta politica 

  7. È bene forse sottolineare come la classe dei patrizii fosse composta dai più antichi clan romani, mentre la classe plebea fosse di origine più recente e migrante 

  8. Serrao, F. Secessione e Giuramento della Plebe al Monte Sacro, Diritto e Storia, N. 7 – 2008 – Memorie 

  9. Grosso, G., Il diritto di sciopero e l’intercessio dei tribuni della plebe, in RISG 6, 1952/53, p. 3 

  10. Si vedano, ex pluribus, Mastrocinque, A., Aspetti del Tribunato della Plebe alle origini della Repubblica, Jus Antiquum, (articolo disponibile http://www.dirittoestoria.it/iusantiquum/articles/mastroc.pdf) e Lobrano, G. Res Publica Res Populi. La Legge e la Limitazione del Potere, Giappichelli Edtore, Torino, 1996 

  11. Per alcuni questa facoltà “costituisce il momento più alto nello sforzo della plebe di porsi al centro della vita politica della civitas”, Mastrocinque op.cit

  12. Posizione da distinguere da quella che vedrebbe il tribunato inserito nelle dinamiche di potere interne alle strutture di governo, quindi manifestazione di una sorta di bilanciamento dei poteri, vedi Lobrano 1996 op. cit. p. 295ff. Questa distinzione è d’altra parte sottolineata da Rousseau, quando dice che il tribunato “n’est point une partie consitutive de la cité, et ne doit avoir aucune portion de la puissance législative ni de l’exécutive, mais c’est en cela même que la sienne est plus grande: car ne pouvant rien faire, il peut tout empeêcher”, Rousseau, J.J., Du Contrat Sociale ou Principe du droit politique, Libro IV, Capitolo 4.5 

  13. Grosso 1952/53 op. cit., p. 6 

  14. Lobrano, G. Il Potere dei Tribuni della Plebe, Giuffré Editore, 1983, p. 110 

  15. Lobrano 1983 op. cit., p. 137 

  16. Lobrano 1983 op. cit. 

  17. Giacchè il concetto moderno di Stato era assolutamente alieno alla mentalità e alle forme giuridiche e politiche romane, mentre rilevanti erano le relazioni tra la plebe e il popolo (nei termini di una relazione parte-tutto), e quella conflittuale tra plebe e patrizii-senato; vedi Lobrano 1996 op. cit

  18. Si può, e forse si deve, ricordare, il rapporto genealogico che esiste tra lo sciopero come strumento di lotta di classe della modernità e il tribunato della plebe 

  19. Affinché “nessuno attenti alla libertà e indipendenza del tribuno, né lo fustighi, né lo faccia fustigare, né lo uccida, né lo faccia uccidere”, Serrao 2008 op. cit. §3 

  20. Serrao 2008 op. cit. §3 

  21. In queste assemblee (comizi tributi), i tribuni svolgevano un ruolo centrale, tanto che sarebbero in definitiva diventati, per mezzo del potere di convocare i comizi plebei al fine di approvare proposte di legge, “i principali legislatori della storia romana, visto che la maggioranza delle leggi repubblicane sono dei plebisciti proposti dai tribuni e approvati dal popolo”, Mastrocinque, A., Il Giuramento del Monte Sacro, Diritto e Storia, N. 6 – 2007 – Memorie; si veda anche Serrao 2008 op. cit 

  22. Giacché la plebe, lo si ricordi, è solo una parte, del popolo (il tutto, comprensivo dei patrizii). La dualità è un elemento chiave nell’architettura giuridica e sociale romana che trova espressioni molteplici: senato e popolo; popolo e plebe; patrizii e plebe; potere positivo e potere negativo e via dicendo 

  23. Questa non è propriamente la moltitudine descritta da Hardt e Negri in Hardt, M. e Negri, A., Multitude: War and Democracy in the Age of Empire, Penguin Books, 2005 (che si esprime nel linguaggio e attraverso le pratiche del comune), ma è certamente vicina alla loro visione nella misura in cui la moltitudine plebea si pone come formazione sociale altra rispetto al popolo, che opera invece come concetto di sintesi, integrativo, della struttura – e dei conflitti – di classe a Roma. 

  24. Già nel 492 a.C. vi fu una nuova secessione, per consolidare i risultati della prima; si veda, ex pluribus, Serrao 2008 op. cit

  25. La Valeria Horatia del 449, la Publilia Philonis del 339 e la Hortensia del 287 

  26. Mastrocinque op. cit. 

  27. Vedi ad esempio, Democrazia Km Zero, La Repubblica dei beni comuni, 2012 p. 3, http://www.democraziakmzero.org/files/2012/07/Democrazia-Km-Zero-La-Repubblica-dei-beni-comuni.pdf 

  28. Babeuf, F.N.. Il Tribunato del Popolo, citato in Lobrano 1996 op. cit. p. 308 

  29. È questo un carattere che attraversa, almeno in certe ricostruzioni, l’intero svolgersi del “pensiero vivente” italiano, da Machiavelli, Bruno e Vico fino a Tronti, Negri, Agamben ed Esposito, cfr. Esposito, R. Pensiero Vivente. Origine e attualità della Filosofia Italiana, Einaiudi 2010, e che si transfonde anche in un certo pensiero giuridico, e precisamente quello dell’esperienza giuridica, cfr. Bascherini, G. Italian Theories. Spunti attorno all’esperienza giuridica a partire da un recente saggio di Roberto Esposito, 2013:1 Costituzionalismo, http://www.costituzionalismo.it/articoli/438/. A tutto questo bisognerebbe aggiungere proprio questo evento che attiva in maniera forse decisiva il pensiero dell'”immanentizzazione del conflitto” (per usare un’espressione di Esposito) e a cui si volge, ad esempio, proprio Machiavelli 

  30. Panunzio però trova la sua ispirazione, in relazione a pluralismo giuridico ed ordinamentale, nell’opera del filosofo del
    diritto Icilio Vanni, piuttosto che in Santi Romano, come riportato dallo stesso Panunzio, vedi Cassese, S., Socialismo Giuridico e «Diritto Operaio». La Critica di Sergio Panunzio al Socialismo Giuridico, Quaderni Fiorentini per lo Studio del Pensiero Giuridico Moderno, III/IV (1974/75) 495, p. 498-499 

  31. Così si esprime ad esempio Lobrano 1983 op. cit. 

  32. Questo ad esempio il triplice obiettivo dell’occupazione in comune del Teatro Valle, come esplicito dal preambolo dell’Atto Costitutiuvo della Fondazione Teatro Valle-Bene Comune,http://www.teatrovalleoccupato.it/wp-content/uploads/2013/10/STATUTO-FONDAZIONE-TEATRO-VALLE-BENE-COMUNE.pdf 

  33. Come Ugo Mattei (giurista-attivista del comune, se mi si può passare questa formula) sottolinea spesso, i beni comuni non sono dati, ma emergono attraverso il conflitto 

  34. Si pensi alla TAV e alla Val Susa, e alla sua “militarizzazione” che dà luogo all’applicazione dell’ art. 682 c.p. che punisce l’ “ingresso arbitrario in luoghi, ove l’accesso è vietato nell’interesse militare dello Stato”; o agli “sgomberi” di varie realtà comunarde ri-gettate nell’illegalità da meccanismi disciplinari che misurano solamente legalità formale quale strumento per legittimare violenza 

  35. Riconducibile all’”exodus” di Hardt e Negri, che proprio sull’altermodernità costruiscono la loro via di fuga dalla dialetttica della modernità, Hardt, M. e Negri, A. Commnwealth, Harvard University Press , 2011 

  36. Così ad esempio esplicitamente i comunardi del Teatro Valle, che all’articolo 1 dell’Atto Costitutivo stabiliscono che “La Fondazione si costituisce in attuazione autonoma e diretta degli artt. 1, 2, 3, 4, 9, 18, 21, 33, 34, 36, 43, 46 della Costituzione Italiana”