di TONI NEGRI.
Era tempo che il sindacato si muovesse. Chi ci credeva più? Non si comprendeva come, nel Sud europeo, solo in Italia non ci fosse una sollevazione contro l’austerity, contro il disastro sociale imposto alla classe operaia ed alla moltitudine dei lavoratori.
Torture e massacri ordoliberali sul corpo della forza-lavoro, minacce di guerra ai bordi dell’Europa — ma in Italia si sembrava storditi dalle ciarle di Renzi, confusi dai lazzi di Grillo, e imbambolati dalle grevi minacce del Presidente. E i sindacati sempre fermi. Fino ad attendere passivamente che domani l’indignazione dei poveri fosse recuperata da nuove macchine propagandiste? Antieuropee, corporative, fasciste sul binario delle locomotive lepeniste scagliate contro la resistenza allo sfruttamento sociale?
Il sindacato infine si muove. E se, non sommessamente, da un lato chiede ai nuovi poveri, ai precari, agli studenti, ai lavoratori immateriali e a tutti quelli che non ce la fanno più a sbarcare il lunario, di aiutarlo a riempire le piazze, dall’altro ingiunge di rispettarne l’egemonia. C’è tuttavia chi replica: viva la lotta di classe! L’egemonia a chi la possiede e la merita! Per questo domani gruppi di compagni hanno indetto uno sciopero sociale — un momento e un luogo di presa di parola di quelli che non hanno rappresentanza né politica né sindacale (precari, lavoratori intellettuali, dei servizi immateriali, del cognitariato, partite Iva, ecc.) ma anche di quelli che tale rappresentanza non hanno mai avuto o hanno perduto (migranti, disoccupati, tutte e tutti coloro che sono tenuti fuori dal mercato del lavoro). Sciopero metropolitano come forma specifica di ricomposizione della moltitudine nella metropoli. Lo sciopero metropolitano non è un allargamento e la socializzazione dello sciopero operaio: è una nuova forma di contropotere. Non vi sarà mai una sociologia funzionalista che possa disegnare lo sciopero metropolitano, l’incontro e l’incastrarsi comune dei vari strati della moltitudine metropolitana che vogliono costruire contropotere e potenza costituente.
È una «prima», rompe le convenzioni e con tutta probabilità rifiuta le buone maniere, perché riconosce e mette in primo piano la nuova realtà dello sfruttamento — quello che da ormai troppo tempo investe non solo la fabbrica ma la metropoli, non solo il lavoro ma la fatica di vivere. Sarà uno sciopero nuovo che costruisce cooperazione sociale, che riorganizza la società degli sfruttati? Sarà un momento per interrogarsi su nuovi metodi per interrompere il controllo che il capitale afferma sulla società, per costruire una nuova grammatica politica e per dar vita a spazi costituenti? Padroni e giornalisti, governanti e lepenisti diranno comunque, il 15 novembre, che lo sciopero sociale non è riuscito. Lasciamoli dire. Avremo dimostrato che la classe produttrice e sfruttata non è più solo quella che le corporazioni sindacali degli operai e dei lavoratori a contratto rappresentano ma è soprattutto quella dei lavoratori mobili e flessibili, che non conoscono contratto e che dentro e fuori dalle fabbriche subiscono uno sfruttamento ingigantito dal non essere rappresentati. Questi lavoratori rappresentano la maggioranza della forza-lavoro oggi — è sociale oggi il centro dello scontro di classe.
Con lo sciopero del 14 novembre, i compagni che lo promuovono vogliono trasformare quella realtà lavorativa che (occupati o no) essi sono, in un nuovo asse egemonico che comprenda tutti i lavoratori, rigetti ogni occasione corporativa di guerra fra i poveri, abbatta con forza adeguata ogni reazione fascista. Nel momento nel quale è vietato parlare di comunismo e nel quale il fascismo si dà un aspetto sempre più inquietante ed aggressivo, è a tutti noi l’obbligo di ricostruire quell’unità fra antifascismo ed anticapitalismo che abbiamo sempre avuto presente nella nostra coscienza. In questi anni di feroce reazione antiproletaria abbiamo imparato che il capitalismo non può che produrre miseria e guerra e che la democrazia che vogliamo riconquistare non può andare assieme al capitalismo. E poiché il confine tra lavoro e vita si è fatto sempre più sottile, l’obiettivo della lotta sociale di classe è divenuto quello di ottenere ed organizzare in maniera egalitaria un «welfare del comune». E si comincia rigettando il Jobs Act, nello stesso tempo aprendo lotte sul reddito garantito, sugli ammortizzatori sociali, sul costo del lavoro. E poi sulla comunalizzazione dei servizi e l’ottenimento di garanzie sociali per il lavoro. Da domani quei compagni di lotta cominceranno a costruire stabili laboratori di questo nuovo progetto e a sviluppare esperienze singolari di costruzione di percorsi e di nuova istituzionalità comune.
Perché oggi si ricomincia a lottare? Perché forse si apre un nuovo ciclo di lotte? Una nuova generazione si presenta alla lotta su un nuovo programma — ma soprattutto sperimentando nuove condotte. È probabilmente la sotterranea continuità delle lotte pregresse e la maturità della riflessione politica delle nuove generazioni che regge oggi una tensione di movimento capace di durare e di andare lontano. Essa ha la necessità di nuove istituzioni — prova a costruirle attraverso la lotta. L’arco è teso, la freccia…
* articolo uscito su il Manifesto nell’edizione del 13 novembre 2014.