di BENEDETTO VECCHI*. Una vita scandita dal debito. Quello contratto dai singoli verso imprese, università, banche. E quello subito in seguito ai debiti contratti da uno stato sovrano in base al quale uomini e donne devono sottoscrivere altri debiti per accedere all’assistenza sanitaria, per l’acquisto della casa, per garantirsi una pensione. Diritti sociali cancellati dalle politiche di austerity imposte da quello stesso Stato per adempiere agli impegni presi con il Fondo monetario internazionale, talvolta la Banca mondiale, la Banca centrale europea — per i paesi del vecchio continente – o grandi imprese finanziarie.
È questa la prigione del debito analizzata da Andrew Ross in Creditocrazia (ombre corte, Verona, pp. 194, euro 18), volume che ha al centro della riflessione gli Stati Uniti, ma che estende al resto del capitalismo avanzato la tesi che il debito sia lo strumento, meglio, il dispositivo attraverso il quale le imprese finanziarie possono continuare ad accumulare ricchezze, attraverso gli interessi da pagare, visto che una volta contratto il debito non sarà mai più estinto, né dai singoli, né dagli Stati sovrani.
Non è la prima volta che il debito viene messo al centro della riflessione di economisti, filosofi e sociologi. La genealogia del tema porterebbe molto lontano nel tempo e lambirebbe testi profani e testi sacri, ma per contestualizzare culturalmente il volume di Ross basti ricordare gli studi sul credito al consumo negli anni Settanta del Novecento – in particolare vale la pena menzionare il libro di James O’Connor su Individualismo e crisi dell’accumulazione (Laterza) -, ma soprattutto due studi di Maurizio Lazzarato su La fabbrica dell’uomo indebitato e Il governo dell’uomo indebitato, entrambi pubblicati da DeriveApprodi. E se O’Connor individuava nel credito l’«innovazione» elaborata dal capitalismo made in Usa per garantire il mantenimento dei livelli di consumo in un periodo di politiche di contenimento della crescita salariale, Lazzarato vede nel debito la cornice entro la quale vivono uomini e donne condannati ad esistenze precarie per quanto riguarda i rapporti di lavoro e l’accesso ad alcuni servizi ritenuti essenziali, come la casa, l’assistenza sanitaria, l’istruzione.
L’ipoteca sul lavoro
Il salario, in questo scenario, è sempre al di sotto dei bisogni socialmente determinati. Da qui la tendenza all’indebitamento individuale. Ma ciò che differenzia la situazione attuale da quella del recente passato è che il debito del singolo viene «cartolarizzato», cioè impacchettato e venduto ad altre imprese, facendo lievitare i loro profitti e, cosa non irrilevante, anche gli interessi dei debitori che non potranno mai saldare l’ammontare dei prestiti ottenuti, visto che la loro condizione lavorativa difficilmente migliorerà.
La precarietà, infatti, non è un obbligato e sgradevole rito di passaggio tra l’adolescenza e la vita adulta. È una condizione permanente già quando si frequenta l’università, visto che l’aumento della tasse scolastiche porta gli studenti o i loro genitori ad indebitarsi per «acquistare» sul mercato il diritto a una formazione scolastica superiore. E continua poi dopo, quando il lavoro – spesso al di sotto delle aspettative per quanto riguarda la remunerazione e la sua stabilità — serve a pagare il debito verso le università. E se la precarietà nel rapporto di lavoro continuerà a macerare l’esistenza, il debito individuale si svilupperà come una spirale senza fine. Per Maurizio Lazzarato, lo Stato definisce le norme che scandiscono, più che l’avvento dell’individuo proprietario caro ai neoliberisti a tutte le latitudini, il consolidamento proprio dell’uomo indebitato, un suddito alla mercè delle imprese finanziarie che hanno elevato a sistema l’usura e l’arbitrio nel definire i termini del credit resolving o quella estinzione del debito, che non potrà mai essere rispettata.
In soccorso della finanza
Una situazione divenuta esplosiva con la crisi economica del 2007. Termini come fallimento, default, bailout diventano le parole chiave attorno alle quali i media descrivono una situazione prossima a un catastrofico crollo del capitalismo contemporaneo. Ma se a livello sociale i sintomi più evidenti della centralità del debito sono la requisizione e la conseguente cacciata di centinaia di migliaia di statunitensi dalle case acquistate stipulando onerosi mutui, in altri paesi e continenti è lo Stato che rischia di fallire. E quando la situazione raggiunge l’acme, molte imprese e banche rischiano di andare in pezzi. Sono tuttavia imprese e banche troppo grandi per fallire, viene sostenuto perché, se ciò avvenisse, tutta l’economia mondiale correrebbe il pericolo di essere risucchiata in un gorgo senza fine. L’intervento dello Stato diviene dunque un obbligo.
Negli Usa, Barack Obama corre in soccorso di molte banche e imprese per evitare il fallimento. Ben presto il presidente statunitense sarà imitato da omologhi europei. Molti analisti vedono nelle decisioni del presidente statunitense un ritorno della figura dello stato imprenditore. Un abbaglio. Il fallimento è evitato, ma l’auspicabile inversione di tendenza rispetto le politiche economiche neoliberiste non ci sarà. Anzi l’intervento dello stato, più che imprimere una svolta verso politiche neokeynesiane, consolida la cornice neoliberista. Il peggio per il capitale è passato e la fabbrica dell’uomo indebitato può continuare a funzionare a pieno regime.
È in questa situazione che prende l’avvio il volume di Andrew Ross. Di origine scozzese, ha un profilo accademico difficile da inscrivere nelle classiche discipline universitarie. Si è occupato di sviluppo urbano, ma anche della poetica statunitense cosiddetta postmoderna. Ha dedicato libri alla crescita dei knowledge workers, ma anche agli effetti in Cina del decentramento produttivo dell’industria high-tech. Allo stesso tempo, ha analizzato la forma di vita dentro le «Disney town» – città sviluppate cercando di tradurre nella realtà quell’immaginario che la casa di produzione americana ha pazientemente tessuto in tanti anni -, così come ha messo a fuoco il ruolo della cultura gangsta nella società statunitense. Non ha, però, mai nascosto di essere un intellettuale «partigiano».
Docente alla New York University, quando Occupy Wall Street muove i primi passi, partecipa alle iniziative dell’accampamento di Zuccotti Park, diventando una presenza costante negli incontri e nei workshop dedicati alla diffusione della precarietà o alla gestione neoliberale dell’università.
Quelle settimane sono state un’immersione nel dolore, nella vergogna, nella rabbia di centinaia di giovani e meno giovani che, in una sorta di autocoscienza pubblica, hanno parlato del debito che hanno dovuto contrarre per continuare a frequentare l’università, per pagare il mutuo della casa, per accedere alle cure mediche. E hanno raccontato come quel debito più che diminuire ha continuato a crescere nel tempo. Una vita senza futuro è la convinzione diffusa tra i partecipanti a quegli incontri. Il debito, annota Ross, è «un disciplinamento della speranza». La vita presente è scandita da lavori sottopagati e gran parte del basso salario serve a pagare i debiti contratti.
Una disperata resistenza
In molti, anche se ancora studenti, arrivano a svolgere più lavori per «onorare» il pagamento delle rate delle carte di credito e dei mutui. L’indebitamento diviene una condizione normale e generalizzata. Inoltre, è anche una forma sofisticata e soft di controllo sociale. In base ad esso si accettano, appunto, lavori sottopagati e senza diritti. E si mette da parte ogni proposito di cambiare la realtà. È cioè uno strumento teso a prevenire ogni tipo di conflittualità sociale che metta in discussione i rapporti di forza tra le classi.
Le strategie di «resistenza» sono sempre individuali, senza che la gabbia delle creditocrazia conosca una crepa. Se una qualche capacità euristica possa avere l’espressione «finanza creativa», bisognerebbe guardare la gestione spericolata che milioni di uomini e donne hanno del proprio conto in banca e delle carte di credito, sempre in un desolante «rosso» fisso, per saggiarne l’efficacia descrittiva.
Andrew Ross parla degli Stati Uniti come una «repubblica dei debitori», anche se questo potrebbe valere per molti altri paesi. Ne ripercorre tutti i passaggi che hanno accompagnato la sua formazione per giungere a lapidarie conclusioni: l’un per cento della popolazione si è arricchito con il debito del restante 99 per cento; e di seguito: con l’istituzione dei prestiti Ninja (No Income, No Jobs, No Assets) la catena del debito blocca ogni possibilità di riscatto, perché sono prestiti che vengono erogati ipotecando il lavoro presente e futuro di chi li richiede. Per le imprese finanziarie, i resolver più affidabili sono proprio i poveri o quel ceto medio che è stato gettato nella discesa negli inferi della povertà. Da qui la necessità, per Ross, di sviluppare forme di resistenza collettiva per fronteggiare il debito. Per non pagare quello illegittimo.
Il mutualismo che verrà
È sulle vie d’uscita da questa situazione che il volume di Ross diventa problematico. Sia ben chiaro, è un libro militante e ogni critica ha valore se si parte proprio da questo sua caratteristica. L’autore è consapevole delle difficoltà di una strategia politica tesa a organizzare i debitori. La campagna per la cancellazione del debito alla quale ha partecipato non ha avuto i risultati sperati, eccetto una diffusa sensibilizzazione dell’opinione pubblica che nella «repubblica dei debitori» vede messa rischio la stessa democrazia politica a causa dell’occupazione da parte del capitale finanziario dei luoghi delegati alla decisione politica. Non basta però sostenere, come fa l’autore, che le lotte sul debito occupano ormai la scena del conflitto sociale e di classe per trovare efficaci vie di fuga. Semmai è evidente il fatto che va rotto l’incubo del contenimento salariale e della precarietà.
Il debito va, infatti, di pari passo proprio con il salario reso variabile dipendente dal regime di accumulazione capitalista. È questo il campo che va esplorato come campo di possibilità di rompere la gabbia del debito. E di lotta alla precarietà.
Il legame da costruire
Certo, il mutuo soccorso, l’autorganizzazione sociale per esercitare il diritto alla casa, la produzione dal basso di servizi sociali è elemento fondamentale per i working poor e i declassati lavoratori della conoscenza, ma tenere separati le rivendicazioni salariali e le eterogenee forme di cooperazione sociale conduce all’afasia dei movimenti sociali. La parola d’ordine del reddito di cittadinanza ha, da questo punto di vista, la capacità di prospettare una ricomposizione del lavoro vivo. Ricomposizione, non una sintesi definita come un apriori.
Una stessa capacità analitica dovrebbe essere applicata anche al cosiddetto debito sovrano. Il braccio di ferro tra Grecia e Unione europea rivela proprio questo inscindibile legame tra debito e conflitto sociale e di classe. Contrastare le politiche di austerità significa infatti destrutturare quella finanziarizzazione del welfare state che si cela dietro le retoriche del pareggio di bilancio.
Domani a Francoforte, movimenti sociali, sindacati manifesteranno contro l’inaugurazione dell’EuroTower, la nuova sede della Banca centrale europea simbolo delle politiche di austerità che, in nome del pareggio di bilancio, trasformando la catena del debito in una prigione dove la libertà non è di casa. E Francoforte può essere la città dove la lotta all’austerità può diventare lotta alla precarietà e al debito.
*questo articolo è uscito il 17/2/2015 su il manifesto