di GIROLAMO DE MICHELE.
«Quanto lontano è quell’anno del bicentenario della Rivoluzione francese in cui François Mitterand poteva presentare la politica in favore delle famigerate “banlieues” come un’opera di “civilizzazione urbana”, il cui scopo finale era “far si che non ci siano più città povere e città ricche”»1. Comincia con questa disincantata constatazione la presentazione di Thomas Kirszbaum al volume di saggi nel quale, con un taglio pluridisciplinare, storici, sociologi, urbanisti e geografi fanno il punto sul sostanziale fallimento della “politique de la ville” in Francia: «una politica a lungo saturata di discorsi che, nell’ebrezza dei “piani Marshall” e di altre “nuove ambizioni per le città”, lasciavano intendere che il “male delle banlieues” poteva essere definitivamente guarito a condizione di mettervi volontà politica e mezzi finanziari».
Un volume che si rivela prezioso, all’indomani delle stragi di Parigi, per una comprensione di quella banlieue che sembra essere assurta quasi a pietra filosofale ermeneutica nei discorsi di senso comune sulla relazione fra realtà urbana ed estremismo jihadista. Discorsi nei quali alberga spesso una rappresentazione della banlieue standardizzata, che non sembra scalfita dalla constatazione che i tre terroristi di Parigi non erano banlieuesard, mentre lo erano – della “famigerata” Seine-Saint-Denis – il poliziotto musulmano e l’impiegato sans papier dell’ipermarket kosher che ha salvato molti dei clienti: pur casuale, questa distribuzione degli attori lascia sospettare che le cose siano parecchio complicate2.
Una complicazione segnalata dallo stesso titolo del volume, che richiama un saggio di Anne Fourcant – Pour en finir avec la banlieue3 – nel quale si proponeva, con una sensata provocazione, la dismissione della stessa parola in quanto «mera metafora utile a circoscrivere e territorializzare comodamente le paure sociali». Sicché il volume curato da Thomas Kirszbaum, coniugando Mitterand e Fourcant, avrebbe potuto intitolarsi “La banlieue come volontà (politica) e come rappresentazione”: e forse il carattere inafferrabile di questo “singolare plurale” (secondo la felice definizione di Thierry Paquot4) trova ragione proprio nello iato fra l’oggetto-banlieue (nel suo darsi come dato fenomenologico) e la sua costruzione rappresentativa in complesse relazioni con la “città” e il “ghetto” – fino a innescare un cortocircuito di proiezioni urbane, sociali e razziali che assume la forma di una profezia che si auto-avvera.
La prima difficoltà è di stabilire che cosa definisca la parola “banlieue”. L’etimologia ci dice che la sua origine è il termine franco ban, che designa, nel contesto delle istituzioni feudali, la legge signorile il cui mancato rispetto comporta una sanzione: banlieue è la parola con cui si designa un territorio che circonda il dominio del signore, e sul quale si esercita la sua autorità, il ban. La radice etimologico-giuridica contiene dunque sin dalla comparsa medievale del termine la duplice relazione della banlieue con la città: è territorio che la circonda, ma al tempo stesso non è estraneo alla sua autorità.
Altrettanto rilevante, per la costituzione della banlieue nell’immaginario, è la sua caratterizzazione letteraria, potentemente influenzata in senso negativo dal Céline del Viaggio al termine della notte (la banlieue come discarica, cimitero, luogo esemplare della lâcheté umana). In realtà gli abitanti dell’immaginaria La Garenne-Rancy narrati da Céline, ricorda Fourcant, erano «operai o straccivendoli, pronti all’ingiuria e alla rissa, ma non diversi dai loro omologhi dei quartieri periferici»: gli svantaggiati dipinti come selvaggi di paese o bolscevichi col coltello fra i denti pronti a invadere Parigi «sono rispettabili operai e impiegati, che esaudiscono l’onorevole sogno di accedere alla proprietà privata di un angolo di terra, e poi di una casa». Al tempo stesso questa banlieue è «l’El Dorado della domenica delle classi popolari, che possono godere di aria pulita» e possono se promener au Bord de l’eau, lontani da quella Parigi che nous semble une prison, come canta Jean Gabin in La belle équipe: «la banlieue è dunque anche il luogo di tutti i possibili e di tutti i piaceri».
L’immagine della periferia che circonda e minaccia la città è reiterata nella filiazione dell’attuale “gioventù di banlieue” dalle pregresse bande dei “metallos” e dei “blousons noirs” in una successione senza soluzione di continuità di «figure della gioventù popolare maschile delinquente o sbandata»5. Così come c’è una continuità fra il sordo rancore piccolo-borghese verso l’ascesa sociale della classe operaia fra le due guerre, e la rappresentazione della banlieue come spaventoso “ghetto razziale” che viene agitata quando gli immigrati abbandonano le bidonville e i foyers, si integrano nel parco urbano e accedono, come i loro antecedenti operai, alla proprietà degli alloggi popolari a basso prezzo. Con la crisi del modello industriale negli anni Ottanta, la disindustrializzazione e la perdita di efficacia sociale e politica della classe operaia, nelle banlieues operaie scompare quella rete di solidarietà locale che aveva consentito di resistere al peso delle crisi sociali del passato6.
La “banlieue” diventa allora per un verso il luogo privilegiato delle tre figure dell’alterità – l’immigrato, il musulmano, il disoccupato/precario, a dispetto del fatto che nessuna di queste figure risiede in prevalenza nelle banlieues, e che gli stessi problemi sociali attraversano anche gli arrondissement di periferia; per altro, reitera l’immagine di un rapporto centro-periferia nel quale il centro è costantemente minacciato, e la periferia è rappresentata come quartiere in crisi, «ultimo avatar del vecchio organicismo che vede nella città un organismo che nasce, vive e si ammala (soprattutto nelle sue escrescenze), e necessita di un trattamento sanitario»7.
Correlato a questa lettura disciplinare è l’ideale di una condizione originaria di salute alla quale bisognerebbe ricondurre il “corpo malato”. A questa visione medicalizzante si aggiunge l’idea che la banlieue sia un contesto unitario, con una popolazione, una gioventù, una lingua: la stessa rappresentazione della banlieue come “ghetto”, sostenuta negli anni Ottanta da SOS Racisme, collegava al disegno di “casser le ghetto” per “casser les pauvres” l’ipostatizzazione di un soggetto giovanile unitario che lottava contro le discriminazioni8.
Questo soggetto unitario è esso stesso il prodotto di un’omogeneizzazione che «tende a mascherare le differenze significative fra gli abitanti di questo spazio» urbano, come dimostra l’analisi sociolinguistica di Philippe Hambye in un confronto con le tesi di Bourdieu sulla città come luogo di proiezione delle identità sociali9: spazio che è attraversato da differenze linguistiche, oltre che sociali, etniche, culturali, religiose sia endogene che esogene – quale, ad esempio, l’interiorizzazione dei conflitti globali all’interno delle comunità locali10. Le rappresentazioni di senso comune tendono infatti a vedere nella banlieue o nel quartiere i produttori di un gergo peculiare. Ma l’analisi degli usi e degli indici linguistici mostra che «tanto i discorsi degli abitanti dei quartieri popolari quanto quelli degli estranei a questi spazi contribuiscono alla (ri)produzione di un immaginario nel quale le frontiere spaziali si confondono con le frontiere linguistiche e sociali. In altri termini, la “strada” o la “banlieue” sono categorie socio-spaziali nella misura in cui servono a delimitare uno spazio e a designare un gruppo sociale particolare i cui membri sono identificati dalla condivisione di certi tratti caratteristici, in particolare linguistici». Nondimeno, anche un’osservazione superficiale delle pratiche linguistiche di una qualsiasi banlieue permette di constatare che «l’idea di una chiara sovrapposizione tra frontiere spaziali e linguistiche non corrisponde alla realtà»: i gruppi di abitanti dei quartieri popolari sono attraversati da «importanti differenze di pratiche sociali e linguistiche, legate ad esempio all’età o al genere», e da un fascio di traiettorie sociali che «rende possibile una diversità di pratiche linguistiche, semplicemente perché non c’è una relazione univoca fra il (non) possedere determinate risorse e il fatto di adottare un comportamento linguistico particolare». Sintetizzando: l’immagine omogeneizzante della banlieue tende a mascherare differenze significative fra gli abitanti di questo spazio, a dispetto di tutto ciò che hanno in comune; differenze che si situano al livello delle risorse linguistiche che posseggono i diversi attori, e soprattutto al livello della maniera in cui le pongono in atto».
Il fallimento delle politiche di gentrificazione11 discende dunque non solo da una lettura della banlieue in termini di patologia sociale, ma anche – è la franca ammissione di Dominique Figeat, figura di rilievo nelle politiche abitative degli anni Ottanta – nel non aver compreso che i rapporti sociali non si risolvono nel solo confronto fra capitale e lavoro: «La sfida etnica non era percepita come centrale all’interno della Commissione Nazionale per lo Sviluppo Sociale dei Quartieri [CNDSQ]. Per molti di quelli che l’animavano, di formazione marxista, la questione sociale era prevalente sulle questioni identitarie o dell’immigrazione. All’interno della Commissione, la gran parte dei componenti leggeva i quartieri popolari come affetti da problemi di urbanizzazione (la degradazione degli alloggi), politici (il malgoverno degli eletti nei consigli locali) o istituzionali (l’azione della polizia, l’educazione nazionale…). Io, segnato dalla lettura di Gramsci, sostenevo che i rapporti sociali non si riassumono nel solo conflitto fra capitale e lavoro, ma integrano altresì componenti culturali di cui bisogna tener conto. Ma la gran parte dei partecipanti alla CNDSQ negava qualsivoglia autonomia alla questione identitaria o migrante»12.
Dalla questione identitaria a quella dell’immigrazione (con le parole di Kirszbaum: il problema della «visibilità spaziale dell’alterità etnica»), dalle discriminazioni del mercato del lavoro a quelle che intercorrono nei rapporti fra giovani e polizia di quartiere. Su quest’ultimo tema è stato appena ripubblicato (con un’importante postfazione teorica) lo studio di Didier Fassin La force de l’ordre13, ormai diventato un piccolo classico, che descrive con un’osservazione “sul campo” le pratiche attraverso le quali contro un’antropologia del giovane deviante si viene a costituire un’antropologia identitaria chiusa, omertosa e manichea al tempo stesso, delle brigate anti-criminalità di quartiere, che ha l’effetto di produrre quell’alterità che intenderebbe reprimere (fino alla sua speculare riproduzione nelle derive identitarie jihadiste). Accade dunque, secondo Judith Revel14, che l’alterità del banlieuesard sia ricondotta «all’immagine rassicurante dello stesso»: stessi colore della pelle, religione, età, scacco rispetto all’integrazione e alla memoria dei padri, tutti elementi «al tempo stesso in parte veri e in parte falsi». E che questa identità sia reificata entro conflitti dicotomici: banlieuesard contro parigini, bianchi contro neri, poveri contro ricchi, selvaggi contro studenti, ecc.
Il potere ha bisogno di produrre questi processi di assoggettamento per poter leggere e dire il nome (foss’anche, con le parole di Sarkozy, “racaille”) della “strana soggettività” della banlieue: una soggettività che si manifesta, nella quotidianità come nei momenti di esplosione insorgente (quale la rivolta del 2005) come capacità cooperativa di produzione, materiale e immateriale, di soggettività, di relazioni sociali, di creatività. In definitiva, la ricchezza di un’identità moltitudinaria fondata su un “noi” provvisorio, mutevole, precario: un “comune” che «esiste senza assomigliare ad alcuna identità». Questo “divenire politico della banlieue” può essere la risorsa su cui costruire politiche “dal basso” che abbiano per obiettivo non la concessione di un potere, ma del potere di decidere delle proprie vite e della loro dignità e qualità. L’alternativa – la reiterazione delle politiche della città come si sono finora date – rimbalza tragicamente fra le pagine della cronaca nera e le prime pagine dei giornali.
Nota
Questo testo, apparso in forma più ridotta sull’Indice dei libri del mese di marzo, costituisce una sorta di “seconda parte” del mio #jesuishumaine pubblicato qui.
En finir avec les banlieues? Le désenchantement de la politique de la ville, dirigé par Thomas Kirszbaum, Éditions l’Aube, Paris 2015. ↩
Molto più complicate delle letture di chi nei giorni successivi al 7 gennaio ha nascosto la propria testa (e la propria incapacità di ragionare) sotto la sabbia di rassicuranti benaltrismi, e ha interrogato il mondo solo per trovarvi la conferma dei propri libri. ↩
Annie Fourcaut, Pour en finir avec la banlieue (2000), in Banlieues: une anthologie, préparé et présentée par T. Paquot, Presses polytechniques et universitaires romandes, Lausanne 2008. ↩
Thierry Paquot, Banlieues, un singulier pluriel (2003), in Banlieues: une anthologie, cit.. ↩
Fourchant, cit.. ↩
Éric Marlière, Des «métallos» de l’entre-deux-guerre aux «jeunes des cités», in En finir avec les banlieues?, cit.. ↩
Fourchant, cit.. ↩
Christine Lelévrier, «Casser le ghetto, chasser les pauvres»? Les effets paradoxaux de la rénovation urbaine, in En finir avec les banlieues?, cit.. ↩
Philippe Hambye, Des banlieues au ghetto. La métaphore territoriale comme principe de division du monde social, “Cahiers de sociolinguistique”, 2008/1, n. 13, p. 31-48. ↩
A titolo d’esempio: l’ebreo sefardita di Saint-Denis o del XVIII arrondissement condivide con l’immigrato musulmano non solo lo stesso “couleur gris”, ma anche lo stesso squallore sociale, lo stesso abito, lo stesso cous-cous. La prossimità sociale fra i due è molto maggiore di quella che ciascuno dei due ha con la borghesia ebraica del Marais, o con l’immigrato magrebino che ha scalato qualche scalino sociale e acquisito uno status borghese in centro. Nondimeno, una linea invisibile di inimicizia, introiettata dai conflitti mediorientali, li separa: all’estremo, l’uno si radicalizzerà diventando sostenitore di Marine Le Pen e del Front National, l’altro cominciando a frequentare la moschea salafita. ↩
Sulle politiche di gentrificazione urbana, per un approccio anche metodologico, si veda Peter Marcuse, Gentrification, Abandonment, and Displacement: Connections, Causes, and Policy Responses in New York City, 28 Wash. U. J. Urb. & Contemp. L. 195 (1985), qui. ↩
Democratiser la gestion des quartiers populaires. Le pari de la Commission nationale pour le développement social des quartiers, entretien avec Dominique Figeat, in En finir avec les banlieues?, cit.. Non diceva cosa diversa Foucault quando, in dibattito con Noam Chomsky, affermava che «il potere politico si radica molto più in profondità di quanto non si sospetti; ci sono centri e capisaldi invisibili, poco noti; forse la sua vera solidità, la sua vera resistenza si trova là dove non ce lo si aspetterebbe. Forse non basta dire che dietro i governi, dietro l’apparato statale, c’è la classe dominante; bisogna individuare il punto di attività, il luogo e le forme sotto le quali si esercita questo dominio. E poiché questo dominio non è la semplice espressione, in termini politici, dello sfruttamento economico, esso è il suo strumento e, in larga misura, la condizione che lo rende possibile; la soppressione dell’uno si compie attraverso la comprensione esaustiva dell’altro. Non riuscendo a riconoscere questi capisaldi del potere di classe, si rischia di permettere loro di continuare ad esistere e di vedere questo potere di classe ricostituirsi dopo un apparente processo rivoluzionario» (Michel Foucault, Human Nature: Justice versus Power, in Dits et écrits, Gallimard, Paris 2001, vol I, n. 132, pag. 1364, trad. it. Michel Foucault, Noam Chomsky, Invariante biologico e potere politico, Derive Approdi, Roma 2005»). ↩
Didier Fassin, La force de l’ordre. Une anthropologie de la police des quartiers, Seuil, Paris 2011 (nuova edizione 2015); trad. it. La forza dell’ordine, La Linea, Bologna 2013. ↩
Judith Revel, Qui a peur de la banlieue?, Fayard, Paris 2008. ↩