di BENEDETTO VECCHI. Frédéric Lordon è un sociologo e economista cresciuto intellettualmente quando il Sessantotto aveva smesso da tempo di echeggiare nelle stanze del Cnrs, il centro di ricerce francese dove lavora dopo aver frequentato l’Institut supérieur des affaires e un dottorato presso l’École des hautes études en sciences sociales. Autore di numerosi saggi, Lordon ha fondato, assieme ad altri, “Les Économistes atterrés“, un gruppo di economisti che prova a ribattere punto su punto le tesi neoliberiste. Capitalismo, desiderio, servitù, il libro da poco mandato in libreria dalla casa editrice DeriveApprodi (pp. 213, € 16), si propone di sviluppare un’antropologia delle passioni nel lavoro contemporaneo ed è stato salutato come un innovativo tentativo di utilizzare la filosofia di Baruch Spinoza per definire il rapporto salariale nel neoliberismo. A questo testo ne è seguito un altro (con la speranza di una sua rapida traduzione), La société des affects : pour un structuralisme des passions (Éditions du Seuil) dove riprende e sviluppa molti dei temi presenti nel libro da poco pubblicato.
Lordon ha un volto solare che sprizza ironia da ogni poro. Irriverente verso il marxismo da lui ritenuto ortodosso, parla del neoliberismo come una trickle down economy della gioia e delle passioni, persino di quelli tristi, per indicare come la gioia e la capacità di desiderare dei singoli debba essere l’alfa e l’omega della relazioni di lavoro, anche se all’interno di un dominio stringente del capitale sulla vita messa la lavoro. Da qui la sua proposta di fare leva sulle «passioni sediziose», come ad esempio l’indignazione, per costruire una res comune, cioè un comunismo dove i singoli «non ricercano per sé nulla che non quello che desiderano gli altri uomini». L’intervista si è svolta tra Roma e Milano, dove Lordon ha presentato il suo libro all’interno di Bookpride, la fiera degli editori indipendenti che si è svolta nei Frigoriferi milanesi.

Nel libro lei si dilunga molto nella critica al concetto di servitù volontaria di Étiene de La Boétie. A differenza di La Boétie lei sostiene che nel rapporto di lavoro salariato interviene la condivisione tra il desiderio-padrone e i salariati; entrambi si collocano in un comune orizzonte di gioia. Cosa intende?

Capitalismo, desiderio, servitù nasce dall’incrocio di due aspetti che hanno attraversato la discussione pubblica. Il primo riguarda la rinnovata fortuna delle tesi sulla «servitù volontaria» in questi anni di crisi economica. Tesi, spesso, condivisa da una parte della sinistra francese. È noto che Étiene de La Boétie sviluppa questo concetto per indicare la sottomissione volontaria a una condizione di dominio e che tale condizione di libera sottomissione possa essere interrotta a partire da un atto di volontà dei singoli. Una tesi non convincente per descrivere invece l’ordine neoliberale. La Boétie scrive nel diciassettesimo secolo e vede nella servitù l’esisto di una libera scelta. La sua è una filosofia del libero arbitrio che sarà fortemente sottoposta a critica nell’analisi del rapporto salariale che diventa dominante con il capitalismo industriale. È infatti difficile parlare di un libera scelta nel diventare schiavi. Inoltre, è una tesi che non aiuta a comprendere le dinamiche sociali e politiche nel capitalismo neoliberale, dove assistiamo a una mobilitazione generale del lavoro salariale, che viene assoldato, ingaggiato per garantire profitti e riproduzione dell’ordine costituito. In questa mobilitazione generale i fattori passionali – il desiderio, la gioia, gli affetti – o per usare una parola-chiave in Spinoza, il conatus, cioè la potenza di agire, svolgono un ruolo essenziale.

Lei sostiene, tuttavia, che esiste un legame tra arruolamento del lavoro salariato e la rigidità della gerarchia sociale.

monopolyC’è un aspetto nella tesi La Boétie che può tornare utile laddove viene stabilito un rapporto tra la sottomissione volontaria e, appunto, la gerarchia sociale. Ma a differenza di quanto scriveva La Boétie la figure intermedie che intervengono nella mobilitazione totale del lavoro operano affinché le passioni dei singoli possono essere meglio allineate al desiderio-padrone. Questa tendenza alla mobilitazione generale del lavoro salariale è stata d’altronde sempre ricercata nel capitalismo, ma ogni volta incontrava limiti e vincoli posti dallo stesso lavoro salariato. La figura sociale che meglio incarna questa «potenza di agire» e gli affetti come elementi qualificanti del rapporto salariale è il quadro. I quadri delle imprese [il management di medio livello, n.d.r.] costituiscono proprio il paradigma vivente di una adesione passionale al proprio lavoro. Una situazione che non esclude il fatto che molti lavoratori si recano al lavoro senza grandi entusiasmi e passione. La loro, per usare ancora una volta un’espressione di Baruch Spinoza, può essere anche una passione triste, ma è questa dimensione dimensione emotiva, appunto passionale, ha rappresentare il nucleo duro del rapporto di lavoro salariale. Distinguo tre regimi passionali che sono intervenuti nella messa al lavoro degli affetti. Il primo è quello inerente il ricatto del salario per soddisfare i bisogni primari. Marx parla, in questo caso, «del morso della fame». Nel regime del lavoro salariato qualificato come fordismo, le passioni entravano in campo al di fuori del lavoro. Esemplare è la dilatazione dei consumi di massa. Nel neoliberismo invece le passioni sono parte integrante della mobilitazione capitalistica al lavoro. Il fenomeno che meglio esprime la centralità delle passioni è la finanza. Per usare un lessico marxiano, la moneta è sì un operatore del valore, attiene cioè al rapporto di lavoro salariato, mentre il denaro è la moneta come oggetto del desiderio. La liquidità finanziaria è, da questo punto di vista, la rappresentazione «alienata» del diritto incondizionato del desiderio. In questo quadro, il lavoro può essere descritto come il mondo della girl friend experience: banalizzando è il mondo dove trovare finalmente i propri oggetti del desiderio.

In molte imprese però, questo allineamento tra il desiderio-padrone e quello dei salariati è delegato ai lavoratori salariati. In questo caso, i quadri sono figure residuali, irrilevanti.

Può accadere che i quadri diventino irrilevanti. Ciò che è importante è comprendere come avviene l’allineamento.

Per lei, però, l’angolo che esiste tra il desiderio-padrone e il desiderio dei salariati deve tendere a zero.

È proprio questo l’obiettivo che si nasconde dietro la mobilitazione totale del lavoro. Nel capitalismo neoliberista la mobilitazione è generale perché investe tutta la gerarchia sociale. Il docente universitario mobilita chi fa ricerca o lavora negli atenei, il committente mobilita gli artisti, il direttore d’orchestra mobilita i musicisti. In ogni caso, tanto il padrone, che il docente universitario che il direttore d’orchestra devono far sì che ci sia soddisfazione in chi è arruolato, perché in questo arruolamento devono essere messe in campo potenze affettive, desideranti altre, terze da quelle di chi le mobilita. Quindi sono attivate strutture, istituzioni che devono arruolare, mobilitare il lavoro. È tutta la struttura di classe che interviene. Ci troviamo di fronte a una catena dove tutti possono essere arruolare o essere arruolati senza interruzioni temporali. Per questo nel capitalismo neoliberista vita e lavoro coincidono. È la presenza di questa catena che spiega la violenza del capitalismo neoliberista. Se tutti siamo assoldati e arruolatori, vuol dire che tutti noi contribuiamo, seppur con modalità e intensità diverse, alla violenta messa al lavoro della vita.

C’è una forte eco in questa mobilitazione totale del lavoro alcuni temi sviluppati dal filosofo tedesco Axel Honneth per quanto riguarda il riconoscimento. In Honneth, il riconoscimento avviene all’interno di un movimento che va dalla contrattazione all’adesione piena al potere dominante. C’è dunque alternanza tra conflitto e adesione piena all’ordine capitalistico, senza però che il primo aspetto, il conflitto, metta in discussione il secondo aspetto.

Anche se non cito Honneth, posso dire che il filosofo tedesco sviluppa un modello particolare, specifico di riconoscimento, quello che discende dalla filosofia di Hegel e che va iscritto a un modello specifico del regime delle passioni nel capitalismo. A quella teorizzazione preferisco l’idea di riconoscimento in Spinoza. Per l’autore dell’Etica il riconoscimento appartiene sempre al desiderio, alla gioia, agli affetti. Non c’è mai una dimensione di privazione. Il riconoscimento deriva infatti dalla condivisione di un orizzonte di desiderio e un problema di attivare una sensibilità comune che deve essere prodotta, «fabbricata». Pierre Bourdieu ha parlato di questa produzione come un processo di violenza simbolica.

Nel libro lei si dilunga molto sulla cattura da parte del desiderio-padrone del desiderio dei salariati. Sono le parti dove viene criticata la legge del valore presente in Marx. Nella sua analisi la cattura è anch’essa una catena che non ha mai fine.

Mi capita spesso di litigare con amici marxisti ortodossi. Posso dire, senza remore, che respingo la teoria sostanzialista del valore in Marx. D’altronde sono convinto che esistono due teorie marxiste del valore contraddittorie tra loro. C’è, ad esempio, una teoria «relazionale» del valore che viene usata, ad esempio, per analizzare il feticismo delle merci. Allo stesso tempo, lo stesso Marx nel Capitale parla del lavoro come sostanza del valore. Per molti marxisti, lo sfruttamento può essere spiegato solo da questa concezione del lavoro come sostanza del valore. Se si nega questo, dicono i marxisti ortodossi, tutta la teoria dello sfruttamento crolla. Quel che ho provato a fare è di mantenere l’idea di sfruttamento sganciandola, per così dire, dalla teoria sostanzialista del valore. Preferisco infatti parlare di sfruttamento delle passioni, idea che non mette in discussione, ad esempio, il discorso marxiano della sussunzione reale. Il tentativo di appropriarsi di tutto ciò che le forze viventi producono è caratteristica di questa forma di capitalismo. Assistiamo cioè a una intenso sfruttamento della vita umana e delle sue passioni e dei suoi desideri. Richiamo un’altra volta Spinoza: è la potenza di agire immanente alla natura umana che il capitale punta ad appropriarsi.

Lei parla di dominio come una soluzione di compromesso, mettendo così in discussione molte delle acquisizione delle teorie moderne della politica. Concetti come consenso, coercizione, governo perdono capacità interpretativa del potere esercitato nel capitalismo neoliberale.

Non è una questione di compromesso. Bisogna certo chiarire cosa si intende per consenso, coercizione, governo. È evidente che il capitalismo ha sempre prodotto un’immaginario per far sì che i dominati accettino il regime del lavoro salariato. Nel fordismo aveva a che fare con l’accesso ai consumi. Agenti di questa produzione di immaginario erano i media, la pubblicità, che non si limitava solo a illustrare le qualità di una merce, ma anche a illustrare le virtù di uno stile di vita. Questo nel capitalismo neoliberista è dilatato all’ennesima potenza. La produzione di immaginario è cioè fondamentale per «catturare» le passioni dei singoli. Dove si colloca, qui, il confine tra consenso e coercizione? Da nessuna parte, perché è irrilevante stabilire dove c’è consenso e dove è coercizione. Ho già fatto riferimento alla violenza simbolica concettualizzata da Pierre Bourdieu. In quella schema i dominati aderiscono alla situazione di dominio.
Collaborano al proprio dominio, aderendo cioè all’ordine simbolico dominante. È una collaborazione dove i dominati assegnano, seppur a malincuore, legittimità al loro dominio. Un sistema sociale non può funzionare senza questa adesione dei dominati. Il regime di rapporto salariale contemporaneo è basato proprio da questa adesione e allineamento della passioni dei salariati al desiderio padrone. In questo allineamento entra però un fattore di gioia e di realizzazione di sé.

Ha collaborato Ilaria Bussoni. Questa intervista è stata pubblicata sul msnifesto del 4 aprile 2015

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