di ANTONIO NEGRI, RAÚL SÁNCHEZ CEDILLO.*

[Deutsch] 

 

Il sistema democratico costituzionale nel dopoguerra europeo si è organizzato in tutti i paesi (e dopo il ’78 anche in Spagna, con il complemento delle forze nazionaliste e/o indipendentiste) attorno a un modello di ricambio nell’esercizio del governo fra destra e sinistra, nel quadro di un sistema capitalistico in evoluzione e soggetto a riforme – ma sostanzialmente indiscutibile. Erano i termini di Yalta. Questo modello è in crisi. In molti paesi europei ormai vi sono infatti terze forze, presenti sul campo elettorale, che sconvolgono quello schema duale. Ci si dovrebbe chiedere a questo punto se non sia stato a partire dalla previsione della crisi del modello costituzionale post-bellico – e comunque dalla percezione di un’incontinenza ormai chiara del modello democratico classico – che ha cominciato a costruirsi la nuova struttura costituzionale dell’Unione europea. Essa apparve come garanzia del mantenimento di un modello capitalista di sviluppo a fronte del declino delle sue forme stato-nazionali. D’altra parte, destra e sinistra erano già scivolate verso il “centro”, costruendo artificiali forme di rappresentanza e di governo indirizzate ad un equilibrio che volevano stabilizzato ad futura, eliminando ogni dialettica di riforma o di trasformazione.

Oggi, dunque, la situazione sta modificandosi rapidamente. La crisi greca comincia a mostrare che quella omogeneità del comando (composto da “destra” e “sinistra”) rappresenta una funzione in senso conservatore e non di rado senz’altro reazionaria. Da un lato, la destra considera l’Europa una sua preda. Il modo in cui le destre, fin qui maggioritarie in Europa, hanno agito e continuano a farlo mostra che esse vogliono un’Europa che sia il loro esclusivo prodotto – una vera e propria reificazione. D’altro lato, guardando ai governi socialisti, catturati in un blocco centrista che permette loro la gestione di parziali interessi, si osserva come essi abbiano declinato ogni speranza di rinnovamento. Il penoso harakiri di Zapatero in maggio di 2010 o l’autodistruzione del PASOK ne è testimonianza.

L’Unione europea, così come si è formata e come oggi si presenta, governata da un “centro” politico – capace di azioni estremiste e devastatrici nella difesa degli equilibri capitalisti – è ricattata e, forse, destinata alla frantumazione. Quanto più le moltitudini europee hanno compreso che, in un mondo globalizzato, solo un’organizzazione continentale poteva permettere il soddisfacimento dei bisogni vitali delle popolazioni, tanto meno le classi politiche europee hanno mostrato di gradire un’Unione politica – se non era direttamente ed esclusivamente costituita nel loro interesse.

Abbiamo bisogno di risalire da questo declino e di rimettere in gioco la democrazia nella costruzione del progetto europeo. È necessario alla Grecia per sopravvivere, alle forze democratiche spagnole per affermarsi e vincere, a tutti gli europei per riconoscersi in Europa e per uscire da una crisi e da una austerità che ormai non solo rendono difficile sopravvivere ma impediscono di essere liberi. Questo bisogno deve trasformarsi in una decisione politica perché, non appena il desiderio di Europa diverrà maggioritario tra le moltitudini, allora i capitalisti e i loro governi faranno di tutto per distruggere l’Europa stessa. Loro possono giocarsela in entrambi i terreni, quello dell’Europa esistente e quello dei vecchi nazionalismi aggressivi. Noi, invece, no.

 

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È particolarmente doloroso il fatto che per parlare a favore dell’Europa, per lavorare alla fondazione di un potere costituente che ne imponga un carattere sociale e una qualificazione democratica in una prospettiva federalista, si debba oggi sviluppare la polemica contro gran parte delle sinistre in Europa. È chiaro che esse hanno venduto il loro diritto di progenitura. Senza-titoloGià nel 2005, momento del Referendum sulla Costituzione europea, la cecità delle sinistre europee si mostrò in forma assolutamente chiara. Il fatto è che i socialisti europei non vedono altra possibilità di fare politica e di gestire il potere se non a livello dello Stato-nazione. Questa settaria cecità nazionalista è rinata (dopo una lunga eclisse) ed è posta in auge nel corso della crisi europea. Invece di allearsi ai movimenti di lotta per modificare la realtà dell’Unione europea, le sinistre europee si son spesso dichiarate non solo a favore delle politiche di austerità ma anche contro l’Europa (come ad esempio avviene ancora in Francia), mosse da un egoismo corporativo che sta togliendo alla parola “sinistra” ogni suo ultimo bagliore. Tanto è che quest’egoismo per l’Europa si confonde facilmente con l’odio delle forze fasciste contro l’Unione. Si dice, da parte delle sinistre ufficiali, che l’Europa non può funzionare perché inizialmente, in luogo di un governo politico, si è preferito, nel processo nascente, affidarsi a delle burocrazie giuridiche: ed è vero. Si dice poi che in una seconda fase si è tentato politicamente di far marciare assieme economie che hanno un ritmo diverso e talora contraddittorio senza far giocare, in quel momento, spunti efficaci di unità programmatica sul piano fiscale e culturale: ed è vero. Poi, sotto il fuoco della crisi, ogni meccanismo di compensazione non ha potuto che venir meno e ciò ha portato l’Unione e l’Euro – proprio in mancanza di ogni contrafforte politico – sul bordo del disfacimento, a discapito della grande maggioranza delle popolazione del Sud dell’Europa: ed è vero.

Ma perché i partiti di sinistra vogliono oggi farci la lezione quando sono stati appunto la loro visione esclusivamente statuale, il corporativismo dei sindacati e il tradimento di ogni speranza internazionalista a condurci a questa situazione? Che l’unità politica dell’Europa costituisca l’elemento fondamentale della sua riuscita economica e civile nel quadro globale, è più che evidente. Questa politica doveva essere la sinistra a portarla avanti – quand’essa invece si è confusa e corrotta nell’alleanza con la destra a livello non solo delle istanze di governo nazionali ma soprattutto europee.

 

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Ora non c’è più tempo da perdere. Riprendere l’integrazione vuol dire oggi aprire una campagna costituente, vuol dire eliminare quel consenso passivo che fin qui ha permesso l’affermazione delle attuali strutture europee e la continuità del disastro provocato dalle loro politiche. Vuol dire sviluppare un’opinione pubblica che cominci a proporsi una nuova prospettiva costituzionale. Dopo la vittoria di Syriza e nutrendo la speranza in quella prossima di Podemos, dopo che ampiamente in Europa cominciano a nascere forze politiche euro-radicali, si comprende anche che costituire l’Europa significa togliere di mezzo i parametri conservatori che ne hanno fin qui determinato le strutture e le politiche. È strano rilevarlo solo ora ma in effetti è da quando Syriza ha vinto che hanno cominciato a sovrapporsi e a camminare insieme la dimensione interna e quella esterna dell’Unione, la spinta a un regime di maggiore eguaglianza e libertà, lo sforzo di fare del “comune” oltre la falsa dicotomia fra il privato e il pubblico un valore riconosciuto all’interno di ogni paese d’Europa, e nello stesso tempo una pressione – che attraversa tutti i paesi europei – all’integrazione federale democraticamente sancita. È un processo solo iniziale, tendenzialmente maggioritario. Bisogna in ogni caso riconoscere che c’è un nuovo spirito costituente nell’aria; non sarà proprio la percezione di questo che – di ritorno – produce tanti isterismi e volgarità a livello dei media dei padroni, delle dichiarazioni dei partiti e delle burocrazie europee? C’è una nuova comprensione che la dimensione di liberazione all’interno dei singoli paesi vada coniugata con la potenza della federazione a livello di tutta l’Europa – non è questo che mette paura a ristrette e insipienti oligarchie nazionali?

 

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In un bell’articolo, apparso su il manifesto in questi giorni, si è ricordato il “giuramento della Pallacorda” che i rivoluzionari del Terzo Stato stipularono quando divenne evidente che gli altri Stati dell’Ancien regime non avrebbero Le-Serment-du-Jeu-de-paumepotuto sottoscrivere una riforma costituzionale fondata su libertà, uguaglianza e solidarietà. È di un passaggio analogo che hanno bisogno oggi le forze democratiche in Europa – di un giuramento costituente che permetta di individuare nuove forme di unione federale e nuove strutture di unità economica su livello europeo su una base che raccolga la nuova radicalità democratica espressa dal 2011 in poi.

Ci sono presupposti di politica estera, giuridici ed economici, che stanno alla base di questa necessità costituente – alla quale deve corrispondere una decisione politica che si incarni nei movimenti. Gli elementi di politica estera emergono da una attenta riflessione sulla collocazione dell’Europa a livello globale. L’Europa oggi fa parte di un blocco di forze strette nel Patto del Nord-Atlantico che orienta, in maniera irresponsabile, le politiche estere dei paesi dell’Unione. Gli interessi delle popolazioni europee sono del tutto subordinati al potere atlantico. Su questo terreno, si assiste ogni giorno a paradossi ingiustificati e a imbrogli ingiustificabili, l’ultimo dei quali sta nel finanziamento da parte europea della guerra ucraina e nel contemporaneo rifiuto del finanziamento al debito greco. Ma il groviglio di passività dei popoli e di opacità delle decisioni, dei compromessi e delle viltà, in politica estera, dei singoli paesi e dell’Unione è inenarrabile: basta! L’irresponsabilità di tale rapporto strategico e militare, in quest’epoca di instabilità globale, rappresenta una pericolosissima condizione che ogni iniziativa costituente dovrà prendere – in prima istanza – in considerazione. (E in questo c’entra assolutamente la fine della violenza contro le persone nelle frontiere esterne dell’Unione). L’Europa, liberandosi dal condizionamento atlantico, deve esser messa in condizione di sviluppare politiche autonome tanto per promuovere scambi e mettere a disposizione del mondo l’intelligenza collettiva e cooperativa, il general intellect di cui parlava Marx fin qui costruito; tanto per sostenere i popoli ancora oppressi e per costruire una pace e uno sviluppo duraturi.  Noi dimentichiamo infatti che oggi la pace è in questione.

Quanto alle condizioni giuridiche, è chiaro che la spinta verso una struttura federale del governo delle moltitudini di Europa non può che rappresentare l’obiettivo centrale in questa fase costituente. Noi siamo per un potere costituente che in Europa costruisca una federazione. Siamo per costruire in prospettiva un ordinamento federale che registri, mobiliti e consolidi gli interessi civili, economici e morali, dei cittadini di ciascuno Stato, in una comunità di europei che riconosca la cittadinanza europea di quei cittadini di seconda e terza categoria che sono i migranti non comunitari. Sappiamo che “federarsi” è difficile perché, nella fase attuale, esige la distruzione delle oligarchie del governo europeo e quindi di quelle delle oligarchie dei partiti dei singoli paesi dell’Unione. Ma la federazione la si può costruire oltre questi ostacoli quando si abbia presente che essa non è solo un’unità di Stati, di configurazioni economico-politiche diverse, ma è il processo dentro il quale si rivelano una nuova storia d’Europa (oltre le guerre del passato) e le virtù di cui essa può oggi essere capace (di una ricchezza di forza-lavoro cognitiva, produttrice di innovazione economica e civile).

Ma soprattutto ancor di più insistiamo sul fatto che a partire dall’attuale livello delle lotte politiche e sociali, delle nuove lotte di classe, dell’organizzazione sociale del lavoro e dell’estrazione di ricchezza, l’unità europea ed il federalismo non possano costituire una macchina giuridicamente intoccabile che riproduca le attuali differenze di classe. Non può essere il gioco nel quale tutto cambia perché nulla cambi, come è avvenuto nelle transizioni europee dal fascismo alla democrazia del dopoguerra ed ancora negli anni ’80 nella transizione spagnola. Noi vogliamo una costituzione che esiga, dall’alto, una governance di libertà; dal basso, dalle moltitudini, un esercizio di gestione egalitaria nella produzione e nella redistribuzione della ricchezza. Negli anni scorsi abbiamo visto formarsi in America Latina nuove costituzioni democratiche che combinavano pluralismo dei soggetti a dispositivi di riforma economica molto efficaci, e che costruivano nuove solidarietà sociali alla luce di un irresistibile senso dell’eguaglianza. Non si tratta di imitare quelle esperienze o di confrontarsi al loro successo. Si tratta di suscitare e promuovere una dinamica democratica capace di vincere sul terreno di una costituzione federale del comune. Si tratta di diffondere e di mettere in atto un’imprenditorialità politica della società che combini libertà e ricchezza. Si tratta di eliminare definitivamente ogni sentimento di identità che non produce altro (e sempre) che nazionalismi oppure democrazie suicidarie nel loro riprodursi in maniera oligarchica. Si tratta di costruire un’Europa giusta e unita. Purtroppo, non c’è alternativa. Le irruzioni democratiche delle moltitudini in Grecia, in Spagna e poi il succeso di Syriza e la speranza di Podemos non sono da questo punto di vista che un inizio, un’occasione che va colta con coraggio e intelligenza.

 

* articolo uscito in contemporanea su publico.es il 20 aprile 2015.

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