di IIEP – PEDRO BISCAY*
Questo testo è una bozza di lavoro e continuerà a essere elaborato collettivamente.
1. Come abbiamo già detto, l’attuale tipo di inclusione si da per mezzo del consumo mentre, simultaneamente, si ampliano le categorie della finanza e i modi di soggettivazione e si rinnovano le forme dello sfruttamento. Questa modalità di inclusione è accompagnata da un irrigidimento delle politiche securitarie – classiste e razziste – che articolano la società nella misura in cui organizzano “la guerra per la sicurezza”: una guerra che si apre intorno alla concorrenza per il consumo e permette di introdurre una violenza organizzata nella gestione del controllo e nella disputa per gli affari e per il territorio.
È possibile sganciare la crescente intermediazione finanziera (crediti, sussidi, debito) dalle modalità di sfruttamento e di violenza? E con che dispositivi pratici si potrebbe aprire un’inchiesta su questo?
2. Ci proponiamo di porre in evidenza l’attivismo (il tatticismo) e non solo la passivizzazione che possono implicare i debiti. Vale a dire, non solo come si governano l’uomo e la donna indebitati. In questo senso assumiamo quanto sostenuto di recente da Silvia Federici: “La finanziarizzazione di tutti e di ciascuno degli aspetti della vita quotidiana mediante l’uso delle carte di credito, dei prestiti, dell’indebitamento, specialmente negli Stati Uniti, deve essere pensata più come una risposta al crollo dei salari e un rifiuto dell’austerità che ne è derivata, che come un semplice prodotto della manipolazione finanziaria”(2013: 173).
Come è possibile dar spessore all’ipotesi del consumo come una dinamica di anti-austerità e di realismo post-salariato e, al tempo stesso, porre a critica la mediazione finanziaria che il consumo stesso impone? Possiamo inchiestare le forme concrete di questo tatticismo? Possiamo rilevare il tipo di consumi?
3. Supponiamo che il giro verso la Cina da parte delle economie latinoamericane esprima una tensione: obbedire al comando delle finanze o aprire le finanze come campo di battaglia, disarticolando la moneta dal potere di comando dell’aristocrazia del capitale. Per noi il rifiuto dell’obbedienza alle finanze globali è la condizione interna/esterna fondamentale per una dinamica di democratizzazione popolare che ecceda la matrice neo-sviluppista.
Come analizzare questa relazione di forze tanto all’interno delle lotte locali che nell’ambito delle politiche internazionali? Con che elementi possiamo valutare tanto la politica di indebitamento/sdebitamento a livello nazionale e globale che ciò che stiamo chiamando “finanze dal basso”? Che significa, da questo punto di vista, andare oltre la matrice neo-sviluppista?
4. La dittatura come categoria di una teoria politica delle finanze
Stiamo scoprendo fino a che punto l’ultima dittatura sia statacostituzionalizzante: da una parte, ha promosso una legislazione che segue tutt’ora vigente e la cui portata ci richiede uno sforzo per superare la coppia analitica degli anni Ottanta democrazia/dittatura a livello dello stato per percepire, piuttosto, il neoliberalismo come una estesa dittatura delle finanze sulla società. Però c’è di più: al di sotto del carattere formale o legislativo del potere neoliberale appare il carattere materiale o sostanziale della costituzionalizzazione della società. La dimensione materiale della costituzione concerne i soggetti e le soggettività. Attraverso il terrore militare – e quello propriamente finanziario – si è instaurata una vera e propria “ragione neoliberale” che agisce a livello di habitus e affetti tanto qui in Argentina che, in forme diverse, in quasi tutto il mondo. Generalmente queste soggettività non vedono il neoliberalismo come un comando politico, ma piuttosto come un libero e trasparente flusso del desiderio. E questo perché il neoliberalismo è un modo di governo che non passa solo per l’imposizione a livello dello stato, ma per un’estesa e partecipativa rete micropolitica che include le nostre decisioni sul consumo. In questo senso, solo le lotte sono in grado di percepire il neoliberalismo come una “dittatura delle finanze”, di marcare il suo carattere conflittuale e generatore di nuove violenze.
A partire dal post-2001, la democrazia si sviluppa secondo una situazione paradossale: mentre il politico ruota intorno a una volontà nazionale e popolare che aspira a ribaltare le politiche neoliberali già delegittimate, la ragione neoliberale si riproduce e si rilancia assumendo come premessa i postulati della teoria politica populista, per la semplice ragione che questa teoria diffonde la sua egemonia culturale su uno sfondo costituzionale neoliberale – il governo delle finanze – che non ha potuto alterare. Questa terza fase della democrazia è molto più conflittuale e aperta e tende a perforare la dimensione istituzionale producendo oscillazioni tra momenti più dinamici e altri di stagnazione.
Pensare a fondo la dittatura suppone trascendere per lo meno tre inerzie del liberalismo: l’ideologia liberal-istituzionalista; quella liberale di mercato; e quella liberal-populista (che continua a essere, sicuramente suo malgrado, nazional-liberale, nella misura in cui non è riuscita a pensare in modo non mistificato la idea di uguaglianza sociale), che si crede capace di sganciare la questione democratica dal suo contenuto neoliberale puro appellando al contenuto nazional-statale senza forzare aperture radicali a soggetti e immaginari di lotta sorti nei decenni di impugnazione della agenda neoliberale.
5. Il governo delle finanze e la politica del capitale
Nel 1983 la dittatura politica ha ceduto il passo alla democrazia parlamentare. Tuttavia la capacità del capitale, nel suo volto finanziario, di imporre il suo comando richiede una comprensione politica specifica. Da un lato, le finanze costituiscono uno spazio dinamico di rappresentazione della produzione del valore sociale. Dall’altro, dispongono di meccanismi di comando: la moneta come minaccia e capacità di sanzione; l’indebitamento e la corrida cambiaria. E da un altro ancora la moneta produce un tipo di servitù macchinica, in senso guattariniano, poiché assume i soggetti come parti del proprio funzionamento.
Il potere del sistema monetario è globale e dipende da una complessa architettura finanziaria al cui vertice si trovano pochi stati e poche istituzioni che riuniscono sovranità imperiale e regime aureo. Possiamo chiamare “dittatura delle finanze” la capacità della moneta capitale di imporre il suo comando alla società produttrice di valore.
È possibile pensare che la dittatura delle finanze si articoli e sia compatibile con la democrazia politica a livello dello stato? Lo stiamo vedendo. Il problema, tuttavia, continua a essere quello di pensare una teoria politica non liberale della democrazia, in grado di comprendere il comando del capitale come restrizione concreta della democrazia e del benessere popolare.
Se ci vediamo spinti a intentare di formulare una “teoria politica delle finanze” è perché notiamo come sia effettivamente il potere del capitale nella sua forma monetaria a costituzionalizzare le società, dappertutto, negli ultimi anni.
Facciamo uso della distinzione classica tra la dimensione formale e materiale/sostanziale del potere, entrambe egualmente reali e operative in ogni costituzionalizzazzione del potere, per immaginare una contro-costituzionalizzazione.
Se la dittatura delle finanze è definita dal modo in cui costituzionalizza formalmente e materialmente un determinato processo politico nel quale lo stato è una parte mentre la governamentalità – e la ragione neoliberale che la sostiene – il tutto, a costituire la sua natura intima è la traduzione della produzione sociale del valore in un’esigenza di valorizzazione capitalistica. La sua attività di traduzione del sociale, sempre guidata da una volontà di sfruttamento e dominio, la converte nella forma del capitale più adeguata affinchè si possa moltiplicare seguendo la stessa dinamica sociale. Le finanze articolano il potere concentrato della decisione politica con una plasticità capillare e microfisica. Tali attitudini le permettono di seguire i circuiti della valorizzazione sociale, forzandola a tradursi nei termini di una valorizzazione capitalistica. Le finanze rappresentano, mistificate, il valore sociale prodotto dalle forme di vita. La loro attività consiste nella creazione dispositivi di lettura ed espropriazione-per-
Si tratta, dunque, di analizzare/scontrarsi con l’egemonia delle finanze in entrambi i livelli – formale/materiale. Possiamo definire questo scontro come l’apertura di uno spazio di lotte contro la mediazione finanziaria del sociale, contro la sussunzione della dimensione legale e materiale delle soggettività all’interno della valorizzazione finanziaria. Disponibili a immaginare questo nuovo campo politico, possiamo prendere nota di alcune caratteristiche che tali lotte, tanto nel loro potenziale che nei loro limiti, ci mostrano:
1. Superare la scala meramente nazionale (e il dilemma secondo il quale il finanziamento è dato dal mercato interno dei capitali via borsa o sistema internazionale di credito) verso una nuova geopolitica in grado di operare sulle mutazioni in corso nel mercato mondiale;
2. Costruire la idea di un supporto di finanziamento al benessere pubblico e ai diritti social
3. Combinare la legislazione e la capacità effettiva di controllo degli illegalismi delle finanze con la sperimentazione di nuovi meccanismi di coordinamento sociale della rendita, cosa che include una disputa a fondo intorno alla spesa pubblica;
4. Formalizzare una teoria politica in grado di prolungare le lotte sociali per il benessere verso la lotta nel terreno delle finanze, sganciando il sistema della moneta da quello della valorizzazione finanziaria;
5. Produrre una comprensione strategica del campo di battaglia.
6. Governi progressisti, mediazione finanziera e agenda di lotta
Il problema di una dittatura delle finanze è inseparabile da ciò che Christian Marazzi e altri compagni hanno teorizzato come il “divenire rendita del profitto” e da ciò che, all’interno dei governi progressisti, sperimentiamo come mediazione finanziaria del sociale.
La retorica della militanza progressista insiste sull’idea di un’emancipazione politica il cui strumento è il proprio stato: liberato dagli artigli dei mercati e delle corporazioni, lo stato si convertirebbe così in un formidabile strumento di crescita e inclusione sociale.
Il problema di questo ragionamento, che colloca le corporazioni al di fuori del continuum popolo-stato, consiste nel fatto che, evitando di problematizzare la mediazione finanziaria del sociale, evitando di problematizzare la costituzione attuale del potere finanziario – potere che ancora oggi finanzia lo stato attraverso il debito interno – non traccia le coordinate di una lotta contro la rendita. Una lotta che, verso “fuori”, deve saper assumere una dimensione globale. E, verso “dentro”, gerarchizzare i soggetti valorizzanti della trama biopolitica.
Per questo, come ha detto di recente Pedro Biscay[1], è necessario pensare a supporti finanziari che diano priorità ai diritti sociali, ai beni comuni. E definire la democrazia delle finanze non a partire da controlli legali, ma piuttosto in base alla capacità di tradurre le lotte sociali in nuove soggettività e meccanismi legali.
7. Possiamo pensare una democrazia delle finanze?
Se assumiamo l’idea che il governo del capitale si realizza come una dittatura delle finanze dovremmo dire che tale dittatura è terminata? E quando: 1983; 1989; 2001, 2003?
Ce lo domandiamo con molta precauzione. Non pretendiamo certo di screditare le differenze fondamentali che esistono tra una democrazia parlamentare e la tirannia delle forze di sicurezza. Stiamo solo preparando il terreno per porci la seguente questione: chiamiamo democrazia delle finanze l’apertura della realtà finanziera a una disputa sociale e politica trasformatrice della società. In un’epoca di dominio del capitale finanziario, la questione politica torna a giocare intorno alla necessità di un machiavellismo in grado di fornire alle moltitudini le chiavi di una democrazia autentica. Da questo punto di vista, l’importanza degli archivi del passato che ci mostrano la natura dell’articolazione tra finanze e dittatura acquisisce un’importanza eccezionale all’interno di questo preciso contesto e di questo campo di tensioni. Mira non solo a rivedere la nostra comprensione della(e) dittatura(e) argentina(e) in un senso “militar-corporativo” più che “civico-militare”, ma ci indica anche il cammino lungo il quale l’inchiesta politica si incontra con le forme di dominio dittatoriale della realtà capitalistico-finanziaria, la continuità delle trame che attraversano le nostre società e ci insegna a estendere, dalle lotte sociali, una capacità di invenzione politica in grado di aprire la dinamica finanziaria a un campo di battaglia contro il capitale.
È immaginabile sganciare il consumo dal governo delle finanze? Come dice Lazzarato, il debito condiziona un’economia morale. C’è tutto un apparato di sanzione individuale che governa il tempo del lavoro-consumo. E c’è una costante minaccia di sanzione a livello della macroeconomia, per la salute della moneta. Un altro argomento appare come una mera opzione utilitaria: si danno sussidi al consumo per ammortizzare gli attacchi al salario però così si riattiva anche il motore economico (anche se al costo di effetti, in potenza ma anche in attualità, violenti) Tuttavia, il consumo deborda persino questa paura. Come? In che forme? È una via di democratizzazione?
8. Segreto e opacità. O sul segreto della democrazia
Fino a ora ci siamo proposti di definire la dittatura delle finanze non a partire dalla sua illegalità, ma dal modo impositivo nel quale traduce la produzione del valore sociale in leggi e soggettività adeguate allo sfruttamento (ragione neoliberale). Di mostrare che in questo dispositivo gli illegalismi sono parte del potere dittatoriale. E anche l’ossessione per il secreto, chiave dell’operazione finanziaria ed elemento che contribuisce, in un altro piano, a ciò che stiamo definendo opacità strategica. Da una parte, si afferma una logica del secretocome privilegio del mondo dei privati in transazioni riservate. A interessarci è come questa logica del secreto si lega a ciò che stiamo chiamando “opacità strategica”. C’è un linguaggio inintelligibile delle finanze: si tratta di tecnicismi che portano al massimo la mistificazione delle relazioni sociali che coinvolgono le finanze. Potrebbe essere l’altra faccia del “segreto”.
“Opacità e potere”: quali sono oggi i meccanismi per mezzo dei quali il secreto, nelle sue diverse manifestazioni, si appropria di e da forma all’azione politica? E qui si apre radicalmente il problema delle nuove violenze, ciò che stiamo chiamando, già da un tempo, il nuovo conflitto sociale. Quali sono gli elementi che mettono in relazione la violenza organizzata con l’intermediazione finanziaria?