di GIROLAMO DE MICHELE.
Se n’è andato per un brutto male contro cui ha lottato per anni Luca Rastello, un bravo compagno che ha fatto cose importanti come giornalista indipendente sempre dalla parte del torto, cioè la nostra, dalle guerre di Jugoslavia (La guerra in casa, 1998) alla TAV (Binario morto. Lisbona-Kiev. Alla scoperta del Corridoio 5 e dell’alta velocità che non c’è, con Andrea De Benedetti, 2012) dal narcotraffico (Io sono il mercato, 2009) ai migranti (La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani, 2010) fino al marcio che si annida nelle cooperative “belle e buone” (I Buoni, 2014). L’aver sollevato, in tempi non sospetti, il velo di ipocrisia sulle cooperative onlus gli procurò censure e attacchi feroci da Maramaldi di fama. Il Povero Yorick lo ricorda con un testo pubblicato su L’Indice n. 7/8 2014 (e poi su carmilla) al quale proprio I Buoni fornisce l’acchito.
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C’è una frase, attribuita a Italo Calvino, che Mauro affigge sulla parete dell’ufficio della Onlus “In punta di piedi” in cui lavora: Dove si fa violenza al linguaggio è già iniziata la violenza sugli umani. La frase richiama la lezione americana sull’esattezza contro quella peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e livellamento dell’espressione sulle formule generiche e astratte: sarà interpretata come una velata critica al guru della Onlus (poco preciso, nel suo parlare a braccio, con i congiuntivi), e usata come argomento per “accompagnare” Mauro fuori dalla comunità. L’etica del linguaggio viene così pervertita da quello stesso uso delle parole che avrebbe dovuto contrastare.
Questo episodio si appoggia sul principale, anche se non unico, piano di significazione di I buoni di Luca Rastello1: la costruzione, attraverso l’uso simultaneo di tecniche retoriche e carisma personale, di un mondo allucinatorio ma realissimo, nel quale il discorso della Bontà, attraverso le sue declinazioni, struttura e definisce non solo se stesso, ma anche il campo avverso, quello del Male. La “memoria condivisa”, “la frusta dell’oltre”, il “bene a regola d’arte”, l’impegno, la “costruttività” («ok, questa è la tua protesta, ma dov’è la proposta?»), il “metterci la faccia”, l’insistenza di parole come “noi, nostro, nostra”, la “corresponsabilità” usata come un martello per inchiodare l’avversario: la creazione del nemico, «il lorsignori dell’oratore. Chi non è con noi è contro di noi. E quindi con le mafie. Quintessenza dell’esclusività, travestita da inclusione. Il bene assoluto che si erge contro il male assoluto». Il male, beninteso, esiste: è la città dell’Europa orientale devastata da una miseria che appare irredimibile, dove abita il popolo delle fogne, in un’alternativa tra il male dei sotterranei e il peggio delle strade in superficie. Di quel male è testimone Andrea, il giornalista che abdica al proprio dovere etico; da quel male proviene Aza, che attraversa i porosi confini tra Oriente e Occidente per giungere alla periferia della Città frontale: gli scheletri dei capannoni, carcasse paleontologiche di passate cattedrali industriali, illuminati dai fuochi che scaldano i migranti-fantasma, «un intero popolo alla macchia, come blatte nelle crepe dei muri». Da questi margini Aza giungerà ai Piedi, metterà a frutto la capacità di cogliere sfumature e dettagli, di afferrare il peggio degli esseri umani e volgerlo a proprio vantaggio, entrerà a far parte della corte ristretta di Silvano, il capo carismatico dei Piedi, fasciata da uno stretto tailleur. Libro feroce, quello di Rastello: che narra di una storia in apparenza localizzabile per farne allegoria di una condizione esistenziale nella quale «abbiamo bisogno di accettare un mondo inaccettabile che ci stritola, e abbiamo bisogno di abitarlo sotto anestesia. Abbiamo bisogno di rimandare la lotta, ma abbiamo bisogno anche di fingere di combattere, e di amare la lotta». E quindi abbiamo bisogno dei Silvano, i cavalieri del Bene che combattono al nostro posto una battaglia che non abbiamo tempo di combattere: a un popolo di dannunziani, scriveva un altro torinese in altri tempi (ma davvero altri?), non si può chiedere spirito di sacrificio. Per questo compito Rastello ha scelto la forma ibrida del saggio-romanzo; o meglio, con buona pace di chi ha visto “ipocrisia” della forma o “abdicazione” della responsabilità dell’inchiesta, dell’oggetto letterario (secondo la formula del New Italian Epic, a riprova della vitalità di questa individuazione), il cui archetipo è A sangue freddo di Capote.
Libro feroce, ma non cinico: piuttosto, parresiastico, mosso dal coraggio della verità. Per coglierne la portata è utile allargare lo sguardo alla “mistica della celebrità“, incarnata da figure come Bono Vox2, e al crescente spazio mediatico conquistato da pop-star che pretendono di esprimere la pubblica opinione non in ragione di criteri come la coerenza, le qualità politiche o lo spessore ideologico, ma a partire del proprio ruolo e della propria fama. Cui fa da correlato la legittimazione a rappresentare la pubblica opinione da parte di soggetti politici in base a qualità estetiche (gesti, capacità retorica, costruzione dell’immagine). Questa politica dell’apparenza è oggetto, a partire dagli studi ormai decennali di John Street3, di una crescente mole di ricerche che hanno scandagliato le pratiche con cui la rappresentanza politica diventa sostituzione di oggetti e interessi pubblici, in un quadro nel quale la rappresentazione “costruisce” il reale. La Bonoization of diplomacy si fonda su rappresentazioni e interpretazioni dell’Africa elaborate da un immaginario coloniale che ri-produce l’Africa all’interno di un progetto specificamente occidentale: questi ambasciatori della buona volontà contribuiscono così al mantenimento dell’egemonia del mondo occidentale sull’Africa, e a rafforzare il consenso nei confronti dell’ordine mondiale che non viene mai chiamato in causa come principale artefice della disuguaglianza globale4. Da cui il cinismo del capitalista-filantropo che sdegnato dalla morte di un bambino privo di un’operazione da 20 dollari, paga l’operazione e lascia che il bimbo viva in quel mondo che produce la malattia. Il “fardello del rock-men” (Browne) piegato a “servire i bisogni dei suoi sottomessi” si palesa la versione aggiornata del “fardello dell’uomo bianco” di Kypling. Al tempo stesso, il dispositivo filantropico della celebrità è in grado di incantare lo spettatore, ma senza smuoverlo dal proprio ruolo passivo5: orienta non all’azione, ma alla delega. Stimolando il desiderio di identificazione con stili di vita di livello superiore, le celebrità politicizzate «legittimano l’ordine sociale riaffermando il mito delle uguali opportunità per compiti straordinari e nascondono così la contraddizione tra il moderno ideale di democrazia egualitaria e la realtà delle persistenti gerarchie»6.
C’è dietro queste ricerche la potente onda di quegli studi post-coloniali che hanno per emblema il libro di Dipesh Chakrabarty Provincializzare l’Europa. La stessa impostazione è presente, associata al lavoro degli anni Sessanta su meridione e sottosviluppo di Ferrari Bravo e Serafini, nel libro collettivo Briganti o emigranti7, che riapre la questione meridionale dopo il fallimento delle politiche di sviluppo del Sud (ma se il sottosviluppo dei sud d’Italia e del mondo è funzionale alle politiche della governance globale, è ancora lecito parlare di “fallimento”, piuttosto che di pianificazione?).
Questi studi mostrano come la costruzione dell’Italia unitaria sia stata accompagnata da quello che Napoleone Colajanni definì “l’invenzione di un romanzo antropologico”: la percezione del Sud come una realtà compatta priva di differenze interne, un luogo estremo di “alterità”, “primitività”, “arcaicità”, che ha influenzato, per reazione o difesa, gli stessi meridionalisti.
L’apparentamento del meridionale “senza storia né civiltà” al negro, allo slavo e all’ebreo (secondo l’antropologo – absit iniuria – Alfredo Niceforo, la cui “scienza”, per la «proprietà transitiva dell’odio», sarà portato a sintesi nel Manifesto della razza fascista) è consustanziale alla rappresentazione di un Sud che, come l’Africa, «deve essere accompagnato alla civiltà e alla modernità soltanto tramite misure eccezionali». La forma moderna di questa ricostruzione dello spazio meridionale è la retorica della legalità, che ricaccia ogni forma di conflitto sociale e contestazione dell’ordine simbolico del potere nel campo semantico delle mafie e dell’illegalità; e confina il pensiero meridionale nell’alternativa senza residui tra il “buon meridionalista” che varca la soglia dell’accettazione del modello di sviluppo eterodiretto e il “nostalgico neo-borbonico”8.
La necessità di un ripensamento di un “orizzonte meridiano” parte dalla constatazione che il “Meridione”, così come è stato rappresentato, non esiste. Come del resto, ci dice Biondillo sin dal titolo dei suoi reportage, non esiste l’Africa: «Esistono esperienze dell’Africa, mai definitive»9. Esistono «realtà mutevoli, non solo di nazione in nazione, ma anche all’interno dello stesso territorio. Innovazione e arretratezza, immobilismo e fuga verso il futuro». Le nostre idee monolitiche di un’Africa immobile si disfano sotto i colpi dell’esperienza diretta: con un soggetto in perenne mutazione la foto viene sempre mossa. Ma se le uniche voci che ci narrano i mondi che costituiscono il continente africano sono quelle dell’emergenza, delle carestie, dell’aiuto umanitario, «la percezione che abbiamo di quel mondo diventa inevitabilmente distorta, falsata, vittimistica»: non annotava cosa diversa Gramsci, a proposito della percezione del Meridione al nord. Viaggiatore non per caso, Biondillo si adatta a una sorta di breviario laico: «non crederti migliore di nessuno, non giudicare, non sei il portatore di alcuna civiltà, sarà più quello che riceverai di quello che donerai, accetta di essere pieno di pregiudizi e di luoghi comuni, tuttavia non credere di essere l’unico, la cosa è reciproca». E nondimeno ai pre-giudizi Biondillo riesce a sfuggire anche grazie alla sua personale bussola per orientarsi nel mondo: quello sguardo dell’architetto (non è forse vero che l’architettura non è estetica, ma etica?) che gli permette al tempo stesso di scompaginare la topografia ritrovando i codici stilistici italiani in Africa, e di sorprendersi per l’esistenza della cattedrale in terra cruda di Djenné, nel Niger, che da secoli viene ogni anno rigenerata dall’intero villaggio, attraverso pratiche che fondano non “il Bene”, ma i “buoni comportamenti”.
Luca Rastello, I buoni, pp. 204, € 14, Chiarelettere, Milano 2014. ↩
Harry Browne, The Frontman. Bono (nel nome del potere), edizione italiana a cura di Wu Ming 1 e Alberto Prunetti, pp. 284, € 15, Alegre, Roma 2013; vedi anche l’intervista su Giap a Henry Browne. ↩
John Street, Celebrity Politicians: Popular Culture and Political Representation, in “The British Journal of Politics and International Relations”, vol. 6, 2004, pp. 435-452. ↩
Riina Yrjöla, From Street into the World: Towards a Politicised Reading of Celebrity Humanitarianism, in “The British Journal of Politics and International Relations”, vol. 14, n. 3, 2012, pp. 357-374. ↩
Lilie Chouliaraki, The Theatricality of Humanitarianism: A Critique of Celebrity Advocacy, in “Communication and Critical/Cultural Studies”, vol. 9, n. 1, 2012. ↩
Robert Fletcher, Blinded by the Stars? Celebrity, Fantasy, and Desire in Neoliberal Environmental Governance, Paper Prepared for Symposium “Capitalism, Democracy, and Celebrity Advocacy”, University of Manchester, UK, 19-20 June 2012. ↩
Briganti o emigranti. Sud e movimenti tra conricerca e studi subalterni, a cura di Orizzonti meridiani, pp. 224, € 19, ombre corte, Verona 2014. ↩
Una falsa alternativa che ha prodotto e fornito a Nichi Vendola il frame retorico della pizzica e taranta come unica alternativa miserabilista all’ILVA di Taranto, e permette tutt’ora a certi riformisti da salotto di proclamarsi “di lotta e di governo” all’insegna del “chi non salta è Pino Aprile”. ↩
Gianni Biondillo, L’Africa non esiste, pp. 210, € 15, Guanda, Parma 2014. ↩