di FANT PRECARIO.
1. Intro
Bisogna fare, sciopero!/per un lavoro da cane/ sciopero!/per un salario da fame/non si può no non si può/ ammazzarci di fatica così…..Cinque ore di sciopero/ e cinque morti all’officina di Portici/quattro ore di tempo per parlare/ la quinta ora per farsi ammazzare (Stormy Six, Sciopero).
La canzone rievoca uno sciopero avvenuto a Portici nel 1863 soffocato nel sangue (così instaurando una prassi che si sarebbe ripetuta ossessivamente nel corso degli anni successivi e sino a noi). Perché avviare il discorso con il ricordo di una vicenda ottocentesca quando si vuole trattare di un tema di scottante attualità? Perché rischiare di vedersi addirittura retrocessi – nella consuetudinaria accusa di vetero – da “novecenteschi” (insulto tralaticio nell’incedere ichiniano) addirittura all’alba del secolo precedente?
Anzitutto, perché la situazione in cui versa la condizione precaria è assai più assimilabile a quella d’operaio della canzone che a quella del potente movimento fordista. Inoltre, per rimuovere un ostacolo che incontra ogni trattazione sullo sciopero nell’oggi, laddove si procede dall’invocazione nostalgica dello sciopero “di massa”, e in quel punto le parole scorrono fluenti come acqua di fonte, mentre la descrizione e la prognosi arrancano nell’individuazione delle modalità operative di una “astensione dal lavoro” contemporanea.
Non sfuggirà ad alcuno, ad esempio la valenza attualissima delle quattro ore di tempo per parlare nella miserabile condizione precaria, quando – tutti chiusi in tante celle, tutti curvi sul fatturato in locali messi a disposizione dal padrone o approntati alla bell’e meglio nel tinello della mamma o nella stanza dello zio morto di tumore all’ACNA, se non all’interno della propria (?) auto – scatta la voglia di confrontarsi tra tapini conformi per sofferenza e sfruttamento.
[I annotazione: quanto alla quinta ora per farsi ammazzare, beh, sul punto ci sono maree montanti di Cucchi e Aldrovandi a tracciare il solco, e non è un caso che l’estate sia stata oltraggiata da violente campagne contro i morti de rave, come a stigmatizzare che l’unica morte dignitosa è quella per impiccagione, strozzati da una corda di debiti, in questo caso un’oretta postuma su Rete4 non ti sarà negata].
Quindi, per fare un po’ di chiarezza, almeno a me stesso, scandirò tempi e note dell’indagine per assiepare pensieri e proposte che tengano conto della spuria, lancinante, divisa, talvolta maleodorante, condizione precaria; il ricordo dei racconti di chi gli scioperi nell’800 li ha fatti (per lo sciopero novecentesco tale necessità non sussiste, tanto ne sono/siamo intriso/i) mi guiderà nell’indagine.
2. Sciopero come bestemmia
a) È perlomeno da Seattle, che ad ogni indizione di sciopero mi chiedo: sarà l’ultimo sciopero fordista o il primo sciopero cognitario?
[II annotazione: la domanda sorge spontanea anche per il grunge, incubato senz’altro nelle macerie di fabbriche né più né meno che i centri commerciali che colà il neo-capitale pose, ma incerto nelle conseguenze, non riuscendo in larga parte il gran dispiego di schitarrate che a ipotizzare le soggettività prodotte dallo schianto delle armate in tuta blu (verde solo per i più trendy, che usavano olio Castrol). Ben differente esito avrebbe avuto, quasi coevamente, l’indagine dei Blur ormai pienamente calati nella realtà del mercato immobiliare “immobollizzato” pre-Lehmann Brothers da moltitudini di Charmless men (la storia di un uomo senza fascino / l’istruzione nelle scuole più costose/ Sa distinguere un vino chiaretto da un Beaujolais/ Credo che avrebbe voluto essere Ronnie Kray/ Ma la Natura non lo ha reso come lui/ Pensa che le arie colte, quel patrimonio di famiglia/ Lo proteggeranno, che lo rispetterete/ Frequenta circoli di amici che fanno solo finta di apprezzarlo / Lui fa lo stesso con loro e tirando le somme /Il risultato è il modello di uomo senza fascino). Inoltre è da dubitare che l’operaio sociale avrebbe mai portato le camicie infeltrite di Kurt].
Si tratta evidentemente di domanda mal posta e fondata su un equivoco, ingenerato, probabilmente, dal fatto che anche se si latra in prospettiva futura, l’immaginario è cristallizzato sui fotogrammi dello sciopero generale (“contro il fascismo e il capitale, sciopero, sciopero generale!”) e con esso disciplina, normativa, soggetti proponenti, soggetti partecipanti (addirittura, pur in modo furbesco e strumentale, chi allo sciopero si oppone).
Non si sfugge, cioè dal principio informativo dell’astensione collettiva dal lavoro da parte di una struttura organizzata che si riconosce in qualcosa (ed è grave, stante la frastagliata natura della condizione precaria) ovvero in qualcuno (ed è peggio).
b) Lo sciopero è (stato, perlomeno) quanto ho detto; ma sciopero è anzitutto bestemmia contro il lavoro, contro la catena; non quella reale, di montaggio, laddove tutti uguali eravamo, ma quella – parimenti fisica, che ci lega al maledetto diritto, al (presunto e sudicio) onore del “guadagnarsi il pane”, all’avere credito per essere inseriti nell’orrido processo di produzione – che lega il lavoratore alla paghetta.
[III annotazione: l’insistere governativo per avere studenti inseriti nel mondo del lavoro onde pervenire allo status di lavoratore perennemente in formazione, è in fondo questo: adolescenza infernale, “controllata” e perenne) per poter arrivare stanchi e laceri alla tomba].
Il porchiddio, smascheramento della natura fittizia ed imposta del sinallagma, affermazione immediata dell’inesistenza di un contratto di lavoro, anche quanto la prestazione è conclamata da pagine e pagine sottoscritte da sindacati servi e padroni suinomorfi (come nelle migliori pagine di Alan Ford gli Assessori), è da sempre presente nel vocabolario del lavoratore e può essere declinato in varie fogge e fatture: solitario, sussurrato, gridato, ma sempre materiale, fisico, perché fisico è il dolore che ci lega al lavoro.
Quando la materialità del sentire si erge -ostativa- verso il vincolo che – pretesamente e per opera di giuristi servi, semplici formalistici riproduttori delle istanze del capitale – lega il lavoratore al padrone scatta lo sciopero, da intendersi quindi come organizzazione della singolarità bestemmiatrice in moltitudine blasfema.
3. Sciopero inadempimento
a) Lo sciopero è sempre rifiuto del lavoro, rivolta che palesa, procedendo da rifiuti particolari, la necessità di slegare la vita dal sacrificio.
Il capitale, al fine di sminuire l’aspetto insorgente e costituente di ogni sciopero, ha tentato (con innegabile e duraturo successo) di ridurne l’impatto riducendo lo sciopero a mera – vieppiù programmata – astensione, inadempimento alla prestazione lavorativa dedotta nel contratto di lavoro.
Di qui la repressione ovvero il riconoscimento (sempre parziale, specificato, declinato, incanalato, comunque, nel solco della produzione e dell’espropriazione) dello sciopero quale “diritto” ovvero mera “libertà” (quest’ultima esplicitata nella non punibilità dello sciopero in sede penale ferma la responsabilità “civile” verso il datore) a seconda degli aspetti che del rapporto di lavoro venivano di volta in volta valorizzati (invero, a seconda della potenza che il movimento operaio esprimeva e la pressione che lo stesso esercitava su giudici e governi).
Ancora oggi la discussione soffre di questa impostazione riduttiva e truffaldina: tanto che, all’apparire della cd coalizione sociale, ineffabili agenti governativi hanno cominciato a intrattenersi sulla velleitarietà illegittima (e la continuità nelle modalità di censura dal PCI al PDRenziano è commovente: aspettiamoci per il prossimo autunno caldo l’accusa di titoismo) di alcuni scioperi, assumendo la (insensata e superatissima, ove mai nel concreto sussistente) distinzione fra sciopero politico (da leggersi in chiave quasi sovversiva di questo) e sciopero economico (rettamente inquadrato nella prospettiva renziana, di richiesta, magari a voce un po’ troppo alta, di elemosina). Si segnala per la ruvida incisiva grettezza il maresciallo SI-TAV Esposito che ha recentemente dichiarato che «l’USB è un sindacato ideologico e politico che teorizza lo scontro sociale».
[III annotazione: direte, non hai certo citato Calamandrei (o Jean Domat, che quest’estate va alla grande)! È vero, ma il soggetto (lo stesso che dopo la sconfitta della Juventus per 3 a 1 nella finale di Berlino contro il Barcellona ha tuittato «godere per la sconfitta della Juventus è come essere impotenti ed esultare se qualcuno fa godere la tua donna”» è stato prescelto proprio per la violenza del linguaggio vuoto, e del resto in fondo pavido, perché come per l’asino di Fedro chi perde il potere (operaio?) che aveva prima, diventa lo zimbello dei vili nella sua sciagura. Ed è per riscattare l’affronto di questo sciame di cialtroni (vergogna della natura), per evitare di morire due volte, che occorre interrogarsi sulla natura dello sciopero, sulla possibilità di trovare un senso attuale dell’astensione].
b) Si diceva: sciopero-inadempimento. L’inadempimento persiste fondativo in ogni epoca poiché la mancata prestazione (e per una ragione precisa, sempre politica) è in ogni caso riconoscimento del rapporto di lavoro (formalizzato o meno in un contratto) e quindi dello spiegarsi dentro e contro il capitale così com’è, all’interno del sistema di produzione finanziario.
Non si tratta di accettazione supina del “regime” bensì di comprensione della circostanza che all’interno di questo calderone globale passiamo i nostri giorni contribuendo a renderne la broda più ricca e votata al soddisfacimento della voracità capitalistica.
Certamente, non si tratta di sottrarsi (non soltanto) alla direzione (comando) del datore di lavoro (lavoro subordinato, si diceva infatti un tempo), restare fuori dei cancelli della fabbrica (o magari dentro, e tutto il mondo fuori); anche così rimaniamo produttivi, allagando il capitale con i nostri desideri che si solidificano in gesti e azioni apprendibili (ed appresi) dallo stesso.
c) Inadempimento, oggi, significa rifiutare di consegnare la vita pulsante alla creazione della ricchezza a mezzo di debito e alla gestione del (in concreto inesistente ma assolutamente attivo nella propria astratta violenza) del credito da parte del “padrone”.
Morta la fabbrica, evanescente il padrone, come agire l’astensione dalla vita coartata? come proseguire nella produzione di intelligenza ed affetti senza consegnare la “giornata” alla melassa crudele del dominio?
Dove, quindi, il precariato può trovare assistenza e tutela in quel duello dispari che è il contratto di lavoro? (Claudio Treves, Socialismo e diritto civile, in “Critica Sociale”, anno IV, n. 20, 1894, p. 313).
[IV annotazione: riportiamo per intero il passo che ci fornisce un primo indizio: «Il socialismo non può venire che per opera degli interessati […]. In conclusione noi attendiamo la riforma del diritto privato da questo rigoglioso movimento di organizzazione operaia, che sale augusto e imponente dalle grandi assise internazionali del proletariato, domandando tutela per le donne e i fanciulli lavoranti nelle fabbriche, ridotta a termini normali ed umani la fatica […]. A tutto questo l’opera del giurista non può aggiungere quasi nulla e quel poco in termini repressivi poiché descrittivi»].
4. Sciopero politico (?)
a) Riprendiamo il discorso dalla repulsione italiana (figlia della grande paura) per lo sciopero politico, inteso come malsano portatore di istanze ”sovversive” a fronte della (apparentemente concessa dall’alto dello scranno togato, al contrario conquistata a testa alta attraverso un secolo di legnate) legittima lamentela di migliori condizioni lavorative.
b) La Corte Costituzionale con sentenza n. 162/1962 (ancora fumanti i fucili poliziotti di nuovo a Reggio Emilia, di nuovo giù in Sicilia) ribadiva la configurabilità di un reato allorquando l’astensione collettiva fosse volta ad «ottenere provvedimenti che attengano all’indirizzo generale del Governo» (e i ragazzi dalle magliette a strisce, ma anche i pretini bagetbozzi e gli eleganti tambronians se lo ricordano bene). Si ribadiva, in tal modo, la stretta correlazione tra doglianza e destinatario della stessa (nel caso, la P.A. vista come datore di lavoro e non come fonte del “comando”) con ineguagliabile tempestività vietando contestazioni politiche tout court, come ad esempio contro una certa formula di governo, contro una certa politica internazionale (Carinci, De Luca, Tamajo, Tosi, Treu, Diritto del Lavoro. Il diritto sindacale, pgg. 391 ss.) proprio in un momento nel quale tale tipologia di astensione assumeva forza e rilevanza.
[V annotazione: oltre ai fatti del ’60, non possiamo dimenticarci gli scioperi per Cuba (do you remember Ardizzone?) e contro la Spagna franchista. Sta di fatto che in quel magico 1962, nonostante la protezione della costituzione repubblichina, il 28 maggio a Ceccano i carabinieri aprivano il fuoco sugli operai del saponificio “Scala” in sciopero da 34 giorni che protestavano contro i crumiri assunti dalla direzione, uccidendo l’operaio Luigi Mastrogiacomo mentre altri sette rimanevano feriti, e poco dopo la Corte d’Appello di Milano emetteva sentenza a carico dei 63 imputati per i fatti di Reggio Emilia del luglio ’60 assolvendo da ogni addebito i poliziotti che avevano aperto il fuoco contro i manifestanti].
c) La sentenza n. 1 del 1974 ripropone l’illegittimità dello sciopero «in funzione meramente politica […] che […] senza alcun collegamento con i suddetti interessi (fini retributivi e comunque connessi immediatamente alla prestazione inadempiuta) venga effettuato allo scopo di incidere sull’indirizzo generale del governo»(evidentemente illegittime furono le rimostranze degli “occupanti di case” sanzionate con la vita di Fabrizio Ceruso).
Vale la pena di riportare il testo di una canzone dedicata a quest’ultimo, ben più rilevante del dictum del giudice costituzionale:
Soltanto diciannove anni /e per loro non eri nessuno/soltanto diciannove anni/ e per loro non eri che uno./ Uno come tanti, un cameriere,/ un garzone d’officina/ un disoccupato, un operaio, /un emigrante./ Eppure quella domenica / otto settembre/ a San Basilio hanno mandato/ più di mille uomini per ammazzarti./ Più di mille uomini che credevano/ che bastasse spararti,/ e sono stati invece loro/ ad avere paura di te./ Perché quella domenica giù a San Basilio/eravamo in tanti a non essere nessuno/ in tanti a difenderci le case, a farci la storia con le nostre mani/ il proletariato sarà sempre per la rivoluzione. […] Il primo ministro, il presidente/ a dirigere le operazioni per preparare/ il tuo assassinio. Lo stato maggiore riformista,/ mobilitato a condannarti/ perché con gli estremisti/ non volevi sgombrare.
d) Torniamo al “diritto”: è stato rilevato come, nella fattispecie, la Corte avesse individuato con maggiore precisione i contorni dello sciopero reato identificato con quello rivolto ad incidere sull’indirizzo politico generale del paese.
Lancinante anche in questo caso il tempismo dei giudici costituzionali affrettatisi a rimuovere ogni spazio di libertà interpretativa allo Statuto dei lavoratori optando per la sanzionabilità ex art. 15 stat. cit. di uno sciopero “illegittimo”. Anche la “storica” 290/1974, non sposta la questione poi di molto, laddove assumendo lo sciopero politico come libertà, ne esclude la sanzionabilità sul versante penale confermando la natura dello stesso quale integrante inadempimento e come tale giustificante il ricorso al potere disciplinare del datore di lavoro (ergo, non vai a Marassi ma non lavori neppure se ti converti all’ISIS; chi ha tempo, e soprattutto voglia, legga Tribunale Milano 29/5/00, est. Salmeri, in “Orientamenti di giurisprudenza del lavoro” 2000, pag. 603, con nota di Pera, Lo sciopero contro la partecipazione italiana all’intervento Nato nell’ex Jugoslavia – la partecipazione ad uno sciopero avverso la decisione del governo di concorrere con un contingente militare italiano all’intervento nato nell’ex Jugoslavia non è sanzionabile sul piano del rapporto di lavoro –, uno dei rari tentativi di sottrarsi all’orientamento sopra esposto, anche se declinato in chiave ulivista).
e) A conclusione di questa noiosa [come tutto quanto riguarda giuristi (quasi 100 anni dopo l’ottobre, c’è ancora qualcuno che si definisce così) e diritto] parte dell’esposizione, si può affermare che se allo stato attuale la giurisprudenza costituzionale «è salda nella qualificazione dello sciopero politico come libertà, ne discende che inevitabile è la sua sanzionabilità sul piano civile, nonché l’inconfigurabilità dell’antisindacalità della condotta datoriale che limiti lo stesso (quindi si punisce questo tipo di astensione perché non direttamente correlato al rapporto di lavoro e non rivolto verso al datore, al quale si concede di sanzionare il comportamento NON rivolto contro di sé). Su queste premesse, parte della dottrina (bel termine che fa tanto prima comunione) ha tentato apprezzabilmente di mitigare la rigidità di tale soluzione ricorrendo ai principi generali del contratto; in particolare si valorizzano le regole in tema di esecuzione del contratto in base alle quali quest’ultimo deve essere eseguito secondo buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) nonché la regola di cui all’art. 1455. c.c.» (così Di Lorenzo, Lo sciopero politico nella giurisprudenza costituzionale, in “Riv. dir. proc.”, 2008, p. 933).
[VI annotazione: quando la costituzione non basta, ritorna il auge il vecchio codice civile, quello con le firme di Benito e Vittorio (i giuristi contemporanei almeno ascoltassero la Badoglieide) e con esso la conferma che il lavoro è uno scambio alla pari tra parti che volontariamente si incontrano.
Di fronte a tanta linearità di analisi, ovviamente tolto il capello di fronte al padrone, non resta che ricordare quanto osservava Antonio Labriola a proposito dei contorcimenti paternalistici dei giuristi del suo (o del nostro?) tempo: «fiorirono in questi ultimi anni molti giuristi, i quali cerarono nelle correzioni al codice civile (per essere più attuali potrebbe dirsi, interpretazioni costituzionalmente orientate) i mezzi pratici per elevare la condizione del proletariato. Ma perché non chiedono al papa che si faccia capo della lega dei liberi pensatori?» (Saggi sul materialismo storico, pg. 26, ove di seguito si annota: «nasceva allora […] la illusione di una monarchia sociale, che passando sopra all’epoca liberale, armonicamente risolvesse la cosiddetta questione sociale. Questa fisima si riprodusse poi in seguito, in infinite varietà di socialismo cattedratico e di stato. Alle forme di utopismo ideologico e religioso s’è aggiunta così una nuova: l’utopia dei cretini», op. cit., pgg. 58-59)].