di FANT PRECARIO.
[la prima parte qui]
5. Sciopero vs. concertazione
Sub 4) si è operata ricognizione delle due distinte fattispecie, ovviamente in sintesi e prescindendo dalle patetiche riforme che hanno interessato la materia, riducendo lo sciopero a momento di critica (modesta, moderata, cortese) a condizioni di lavoro inumane, limitata sul lato oggettivo (come si è visto) e su quello soggettivo (servizi essenziali, soggetti richiedenti, qualità degli stessi).
Come si è rilevato in apertura, peraltro, anche il capitale ha compreso l’inadeguatezza dello strumento, ovviamente per pervenirne alla totale demolizione. È stato osservato, infatti, che lo sciopero economico politico «appartiene all’infanzia del diritto sindacale […] quando la società era spaccata in due e ciascuno dei contendenti puntava all’estinzione dell’altro con la convinzione che la società ne avrebbe ricavato i più grandi vantaggi». Una forma di protesta vecchia, quindi, i cui spazi di operatività ed incisività sono erosi «per effetto sia dell’accresciuta complessità sociale che dalla diminuita sovranità degli stati nazione nell’era della globalizzazione economica» (U. Romagnoli, La concertazione in Europa, luci ed ombre).
Ben venga, quindi, la concertazione che in modo sobrio e propositivo può essere sotto questo aspetto più efficace dello sciopero sociale che non rimuove direttamente le cause del conflitto (ecco l’ossessione del capitale: rimuovere il conflitto, ovviamente dal lato del prestatore). Parole sante! In un’epoca in cui i legislatori e gli statisti hanno come principale obbiettivo il temperare i dissidi tra le classi sociali, è strano che in Italia si proceda a ritroso in questo concetto approvando lo stato latente di lotta e mettendo proprietari ed operai in condizioni di guardarsi quasi (QUASI ?!?) come nemici, quando invece dovrebbe intendersi con leggi avvedute (Jobs Act?), con procedimenti di illuminata previdenza (gli 80 euro?) a raggiungere l’apporto obbiettivo associando gli interessi degli uni e degli altri nell’unico fine della prosperità delle industrie, del lavoro e delle classi lavoratrici, distruggendo i germi di diffidenze pericolose e fatali rancori. Belle parole, Matteo! Ah non è Renzi che parla? no, è l’onorevole Finocchiaro Aprile (discorso alla camera del 13 maggio 1885) – ovviamente sono io quello che guarda indietro…
6. Sciopero politico vs. sciopero economico
a) Questo lo stato dell’arte nella palude del diritto italiano, che comunque appare ancora possibile strumento difensivo, poiché espressione dell’incoercibile azione (il ricorso al giudice è la sola arma rimasta, ed è per questo che si tenta di ridurne la concreta agibilità, salvo poi piangere lacrime sguaiate e ributtanti).
In tal modo, però, ci si limita però a riproporre concetti vintage decontestualizzati nella speranza di tirar su qualche liretta.
[VII annotazione: sempre che il padrone non fallisca, non chieda concordato, esternalizzi in Romania, non scappi a Dubai, non sia il papà di un primo ministro. Invocare l’applicazione dei principi di diritto del lavoro elaborati per l’industria fordista rimane quindi extrema ratio, gesto disperato e romantico, come fischiettare Bandiera rossa a una festa del PD].
b) In ogni caso è chiaro l’esito dell’indagine svolta: lo sciopero economico va (abbastanza e non sempre) bene perché (secondo gli intagliatori di fattispecie) non si scalfisce la governance della corporation, si gestisce il malanimo di “quattro teste calde” (blandendole con tre lire, ammansendole con quattro mazzate) e la vita scorre tranquilla nell’alveo dello statuto dell’impresa, lasciando intendere – contro il vero – che si tratti solo di lavoro, che il padrone resti confinato nella sua azienda, che “fuori dai cancelli” il precario possa determinarsi (o quantomeno trovare pace).
In ogni caso, la distinzione fra sciopero economico e sciopero politico non trova alcuna ragione di esistenza in quanto il primo ben può essere “rivoluzionario” ed “insurrezionale” allorquando travalica i confini (fittizi) che gli sono stati assegnati, mentre il secondo può essere – al di là delle contorsioni della Corte Costituzionale- spuntato e propedeutico a politiche ben dentro il capitale (i famosi ed inutilissimi scioperi contro l’indimenticato Berlusconi).
c) Preso atto dell’inadeguatezza dello sciopero tradizionale, detto della miseria dei palliativi proposti da giuristi e politici di risulta, cosa resta?
Una prima rilevanza dell’istituto persiste nella commistione tra valenza economica e politica delle richieste, commistione che va aspramente agita e modulata all’interno delle rivendicazioni precarie.
d) Sul punto mi farò aiutare dalle parole di un giovane compagno che più di una volta si è occupato dell’argomento: «È stata la vita, generatrice di forme particolari del movimento degli scioperi, che ha costretto a introdurre questa suddivisione (fra scioperi politico ed economici). […] Lo sciopero economico e quello politico si sostengono quindi reciprocamente, costituendo, l’uno per l’altro, una fonte di energia (quello che oggi può anche dirsi tra forme tradizionali di sciopero e momenti “innovativi”). […] Ma il legame fra sciopero economico e sciopero politico è sempre esistito. Senza questo legame, ripetiamo, non è possibile un movimento effettivamente grande che raggiunga grandi obiettivi. La classe operaia durante lo sciopero politico agisce come classe che è all’avanguardia di tutto il popolo. In questi casi il proletariato adempie la funzione non semplicemente di una classe della società borghese (come del resto vorrebbe ridursi la condizione precaria), ma la funzione di egemone, cioè di dirigente, di avanguardia, di capo. […] Se i liberali (e i liquidatori) dicono agli operai: voi siete forti quando la «società» simpatizza con voi, il marxista parla diversamente agli operai: la «società» simpatizza con voi quando siete forti. […] Il liberale signor Severianin (forse un parente di Severgnini?) ha pubblicato nelle Russkie Viedomosti un articolo contrario “a che si mescolino” con lo sciopero del Primo maggio “rivendicazioni” economiche o di “qualsiasi genere” […]: “Mettere questi scioperi – scrive il signor liberale – in legame proprio col momento del Primo maggio è soprattutto cosa che non ha nessun fondamento… Infatti in un certo senso è strano: celebriamo la festa internazionale degli operai e in tale occasione rivendichiamo un aumento del 10% su certe qualità di tessuto”. Per il liberale è “strano” ciò che per l’operaio è pienamente comprensibile. Solo i difensori della borghesia e dei suoi smisurati profitti possono ironizzare sulle richieste di “aumenti”. […] Per il commentatore liberale la disorganizzazione sta nel fatto che gli operai in una fabbrica hanno scioperato semplicemente per protesta (ed è questa la difesa renziana, far credere che esista una “protesta in sé”, svincolata da desideri e bisogni, quasi ignorando che invece ogni bestemmia ha sempre un dio da combattere e che dalla sua eliminazione si trarrà giovamento), in un’altra hanno unito alla protesta rivendicazioni economiche, ecc. In realtà in queste forme eterogenee di sciopero non vi è assolutamente nessuna disorganizzazione: è sciocco rappresentarsi l’organizzazione necessariamente come uniformità. […] Ma la sua conclusione è ancora peggiore: “Grazie a questo […] in un notevole numero di casi il carattere di principio della protesta [ma non è per le 25 copeche che si è scioperato!] è stato offuscato, complicato con rivendicazioni economiche”. Questo ragionamento è veramente rivoltante, completamente falso, prettamente liberale! Pensare che la rivendicazione di “25 copeche” possa “offuscare” il carattere di principio della protesta significa cadere al livello di un cadetto. Al contrario, signor Iegiov, la rivendicazione di “25 copeche” non merita derisione, ma pieno riconoscimento! […] Egli, più oltre, scrive cose ancora più rivoltanti: “L’esperienza personale avrebbe dovuto suggerire agli operai che non è opportuno complicare la loro protesta con rivendicazioni economiche, così come non è opportuno complicare un normale sciopero con rivendicazioni di principio”. […] Solo dei liberali possono protestare contro la “complicazione” dello sciopero, sia pure il più “normale”, con “rivendicazioni di principio”: questo in primo luogo. E in secondo luogo sbaglia profondamente il nostro liquidatore misurando l’attuale movimento con il metro degli scioperi “normali” (il bilancino tanto amato dai giudici). […] Sentite: “È indispensabile dare una salda base organizzativa allo stato d’animo delle masse operaie” […] Sacrosanta verità! […] “È indispensabile rafforzare l’agitazione in favore dei sindacati, reclutare nuovi membri”. Perfettamente giusto, ma… ma il signor Iegiov limita in modo inammissibile la “salda base organizzativa” ai soli sindacati! “Ciò è tanto più necessario, in quanto fra gli operai vi sono attualmente non poche teste calde, infatuate del movimento di massa, che parlano nei comizi contro i sindacati, come se fossero inutili e non necessari”. Questa è una calunnia liberale contro gli operai […]. Gli operai non hanno parlato “contro i sindacati”, ma contro quella deformazione liberale del carattere della loro lotta, della quale è impregnato tutto l’articolo del signor Iegiov (Lenin, Sciopero economico e sciopero politico, in “Nievskaia Zvezdà”, n. 6, 31 maggio 1912).
Quindi, ecco un secondo indizio: sciopero economico e sciopero politico debbono andare insieme, assunti nella loro massima complessità sia nelle rivendicazioni che nell’elaborazione.
7. Ancora sulla distinzione tra natura “economica” e “politica” dello sciopero
Si è smascherata la prolissa marmellata di minchiate che i servi – “togati” e non – del capitale ammanniscono ai lavoratori, siccome palesata dall’erroneità dell’elaborazione giurisprudenziale in materia di scioperi, laddove la Corte Costituzionale dei prodi (notare l’elegante gioco di parole) giudici asseritamente Rossi si rivela più rigida delle armate di riserva della polizia Zarista.
Invero, non esiste distinzione tra sciopero politico e sciopero economico: scopo dell’interruzione della prestazione lavorativa è bestemmia contro il lavoro e rifiuto di tollerare una vita di merda.
Questo passa attraverso (i) il rigetto dell’attuale condizione precaria (complessivamente intesa, come governance della vita di ognuno) (ii) la richiesta di miglioramenti economici (indifendibilmente assunti come salariali, ma da porsi quale richiesta di una rendita incondizionata universale). In una sola frase: se si rischiano legnate, ostracismi, allontanamento dall’iniziativa produttiva presso o per la quale si opera, voglio più denaro, meno segregazione e asservimento.
8. Sciopero precario – “sciopero interno”– sciopero sociale
a) La precarietà è condizione generale, vuoi poiché incombe su ogni lavoratore (sia a tempo determinato che indeterminato, sia subordinato sia autonomo) vuoi perché il lavoro trascende i confini della giornata lavorativa e della stessa determinazione soggettiva che non riesce a sganciarsi dalla legge del valore.
Ogni elemento individuativo del “lavoro”, subordinazione, coordinamento, corrispettività ed obbligatorietà delle prestazioni è stato scardinato o quantomeno risulta insufficiente nella descrizione di un rapporto i cui sfilacciati contorni si diluiscono nella realtà del lavoro (sempre più) gratuito.
b) Cosa dire di chi, apparentemente in modo volontario, accetta (sulla volontarietà della sottomissione ci sarebbe da discutere, ma è su questo assunto che si fonda la retorica liberale) di prestare un’opera a favore di un terzo in modo gratuito?
[VIII annotazione: (in fondo la libera scelta nella prestazione è un must del capitale ‘800esco. G. Chironi, ad esempio, affermava che se un infortunio malauguratamente lo colpisse – il lavoratore – non potrebbe invocare il contratto per tenerne responsabile il padrone poiché egli non obbligò l’operaio a prestare l’opera pattuita ma questi consentì liberamente (Della responsabilità dei padroni rispetto agli operai e della garanzia contro gli infortuni sul lavoro, Siena, 1884, pp. 6 ss.). Come diceva il senatore Marescotti (Squinzi-Renziano ante litteram ma con accenti che ben sarebbero graditi al mistico padano Salvini) il legislatore ha un mezzo solo di avvantaggiare come egli desidera la gente laboriosa e anche di procurare uno stato economico conveniente alle basse moltitudini e questo mezzo è di estendere l’osservanza della legge del mio e del tuo che rassicura gli interessi personali autonomi (La legislazione sociale e le questioni economiche, Milano, 1887, pg. 1)].
Ecco perché dicevo che, probabilmente, l’attuale condizione precaria è tanto simile a quella dei mandrogni che lasciavano l’insopportabile lavoro dei campi per riversarsi a Sestri Ponente per donare la vita alle ciminiere fumanti del cavalier Giovanni Ansaldo, apparentemente liberi di non farlo, complici dell’industria montante, desiderosi di fornire il proprio apporto all’intrapresa [Che poi il ricordo ha valore anche simbolico, restando della potenza economica e finanziaria dei Fratelli Perrone soltanto una marginale viuzza a Campi, dove giganteggia Ikea e di notte, sotto quel fanal, giovani migranti partecipano al trionfo del riformato sistema di produzione capitalistico, afflitte da simpatici auto-imprenditori in BMW e audaci fruttivendoli in Ape].
Escluso lo spirito di liberalità, va comunque razionalizzata l’incidenza del bisogno, dello stato di necessità che dovrebbe far rifuggere da tale stupido agire verso i più onorevoli lidi della rapina. Viene da chiedersi se si possa ancora parlare di lavoro e non debba scardinarsi anche questa ultima difesa dall’ignoto.
Se il contratto è incontro tra volontà, libera determinazione, come inquadrare quel legame che si instaura tra colui che invoca di essere soggiogato e “l’indifferente” beneficiario della prestazione? A maggior ragione quando la prestazione non è ben definita (né può esserlo, risultando lasciata alle mutevoli esigenze del non – datore) e contempla l’occupazione permanente della vita da parte del capitale.
Si agisce a favore di un terzo perché si spera (senza alcun previo riconoscimento da parte di quest’ultimo, fondata com’è la speranza su promessa che non proviene da soggetto specificato ma dal capitale in persona) in un futuro lavoro, ci si rivela immediatamente operativi nei confronti altrui, così da poter affiancare il proprio compenso a quello che si genera a favore del primo, senza peraltro gravare su questi poiché il compenso è a carico di sé stessi e della “comunità degli utenti” (ulteriormente saccheggiati nella propria soggettivazione dal debito).
Si è detto che il capitale che spiega il suo comando nella vivente produzione di linguaggi, funzionalizza i bisogni e dei desideri al comando capitalista, nel desiderio che la forza della soggettivazione produttiva si riconosca come soggetto del rapporto di capitale. Vuole servitù volontaria.
Come sperare quindi in migliori condizioni lavorative, in un decente profitto? Dove trovare la forza per rompere un rapporto che appare ogni giorno più flebile e al contempo maggiormente coercitivo? Come agire l’astensione da qualcosa che neppure è, apparentemente, richiesto?
c) L’immagine olimpica che il capitale offre di sé non chiude compiutamente il cerchio dell’oppressione. Il lavoro centellinato e sfruttato costituisce soltanto parte del servizio che le singolarità rendono al “padrone” globale; asserviti alla prestazione si gestisce autonomamente il compito affidato al contempo realizzando le condizioni del proprio e altrui vincolo. Il “padrone” estrae valore sociale, quindi, riducendosi a pura governamentalità irrigandosi di vita e regimentando la stessa a tal fine.
Lo statuto d’impresa abbandonato dal capitale per la propria realizzazione, dapprima gettato a sopperire alla fine della produzione per la sopravvivenza del precario, è ora parametro di autonomo di esistenza del precario stesso: da un lato attribuendogli conoscibilità e accesso alla finanziarizzazione, dall’altro perché consente l’organizzazione di consumi e i desideri così da renderli, nella loro espressione materiale, riproduttiva, cooperativa, funzionali alla riproduzione del capitale.
Il precario, quindi, partecipa integralmente al modo capitalistico finanziario consentendo la creazione di moneta fittizia e la generazione di reti idonee alla valorizzazione. È evidente, pertanto, la totale compromissione del precario nel capitale ma la parimenti necessaria “partecipazione” del precario alla riproduzione: ed è qui che può iscriversi il senso dello sciopero precario e quindi sociale.
d) Lo sciopero precario, per approssimazione, può rappresentarsi attraverso la rottura della costruzione delle singolarità in termini (soltanto) di impresa.
Paradossalmente si tratterebbe di una serrata da parte del “prestatore”, la cui figura costruttivamente coincide con quella del datore. Solo che qui il datore non è più colui che mette a disposizione il “posto di lavoro”, ma colui che pone la propria vita, organizzata in forma di impresa, a favore direttamente di se stesso ma mediatamente, e più incisivamente e tragicamente, dello stesso processo di valorizzazione.
e) sciopero interno:
Abbiam trovato / un metodo d’azione / per romper meglio / le scatole al padrone / è il sistema più rapido e moderno / e che si chiama lo sciopero interno. / Sciopero interno / da dentro all’officina / noi perdiam poco/ e Agnelli va in rovina / se si sta a scioperar dentro i cancelli / chi ci rimette è soprattutto Agnelli.
Metropoli-fabbrica, uomo-impresa: l’inadempimento, l’astensione, la diserzione precaria non può che essere interamente interna al capitale e, in fondo, a se stesso.
A differenza che nella canzone, però, non è che già in fabbrica comanda l’operaio, qui ed ora il nostro corpo-impresa è totalmente afflitto dal comando.
E allora: o ci si affida alla dissoluzione di noi stessi novelle vergini suicide, ovvero si tende alla dissoluzione dell’uomo-impresa, superandolo, cioè, nel recupero, nell’avarizia, della propria potenza produttiva. Se il credit crunch è limite per l’impresa, la restrizione dell’elargizione di gocce di vita a favore del capitale, attraverso forme mutualistiche e di cooperazione, la istituzionalizzazione di forme di produzione del comune, comporta l’impoverimento del capitale, il blocco della creazione di ricchezza estratta dalla vita.
Lo sciopero “interno” diventa quindi atto creativo poiché astensione soltanto sul lato della concreta apprendibilità dell’opera precaria, mentre l’elaborazione precaria procede altrimenti.
f) Anche oggi, quindi, non è possibile distinguere lo sciopero per le 25 copeche e quello per la liberazione dal lavoro. La richiesta, anche minima, del diritto ad un compenso per l’attività (qualsiasi) svolta è sempre atto che tende (anche) al riconoscimento della propria esistenza produttiva e momento di lotta contro i modelli di riproduzione capitalistica e della sua regola finanziaria.
La clamorosamente triste e “solitaria” condizione precaria, pone poi l’ulteriore, irrinunciabile, valenza sociale dello sciopero che così assume quale luogo di scontro ogni espressione positiva (e creatrice di ricchezza) del precario. Ogni diritto, alla casa, all’istruzione, alla salute risulta rinnovato e sottratto al paternalismo costituzionale, dispiegandosi il lavoro all’interno dell’esistenza dell’uomo-impresa interessandolo, nella propria trasformazione e ricostruzione in termini estranei al capitale. In tal modo ogni contestazione che ponga in dubbio l’attuale assetto costitutivo (e costituente) della finanziarizzazione capitalistica è immediatamente incisiva della vita e quindi ostativa allo spiegarsi del comando e all’espropriazione. Solo riprendendo il gusto alla bestemmia collettiva si potranno coniugare forme nuove e vecchie di astensione, inventando le prime, rinnovando le seconde.
Buon sciopero a tutti.