di CHRISTIAN MARAZZI.
Ho come l’impressione che siamo entrati in una seconda crisi della regione Europa e sento la necessità di adottare un approccio indiziario per osservare la direzione che possiamo o dobbiamo intraprendere, allo stesso modo di come il cacciatore osserva la piuma d’uccello sul cespuglio per capire da che parte andare. Ad agosto mi sembra sia successo qualcosa che abbia a che fare con la fine di un ciclo: mi sembra che la crisi cinese dichiari la fine di quella forma che il capitalismo ha assunto negli ultimi trent’anni e che è stata definita impero, dove la colonizzazione della concorrenza, del mercato e della finanziarizzazione ha dispiegato dei confini senza un oltre, senza un fuori. Il lavoro di Michael Hardt e Toni Negri ha sottolineato la materializzazione di questa ragione imperiale che la crisi cinese sembra segni la fine dei suoi equilibri geopolitici, economici e finanziari.
La Cina, dopo forti investimenti nel settore immobiliare e dell’export – che hanno giovato non poco all’occidente in questi anni – e politiche espansive che hanno spinto verso la finanziarizzazione, da quanto si riesce a intuire vive una forte riduzione della crescita e delle esportazioni. Proprio per far fronte a questa situazione, il 12 agosto 2015 il renminbi è stato svalutato (un gesto salutato positivamente dal Fmi, considerato il primo passo per far entrare questa valuta nel novero dei diritti speciali di prelievo) e, per contenere questa svalutazione, gli stessi cinesi hanno venduto qualcosa come cento miliardi di buoni del tesoro americani. Ecco la piuma dell’uccello, ecco l’indizio.
Il flusso di risparmio dal Giappone e dalla Germania verso gli US negli anni Settanta, a cui è subentrata la Cina, ha permesso agli Stati Uniti di sviluppare forme di post-industrializzazione attraverso la finanziarizzazione e, allo stesso tempo, ha reso possibile a questi paesi di concentrarsi sulla crescita economica e una produzione orientata all’esportazione.
L’inversione di questi flussi di risparmio di capitale indica la fine dell’impero fondato sul rapporto fra i paesi occidentali, gli Stati Uniti ma non solo, e la Cina, le cui enormi riserve stanno oggi calando a vista d’occhio per difendere lo propria valuta attraverso la vendita di buoni del tesoro Usa. Mi sembra un segnale importante. Probabilmente prima o poi questo costringerà gli americani ad alzare i tassi di interesse per frenare l’eventuale disinvestimento progressivo dal debito pubblico americano.
Un altro indizio che mi sembra importante rilevare sono i tassi di interesse. Da oltre un anno la Fed annuncia l’imminente uscita da tassi prossimi allo zero, avviando di fatto un ciclo di tassi in crescita a livello mondiale dopo quasi sei anni. In questa situazione caratterizzata da forte incertezza i paesi emergenti, che inevitabilmente subiranno contraccolpi fortissimi dovuti dalla fuga di capitale, hanno chiesto chiarezza e maggior decisione per uscire da una situazione che li sta dilaniando. Dal 2003, la politica monetaria americana ha subito una svolta linguistica teorizzata, per la prima volta, dall’attuale presidentessa Janet Yellen, secondo cui le parole andrebbero messe nell’armamentario della politica monetaria della Fed. Troviamo qua il performativo e gli atti linguistici dove dire una cosa significa creare qualcosa. La parola in sé, la dimensione linguistica del denaro non si fonda più sul linguaggio come trasmissione di dati su cui prendere decisioni per aumentare o diminuire i tassi di interesse. La Fed sta usando le parole per modificare il quadro dentro il quale far muovere i mercati e l’economia. Quindi l’incertezza, questo dire continuamente che si aumenteranno i tassi di interesse quando alcuni parametri raggiungeranno una certa soglia (il tasso di disoccupazione – che è fortemente diminuito anche per l’espulsione di un gran numero di lavoratori dal mercato del lavoro, e i dati sull’inflazione – che non è aumentata) descrive una sorta di trappola linguistica. Un aumento, quello del tasso di interesse, che ha come solo e unico scopo quello di poter creare un margine di manovra in vista della prossima recessione abbassandolo nuovamente.
Questo indizio conferma la tesi della stagnazione secolare e la longevità di questa crisi. È in questo quadro che dobbiamo ragionare compiutamente, dove le politiche monetarie come il Quantitative easing americano prima, quello giapponese poi – che ha iniettato una liquidità pari a due volte quello americano – , e infine quello europeo hanno dimostrato la loro inefficacia. Il Financial Times ha affermato che queste politiche non hanno rilanciato una crescita ma solo alimentato i mercati finanziari e le borse, come abbiamo visto nel corso del 2014.
In questa stagnazione sistemica vi è un attacco al salario come istituto dei rapporti sociali: la desalarizzazione è la distruzione del concetto stesso di capitale come rapporto sociale. Vi è, in un certo senso, una sorta di vendetta della classe operaia fordista che sembra affermare: “Voi ci avete distrutto e noi vi abbiamo messo in questa situazione”, una situazione difficilissima da governare per il capitale che è, marxianamente, un rapporto sociale. Polverizzare, distruggere, umiliare questo rapporto comporta un prezzo altissimo: questa crisi.
Senza entrare troppo in quella trappola fuorviante che è il dibattito euro si/euro no, quello che mi sembra importante sottolineare è come in questi anni di costruzione, espansione affermazione dell’impero siano cresciute, al suo interno, forme inevitabili di neocolonialismo. Guardiamo come, in forma assolutamente tragicomica, la Germania si è accaparrata con la sua politica ben 14 aeroporti ellenici. Più neocolonialismo di così!
In questo contesto dove si crea miseria per poi privatizzare, è forse il caso di rivisitare le teorie di Rosa Luxemburg sulla natura colonialistica del capitale secondo cui il circuito economico si basa sulla contraddizione tra produzione di plusvalore e sua realizzazione. Storicamente tale contraddizione ha conosciuto tre forme di regolazione: l’imperialismo, ovvero uno sbocco esterno, lo stato sociale o una domanda effettiva interna come negli anni Trenta attraverso il welfare, e la finanziarizzazione attraverso il deficit spending privato con l’indebitamento delle famiglie e delle imprese. Sono le tre modalità con le quali il capitale, su scala mondiale, ha gestito la creazione di domanda aggiuntiva per realizzare il plusvalore. In questa natura intrinsecamente squilibrata e opposta alle teorie dell’equilibrio generale, il plusvalore non si può realizzare sulla base dei soli salari distribuiti. Marx scriveva nei Grundrisse come la creazione di domanda aggiuntiva, questo denaro creato in più dovesse funzionare da capitale, da “polizza sul lavoro futuro”, questa la sua espressione. Il denaro creato ex nihilo attraverso l’indebitamento pubblico e iniettato sotto forma di grandi opere, di welfare, di prestazioni sociali o del credito ai paesi poveri deve in un qualche modo agire da capitale nella trasformazione dell’umano in domanda per merci capitalistiche.
Il ciclo economico così interpretato si basa sul duplice processo di destrutturazione senza ristrutturazione. In altre parole si distrugge l’economia locale, il “beneficiario” dei crediti e si impedisce alle economie locali o naturali, come si diceva un tempo, di trovare una propria autonomia. Oggi si è destrutturato attraverso le politiche dell’austerità che impediscono ai paesi coinvolti di trovare ambiti di autodeterminazione. Come le lotte di liberazione nazionale hanno fatto saltare l’imperialismo, per uscire dalla tenaglia del plusvalore e della sua realizzazione oggi dobbiamo immaginarci una lotta di liberazione europea dentro e contro l’Europa. Di cosa stiamo parlando infatti quando parliamo di uscita dall’euro? Se questa ipotesi si giustifica dal punto di vista economico con un rilancio delle esportazioni tramite svalutazione, allora mi sembra un po’ poco. D’altra parte anche Varufakis – che secondo me parla un po’ troppo – , ha sostenuto un’uscita della Grecia non tanto perché scelta dal popolo greco, ma perché lo stesso Wolfgang Schaeuble vi aveva puntato. Sebbene non abbia problemi a ribadire che è dentro il contesto europeo che si deve giocare, quello che mi inquieta è il tasso di odio di coloro che vogliono uscire in qualche modo da questa gabbia che è l’euro e che, magari ignari, stanno facendo proprio il gioco di Schaeuble puntando sull’euro del Nord, il N/euro. Dobbiamo, in qualche modo volenti o nolenti, interloquire con queste posizioni. Lo stesso dibattito sulle monete locali, su cui non necessariamente bisogna essere d’accordo, va rispettato perché esprime una volontà di liberazione. Dobbiamo interpretare l’odio perché senza questo non vi è nemmeno passione e amore.
Di cosa parliamo quando parliamo di politica monetaria del comune, o alternativa? Oltre la necessità di una ristrutturazione del debito voluta anche dal Fmi (se riusciranno a mettersi d’accordo su questo le istituzioni della Troika è un’altra storia) che rilancerebbe un terreno che possiamo chiamare riformistico, dobbiamo esplorare l’idea di un Quantitative easing for the people, per la moltitudine. Questa creazione di liquidità da parte delle banche centrali, in particolare di quella europea, passa attraverso la mediazione bancaria. Dobbiamo fare in modo che questa politica non convenzionale riesca a incidere sul reale come creazione, emissione e integrazione diretta della liquidità nelle tasche dei cittadini europei e come investimenti decisi in ambito locale. Il populismo non è da sottovalutare: si impianta su disagi reali e ve lo dice uno che abita in una paese che sembra l’eldorado della borghesia ma che è attraversato da problemi di libera circolazione, di libero scambio ecc. che hanno spostato a destra l’asse politico. Lavoriamo a livello europeo sull’idea della disintermediazione del quantitative easing per interpretare, in positivo, il tasso di odio cavalcato dalle destre e dalla lega. Mettiamo al centro la moltitudine europea a maggior ragione, oggi, dove gli effetti dell’accoglienza saranno un ulteriore taglio delle prestazioni sociali per mettere i residenti contro i nuovi ospiti. Proviamoci!
Trascrizione a cura di Paolo Do dell’intervento di Christian Marazzi, tenuto l’11 settembre presso le Officine Zero di Roma.