Intervista di Igor Stokfiszewski, di Krytyka Polityczna a Pantxo Ramas, Barcelona En Comú*.
Igor Stokfiszewski: La vittoria di Barcelona en Comú e di Ada Colau nelle ultime elezioni municipali in Spagna ha rappresentato un momento storico. Deve essere stato un giorno emozionante per i movimenti sociali della capitale catalana. E immagino che sia stato ancor più importante per chi ha fatto uno sforzo per trasformare le energie sociali emerse il 15 Maggio del 2011 in un processo politico anche nel campo elettorale.
Pantxo Ramas: Hai ragione. Ricordo le prime riunioni dopo la vittoria delle elezioni e la preoccupazione per aver vinto! Perché la situazione a Barcellona, in Spagna e in Europa era e rimane molto complessa. Ma eravamo consapevoli della necessità e della responsabilità di ottenere una posizione di potere, nel senso di una posizione che ci permettesse di ‘avere la possibilità’ di cambiare la vita della città.
I. S. : Cosa intendi quando ti riferisci alla complessità della situazione nel caso di Barcellona?
P. R.: La complessità è quella determinata dal fatto di dover intervenire in una situazione di crisi profonda, di precarietà e povertà, specialmente nelle periferie di Barcellona, ma non solo. E questo accade in una città catturata dai flussi del capitale in un senso davvero materiale. Lo spazio pubblico di Barcellona è dominato completamente dal turismo e la produzione sociale di modi di vivere è invasa dalla logica di estrazione del valore.
In un certo senso Barcelona en Comú e Ada Colau si trovano tra le mani gli strumenti per una rivoluzione municipale a livello istituzionale.
La vera sfida secondo me non è tanto quella di ‘installare’ un nuovo sistema operativo sulla città. La necessità è soprattutto pensare un processo di transizione per un sistema di servizi sociali e municipale che sono stati saccheggiati dalle macchine neoliberali per più di vent’anni. Secondo, a livello statale, la vittoria in tutto il paese delle coalizioni del cambio pone una sfida reale e concreta al sistema bipolare dominato dal Partito Socialista e il Partito Popolare, che (come nel resto delle società europee) ha costruito un sistema fasullo di rappresentanza.
I. S.: Qual è la road-map per il cambiamento di Barcelona en Comú e di Ada Colau? Quali sono gli obiettivi che vi prefiggete e i modi in cui pensate di farcela?
P. R.: Barcelona en Comú segue quattro linee di sviluppo per il proprio programma.
La prima risponde alla necessità di un’organizzazione differente della produzione urbana. Il punto di maggiore innovazione del programma di BComú è lo sviluppo dell’economia cooperativa e il riconoscimento dell’economia riproduttiva come punto centrale della vita della città. Questo richiede una relazione critica nei confronti dell’attuale modello urbano basato sul turismo, sulla tecnologia e in un certo senso sulla crisi del Fordismo. Il punto è come relazionarsi a questa egemonia del neoliberismo per produrre un modo diverso di gestione della produzione sociale. In questo senso i termini proposti dalla cooperazione, dalla riproduzione e dalla critica delle logiche di appropriazione e sfruttamento degli ultimi vent’anni sono elementi centrali. Da un punto di vista istituzionale, l’obiettivo è quello di pensare come riformare le entità municipali di sviluppo economico gestite dal comune per sostenere questa transizione.
Il secondo tema è quello dei diritti sociali e civili. E la domanda che sorge è la seguente: esiste la possibilità di riappropriarsi del welfare direttamente a livello municipale? E dunque – come possiamo pensare diritti sociali e civili e programmi di welfare che siano costruiti dal basso e che permettano di riappropriarsi dello stato sociale? La sfida qui è quella di ridisegnare politiche che possano intervenire e partecipare nella vita quotidiana: nei cicli di vita, includendo i bambini e gli anziani, che possano affrontare le discriminazioni della quotidianità urbana, di genere, di razza, di classe. Abbiamo bisogno di una transizione ecologica che possa mantenere in vita i meccanismi del welfare e al tempo stesso cambiarne la logica.
Terza questione è “reinventare la democrazia”, tema ovviamente e completamente legato ai primi due obiettivi. Non possiamo reinventare la democrazia senza pensare ai circuiti economici o a una riappropriazione del welfare che parta dal basso. Però al tempo stesso è necessario ripensare il cuore della parola “partecipazione”, che è stato svuotato dalle politiche neoliberali. Ci poniamo dunque una domanda: come può la gente essere protagonista della produzione delle politiche pubbliche? E dunque, essere parte della produzione di una conoscenza collettiva “di diagnosi” su cosa accade nella società, così come sugli aspetti tecnici del come funzionano le politiche pubbliche e infine su come gestire queste politiche. La partecipazione deve essere un processo che coinvolge diversi agenti della vita urbana – i lavoratori pubblici, le organizzazioni sociali, i movimenti, ma anche quella parte della società viva, ma non organizzata secondo i canoni dell’associazionismo o della mobilitazione politica. Come possiamo comporre questi mondi in una pratica di partecipazione che non decida solo se attuare il piano A o il piano B per la riforma della strada sotto casa, ma che permetta a questi agenti di sedersi, osservare la strada, discutere e decidere cosa sia più utile o necessario, e poi capire quali risorse e quali strumenti usare, per poi essere protagonisti del cambiamento e dell’implementazione delle politiche pubbliche. Non sto parlando di una partecipazione ‘deliberativa’, ma di un processo di produzione sociale delle politiche pubbliche.
Il quarto elemento è la dimensione urbana. Come possiamo ripensare la logica dello spazio pubblico, ripensare l’ecologia della città in un senso che ci permetta di inventare una nuova relazione tra la vita sociale – come vita di chi la città la abita – e i flussi che attraversano la città, flussi di speculazione, sfruttamento, dispossessamento… In termini concreti si tratta di occuparsi delle risorse naturali, la vita della città! Lo spazio urbano, la mobilità, la costruzione fisica dello spazio urbano, gli eventi che l’attraversano, eccetera.
Ci troviamo dunque immersi in un circuito di riproduzione sociale – l’economia, i diritti, la partecipazione come produzione sociale e infine una comprensione ecologica della vita urbana. E secondo questa logica si sta organizzando anche la forma di intervento istituzionale delle politiche municipali.
I. S.: Quali credi che siano gli ostacoli principali di fronte a questi obiettivi? Dove troverete le resistenze più forti? Credi che verranno dal campo politico ed economico o anche dalla società?
P. R.: Guarda, io credo che i tre elementi che segnali saranno problematici, ma in modo tra loro diverso. Nel campo politico ed economico è chiaro che i nostri interessi e i loro sono in conflitto. Le élite politiche della Catalogna, della Spagna ed europee sono ovviamente contro di noi. Ed è un problema, nel senso che sono gente pericolosa, però sono anche la ragione principale per cui siamo qui! Sappiamo che c’è un conflitto e vogliamo essere protagonisti di questo conflitto!
Ora la questione è, io credo, come manteniamo viva la tensione sociale con chi ha partecipato nel processo perché sia parte integrante di questo conflitto verso l’alto. Se questa tensione tra il sociale e l’istituzionale si rilassa, la capacità di contrastare le pressioni politiche ed economiche diventa molto meno efficace. E qui credo risieda la maggior responsabilità di chi è stato eletto e ha responsabilità istituzionali o politiche nel Comune e nel partito. La sincerità su ciò che si sta facendo, sulle possibilità e i limiti, sugli errori e sulle sfide è il modo per produrre un’etica comune ed essere in prima istanza parte della società, prima che delle istituzioni.
E d’altra parte, è necessario che l’attenzione sociale al lavoro istituzionale sia generosa e allo stesso tempo esigente. Non rinunciare alla critica, ma sempre da una posizione attiva. È necessario che la gente non pensi “questa è una responsabilità del governo”. E la possibilità di mantenere viva questa tensione verso le élite dipende dalla mobilitazione e dalla partecipazione permanente della gente.
Un esempio è quello che sta succedendo riguardo alle Città Rifugio, come iniziativa di appoggio alle migliaia di persone che arrivano lungo le coste meridionali del continente. Questo è il momento in cui affermare il diritto alla città sia a livello istituzionale sia da parte della società. Da un punto di vista istituzionale questo significa disobbedire di fronte agli strumenti di governance delle migrazioni tanto a livello statale come europeo, trovando risorse e aprendo un dibattito pubblico su questi temi. Ma esiste anche una responsabilità della gente che ha lavorato e prodotto critica sui temi dei diritti migranti, sui temi dell’accoglienza, negli ultimi decenni. Oggi hanno/abbiamo la responsabilità di essere protagonisti di queste politiche di welcoming. Perché queste potranno essere differenti solo se lo spazio legale aperto dalle istituzioni sarà abitato dalle forze sociali affinché chi arriva diventi parte della città. Non possiamo pensare il welcoming come politica assistenziale, ma dobbiamo pensarlo come incontro tra le vere forze produttive europee: chi l’Europa la abita, la attraversa e la fa.
Ada Colau e BComú hanno saputo costruire un vincolo emozionale tra istituzione e società. Questa emozione è un flusso che può far diventare queste politiche reali, vere: qualcosa capace di cambiare la città.
I. S.: Quando parli delle possibilità e degli ostacoli, emerge anche la questione della coalizione. Barcellona non è l’unica città in cui si sono vinte le elezioni. Ci sono Madrid, Coruña, Saragozza e le altre città ‘ribelli’. Credi che questo movimento municipalista possa crescere e realizzare politiche che abbiano effetti su scala statale e internazionale?
P. R.: La dimensione municipale è importante ma non può essere la sola. In termini pratici perché ci sono competenze specifiche che dipendono dal governo statale e altre che invece sono ‘competenze’ della società – e poi c’è la dimensione europea che è cruciale per cambiare davvero le cose. Le elezioni locali sono state importanti per rafforzare una lotta all’egemonia urbana delle logiche neoliberali sul piano locale, ma deve essere la scintilla di altri processi. Nello stesso modo in cui non si possono pensare Podemos o i processi municipalisti senza il 15M, quest’assalto istituzionale deve essere un punto di partenza per un’ulteriore proliferazione di processi sociali.
Non possiamo pensare che sia una responsabilità solo delle municipalità, o solo di Podemos, o solo dei movimenti o della società mobilitata. Dobbiamo pensare a queste forze come agenti che vivono in una stessa ecologia, un’ecologia che è responsabilità collettiva mantenere viva e rigogliosa, un’ecologia che deve poter crescere. Sotto un albero, c’è l’erba e l’erba può crescere perché le foglie fanno ombra; e ciò permette che il terreno sia umido e più ricco per l’intero sistema. Molte volte nella tradizione dei movimenti sociali si è pensato il sociale contro il politico in un senso quasi morale: tra buoni e corrotti. L’idea di una ‘ecologia’ ci permette di pensare attraverso la necessità, ma in modo attivo. Abbiamo bisogno di invadere lo spazio politico perché cresca la società e abbiamo bisogno che la società cresca perché si possa intervenire istituzionalmente sul funzionamento delle politiche pubbliche. Se pensiamo a queste relazioni come dimensioni ecologiche, credo che faremo un passo avanti nella nostra capacità di produrre cambiamenti reali. Cosa possiamo imparare da quello che sta succedendo in Grecia? Che soffrire delle sconfitte nel campo “politico” non significa aver perso fintantoché l’alleanza tra società e pratiche istituzionali si mantenga viva, nella sua complessità. Questa è la sfida anche qui a Barcellona.
*pubblicato in Krytyka Polityczna.