di FRANCO ROTELLI
Cogliamo l’occasione della pubblicazione di L’istituzione inventata. Almanacco Trieste 1971-2010 (AlphaBeta), cronistoria testo-immagini delle vicende di chi ha condiviso da vicino il lavoro di Franco Basaglia, per riparlare di lotte ed esperienze essenziali per immaginare oggi, nella crisi del welfare tradizionale, le nuove “istituzioni del comune”: lo sottolinea Pantxo Ramas nella sua introduzione a un importante testo del 1988 di Franco Rotelli, che vi ripresentiamo, ringraziando per la gentilissima disponibilità.
Presentazione di PANTXO RAMAS
Rileggere le pagine dell’Almanacco curato da Franco Rotelli, L’istituzione inventata edito da AlphaBeta, significa prima di tutto capire cosa sta succedendo oggi a Trieste, quarant’anni dopo l’apertura del manicomio di San Giovanni. E aprire un manicomio non é la stessa cosa che aprire un bar – aprire un manicomio significa proprio il contrario: significa chiuderlo e prendersi la responsabilità di accompagnare dei soggetti fragili nella libertà costitutivamente difficile della vita urbana, per riprendere una espressione di Maria Grazia Giannichedda.
Franco Rotelli ripercorre questa sperimentazione portando a un dialogo tra loro le immagini e le parole attraverso le quali é stato possibile a Trieste costruire un modello di salute mentale che ha posto al centro i diritti delle persone e che ha affrontato la complessità della vita, disarticolando la stigmatizzazione e l’esclusione che i matti ancora troppo spesso soffrono in Europa e nel mondo.
L’oggetto della de-istituzionalizzazione, ci ricorda Rotelli in un articolo pubblicato degli anni ottanta e ripubblicato in questo almanacco, non era il manicomio ma la follia, come categoria dell’esclusione, della violenza e dello sfruttamento verso l’altro, subalterno e fragile. Uno sfruttamento assoluto che, tra i muri del manicomio, veniva chiamato terapia. E allora la storia di Trieste, della de-istituzionalizzazione, della creazione dei servizi territoriali, delle cooperative sociali, degli appartamenti supportati o assistiti, delle borse lavoro e delle borse di studio, racconta prima di tutto che distruggere le istituzioni non basta. Bisogna continuamente, giorno per giorno, inventarne di nuove.
Oggi a Trieste le cooperative sociali istituite con l’appoggio del Dipartimento di Salute Mentale sono progetto di vita e luogo di lavoro per più di cinquecento persone, fatturano tra i quindici e i diciotto milioni di euro all’anno e dimostrano che fare cose belle e utili, farle insieme con l’appoggio del pubblico e costituendo il comune é possibile. E soprattutto che fa bene alla salute.
Ma la sfida non finisce quando si aprono le porte del manicomio o quando si approva una legge che chiude gli ospedali psichiatrici (e recentemente gli ospedali psichiatrici giudiziari). Non finisce neppure quando le persone, un tempo rese cose dall’istituzione, tornano a essere protagoniste delle proprie vite.
Inventare istituzione è in primo luogo produrre la ricchezza del comune e sostenere, a partire dalle istituzioni, l’autonomia della riproduzione sociale – e dunque significa soprattutto mettere in crisi il principio di riproduzione interna all’istituzione e fornire gli strumenti perché l’eccedenza della società sfidi ogni giorno chi le istituzioni le gestisce, le riforma o le inventa.
Il problema della gestione caro a Franco Basaglia, e dunque della contraddizione permanente tra negare e gestire uno spazio di organizzazione sociale che continuamente limita la libertà soggettiva, è un tema di straordinaria attualità, soprattutto quando sia il modello fordista dello stato assistenziale sia il modello neoliberale di uno stato che anima all’imprenditorialità hanno mostrato i propri limiti.
In un’immagine Rotelli ci dice che l’istituzione non deve temere che i propri servizi siano panchine di neve. Luoghi dove le persone possano riposarsi e appoggiarsi in un momento difficile per poi riprendere il proprio cammino e il proprio ruolo nella vita sociale. Non importa se in primavera questi luoghi avranno perso la propria utilità, se – sciolte le panchine – l’istituzione si troverà a mani vuote con il bisogno di reinventarsi e rispondere a nuove necessità. Perché proprio lì si potrà ricominciare a inventare.
Questa invenzione a Trieste continua ad attraversare le forme istituzionali. Le ultime pagine dell’Almanacco raccontano del progetto Micro Area dove servizi sociali, servizi sanitari, case popolari e un insieme complesso di organizzazioni, associazioni e dinamiche informali della vita sociale (le comunità? I territori?) si mettono insieme per inventare micro-dispositivi capaci di costruire le politiche di cura e di emancipazione attorno alle persone, a partire dai loro bisogni, ma soprattutto dai loro desideri. Quella logica inventata per rompere i muri dell’istituzione totale prende piede nella città, nei luoghi più ai margini, nelle periferie, dando voce e protagonismo agli ultimi. Quarant’anni fa si aprivano le porte di un luogo di violenza e soprusi, oggi i matti inventano la città.
L’ISTITUZIONE INVENTATA
di FRANCO ROTELLI
Pubblicato in: “Per la salute mentale/ for mental health”, n. 1/88 –
Rivista del Centro Regionale Studi e Ricerche sulla Salute Mentale – Friuli Venezia Giulia
Bisognerà ripetere qualcosa per noi ovvio, da molti disconosciuto: l’istituzione da noi messa in questione da vent’anni a questa parte non fu il manicomio ma la follia. Dissenso a fronte di chi divide i due periodi: quello manicomiale dall’attuale, non solo per quel che è ovviamente diverso (surplus di violenza, ruolo della pericolosità sociale, totalizzazione delle persone), ma anche per quel che per noi è immutato: l’essenza stessa della questione psichiatrica.
Così mi è accaduto in recenti dibattiti di sentire esporre una concettualizzazione della critica istituzionale tutta riferita all’era del manicomio, ridotta a problema di umanizzazione, di eliminazione di una violenza aggiuntiva e superflua. Periodo che quindi si dichiara a ciò limitato e concluso. Credo che quest’equivoco sia frutto di una banalizzazione molto fuorviante, interessata a ridurre e a esorcizzare la portata della rottura epistemologica introdotta dall’Istituzione Negata e a riautonomizzare la psichiatria.
1. L’equivoco non è probabilmente tale, ma una profonda discriminante sul riconoscimento dell’oggetto della psichiatria. Cosa è stata l’istituzione da negare? L’istituzione in questione era l’insieme di apparati scientifici, legislativi, amministrativi, di codici di riferimento culturale e di rapporti di potere strutturati attorno ad un ben preciso oggetto per il quale erano state create: la «malattia» cui si sovrappose in più, nel manicomio, l’oggetto «pericolosità» .
Perché volemmo quella deistituzionalizzazione? Perché per noi l’oggetto della psichiatria può e deve essere non quella pericolosità né questa malattia (intesa come qualcosa che sta nel corpo o nella psiche di questa persona). L’oggetto fu sempre per noi invece l’esistenza-sofferenza dei pazienti ed il suo rapporto con il corpo sociale (1). Il male oscuro della psichiatria è stato nell’aver costituito istituzioni sulla separazione di un oggetto fittizio, la malattia, dall’esistenza complessiva del paziente e dal corpo della società.
Su questa separazione artificiale si sono costituiti degli insiemi istituzionali tutti riferiti alla “malattia”. Occorreva smontare questi insiemi (negare quelle istituzioni) per riprendere contatto con questa esistenza dei pazienti, in quanto “esistenza malata”. Allora le vecchie istituzioni andavano superate perché culturalmente, epistemologicamente incongrue, (e tali resterebbero le istituzioni previste dai vari progetti di legge di controriforma). La rottura del paradigma fondante quelle istituzioni, il paradigma clinico, fu l’oggetto vero del progetto di deistituzionalizzazione: e la rottura del paradigma si fondava anche sulla rottura della relazione meccanica causa-effetto nell’analisi di costituzione della follia.
Negazione dell’istituzione, ben più che smantellamento del manicomio fu ed è smontaggio di questa causalità lineare e ricostruzione di una concatenazione di possibilità-probabilità: come ogni scienza moderna ci insegna a fronte di oggetti complessi. Il progetto di deistituzionalizzazione coincideva con la ricostruzione della complessità dell’oggetto che le vecchie istituzioni avevano semplificato (dovendo esse usare non a caso violenza per riuscirvi). Ma se l’oggetto cambia, se le vecchie istituzioni vanno demolite, le istituzioni nuove devono essere all’altezza dell’oggetto, che non è più un oggetto in equilibrio ma è per definizione (esistenza-sofferenza di un corpo in rapporto con il corpo sociale) in un non-equilibrio: si questo è l’istituzione inventata (e mai data).
Non si può fare molto con la “malattia” come la voleva il “modello medico”, con il sintomo o il conflitto come lo voleva il “modello psicologico”, perché è cambiato l’oggetto, il paradigma, e con essi il sensato programma.
Alla malattia (diagnosi, prognosi, terapia), ai suoi consustanziali rapporti di causa ed effetto, corrispondevano coerenti istituzioni. Alla pericolosità il manicomio, alla malattia come le altre l’ospedale generale, alle topiche dell’inconscio e della coscienza i divani analitici; ma rotto il giocattolo, demistificato l’oggetto, scopertane la miseria, la deistituzionalizzazione, quella vera, ha invaso e scombussolato il campo con la forza degli eventi moderni (e con qualche consapevolezza chez- nous).
La deistituzionalizzazione, quella falsa, ovviamente tenta il contrario: mummificare l’oggetto della psichiatria, spostando solo le forme e i modi della gestione, più che altro i luoghi, il look, ben poco d’altro; se il vero oggetto è divenuto l’“esistenza-sofferenza del paziente nel suo rapporto con il corpo sociale”, che ben misero rapporto hanno le istituzioni tradizionali con questo nuovo oggetto (ma anche molte di quelle nuove). Quanto poco pertinenti, inadeguate: un metro per misurare un liquido, una scatola per contenere la corrente del fiume. Deistituzionalizzazione vera sarà allora il processo pratico-critico che riorienta istituzioni e servizi, energie e saperi, strategie e interventi verso questo ben diverso oggetto.
2. Il problema diventerà non la “guarigione” ma “l’emancipazione”, non la riparazione ma la riproduzione sociale della gente, altri direbbe il processo di singolarizzazione e risingolarizzazione. Se la follia è spesso la forma caricaturale del nostro essere replicanti, essa è la caricatura di una ripetizione; altre volte fine della ripetizione; esaurimento totale di ogni possibilità di una ripetizione. In ogni caso occorrerà pure immaginare che l’unica cosa sensata possibile è la deistituzionalizzazione di quella scena, l’invenzione di un modo altro, e la creazione di opportunità, di possibilità, di probabilità per il “paziente”.
Questo era il lavoro dentro le mura, questo è il lavoro fuori dalle mura. E per questo occorrono laboratori, non ambulatori: laboratori pieni di consapevolezza, macchine di deistituzionalizzazione. (2) In sintesi:
“Uno statuto di razionalità dell’azione terapeutica indica una concezione della conoscenza (e della scienza) che non solo è ben lontana dall’ideale cumulativo, ma riconduce la conoscenza nell’ambito dell’esperienza umana: essa è un processo aperto, costituito di incertezze e di decisioni ” (De Leonardis, 1986).
Altro che “negare l’esistenza della malattia mentale”. La malattia fu un tempo messa fra parentesi solo in funzione dell’esistenziale dispiegarsi reale della persona all’occhio finalmente partecipe dello psichiatra. È vero che abbiamo sempre pensato che essa non sia una realtà ontologica ma una realtà inventata, ma pur sempre una dura e viva realtà.
“Lo sguardo medico non incontra il malato ma la sua malattia, e nel suo corpo non legge una biografia ma una patologia, dove la soggettività nel paziente scompare dietro l’oggettività di segni sintomatici che non rinviano ad un ambiente o ad un modo di vivere, a una serie di abitudini contratte, ma ad un quadro clinico dove le differenze individuali che si ripercuotono nell’evoluzione della malattia scompaiono in quella grammatica di simboli con cui il medico classifica le entità morbose come il botanico le piante. Ma quando i sintomi, da espressione di un disagio e di uno squilibrio nelle condizioni di vita, diventano semplici segni di una malattia che, invece di iscriversi nel mondo sociale si iscrive nel mondo patologico, la malattia viene sottratta al controllo del gruppo con cui non si può scambiare, per essere affidata all’osservazione di uno sguardo, quello medico, che, autonomo, si muove in un cerchio dove non viene controllato che da se stesso e dove sovranamente distribuisce sul corpo del malato quel sapere che ha acquisito” (Galimberti, 1984).
Ma non è solo uno sguardo, la clinica. Allora la malattia, ben fuori di parentesi, si svela come il luogo geometrico delle incrostazioni giudiziarie, diagnostiche e scientifiche applicate soprattutto, e senza contraddittorio, alle classi subalterne. Insieme di apparati ben oggettivanti la malattia, amministrativi, disciplinari, scientifici, normativi, coerenti con il suo vecchio statuto epistemologico: fu quindi (altro che tra parentesi), luogo centrale del nostro lavoro, l’oggetto della pratica critica, e in ciò ha svelato il suo essere consustanziale alla follia, come introiettata istituzionalità, altri direbbe come soggettività indotta e prodotta.
“Quando lo sguardo non è clinico è il malato e non la malattia ad essere considerato e visto” (Galimberti, 1984).
Ma lo “sguardo” si limita nella migliore delle ipotesi a considerare l’essere gettato là (nel mondo) del malato. Purtroppo la clinica non è fondata solo a partire dallo sguardo medico ma anche da una profonda interiorizzazione che viene da molto più lontano. Lo sguardo è già incorporato nell’esperienza-sofferenza, ne è parte non secondaria, è già costitutivo del linguaggio della follia che è sempre frutto di un “potere che produce”. Occorrerà allora contrapporgli un altro “potere che produce”.
3. La produzione di vita e la riproduzione sociale che sono la pratica dell’istituzione inventata, devono sfuggire alle ridotte vie dello sguardo clinico, come dell’indagine psicologica, come della pura comprensione fenomenologica, e farsi tessuto, ingegneria di ricostruzione di senso, di produzione di valore, tempo, presa in carico, identificazione di situazioni di sofferenza e di oppressione, reimmissione nel corpo sociale, consumo e produzione, scambio, nuovi ruoli, altri modi materiali di essere per l’altro, agli occhi dell’altro.
Siamo sempre più convinti che il lavoro terapeutico sia questo lavoro di deistituzionalizzazione volto a ricostruire le persone come attori sociali, a impedirne il soffocamento sotto il ruolo, il comportamento, l’identità stereotipata e introiettata che è la maschera sovradeterminata di malati. Che curare significhi occuparsi qui ed ora di far che si trasformino i modi di vivere e sentire la sofferenza del paziente e che insieme si trasformi la sua vita concreta quotidiana.
Ecco allora il perché della necessità in psichiatria oggi di istituzioni inventate. Tale è la nostra esperienza seconda a Trieste, figlia autopoietica dell’esperienza prima, l’istituzione negata. L’istituzione negata fu la descrizione dura di una contaminazione, la pratica che la svelava. L’istituzione affermata è la pratica assunta, consapevole, organizzata, di questa contaminazione.
È anche un po’ “il muro che riequilibra le vite” come lo vuole Blanchot: di fronte all’anomia del territorio, «di fronte a uno spazio, infinito e infinitamente deserto, è necessario innalzare nuovamente un muro, chiedere un po’ di indifferenza, la pacata distanza che equilibra le vite»
(Blanchot, 1977).
Nascono così i centri territoriali e allora «il deserto si ripopola». Gli operatori solo in quanto si riconoscono e si ricostituiscono come istituzione scoprono che la città è intessuta di istituzioni, e il malato è un istituzione, e che c’è bisogno di potere istituzionale per usarle, piegarle, trasformarle. Tadeusz Kantor usa per i suoi «imballaggi» parole pertinenti: «bisogna nascondere l’oggetto per preservargli un futuro, messaggio affidato al mare in una bottiglia. Questo è il comportamento nel tempo del pericolo, il comportamento del pericolo». Credo che il Centro di Salute Mentale sia questo imballaggio in mostra, questa istituzione provvisoria ed inventata (come le Panchine di neve di Berlot Brecht) (3).
Sempre Kantor ha detto: «I politici oggi non sono responsabili, le autorità non sono responsabili, ma l’artista, lui deve essere responsabile. Sì, soltanto l’artista è responsabile, questi sono i tempi». Credo che questo non valga solo per gli artisti, ma anche per noi che ci riconoscemmo e ancora oggi nell’analisi del Plaidoyer di Sartre, tecnici del sapere pratico. Quella lezione filosofica si incontra oggi con tutti i portati delle scienze avanzate; la complessità dell’oggetto implica non analisi ma progetti, progetti di trasformazione attraverso i quali soltanto è possibile ottenere conoscenze. Questi progetti ( l’invenzione e i suoi risultati cognitivi ) devono riguardare contemporaneamente l’universo delle istituzioni e le particolarità singolari degli individui che giungono ai servizi.
Forse oggi assume nuovo senso per noi e consapevolezza quel che Musil ci ricordava: « non lasciamoci ingannare dagli atteggiamenti di copertura, dalla compassione, dall’impegno sociale e dalla ammiccante maschera salvifica del medico. L’interesse scientifico per i fenomeni è un interesse diretto, che cerca il sapere». Ancora Galimberti:
« Noi sappiamo che l’autonomizzazione dello psichico non fa che raddoppiare l’autonomizzazione del fisico su cui a partire da Cartesio si è costruita la scienza. Psicologia e biologia, per sopravvivere perseverano nella lacerazione del corpo, nella presupposizione fondamentale della dualità che oggettiva il corpo, come residuo per far vivere l’anima sulle cui sorti ha un tempo prosperato la regione e oggi la psicanalisi. Il corpo ridotto a puro organismo non è più reale dell’anima psicologia o spirituale: entrambi risultano da quell’astrazione che si è alimentata col dissolvimento del simbolico e con le due grandi metafisiche complementari: quella “idealistica” dell’anima con tutte le sue variazioni religiose, morali, psicologiche, e quella «materialistica» del corpo con i suoi prolungamenti biologici e sociologici» (Galimberti, 1984) (4).
Si dice che fummo disattenti al biologico, che fummo disattenti alle psicodinamiche. Direi che ne fummo fin troppo attenti, ma di quel che in verità ci si accusa siamo sì colpevoli: di non accettare la subalternità all’autonomia del biologico, come all’autonomia dello psichico (5), come (e alla fine di questo ci si accusa) all’autonomia del sociale e del politico.
Allora l’istituzione inventata sull’oggetto «esistenza sofferente del corpo in rapporto con il corpo sociale» è fatta di servizi che, rotta la separatezza del modello medico e cogliendo in quello psicologico gli identici vizi del modello biologico, entrino a pieno titolo nel territorio delle ingegnerie sociali come motori di socialità e produttori di senso e siano a tutto spessore interferenti con la vita quotidiana, le quotidiane oppressioni, momenti della riproduzione sociale possibile, produttori di ricchezza, di scambi plurimi e perciò terapeutici (6). Allora terapeuticità è l’intenzionalità dei servizi che siano intermediari materiali, capaci di rimettere in movimento scambi sociali bloccati, di raccogliere e valorizzare dislocandoli, deistituzionalizzandoli per paradosso, i sintomi, i simboli, i sensi plurimi del paziente. Accettare questa sfida della complessità dei molteplici piani dell’esistenza e non riducendo il soggetto a malattia o disturbata comunicazione, o a povero e basta, o autonomizzandone il corpo o la psiche, ma reinscrivendolo nel corpo sociale.
Se il senso e il simbolo sono dati di solito come sintomo, come reificata immagine, oltre un certo limite che oggi è paurosamente ridotto, occorrono laboratori di riproduzione che rivelino gli scopi: occorre cioè un sociale inventato per una socialità altrimenti assente, ma un sociale contaminato, che del massimo di contaminazione viva e che sia luogo di rivalorizzazione di gesti, di fatti, che altrimenti ripiegano a sintomo.
L’istituzione inventata, l’istituzione della contaminazione, privilegia l’oggetto povero, ma non solo ad esso è destinata.
«L’oggetto povero, il povero, è quello privato, sempre, delle funzioni specifiche della vita quotidiana, lo si getta nel bidone della spazzatura. Sta per essere buttato nei rifiuti. È lì sospeso tra l’immondezzaio e l’eternità: il luogo dei rifiuti e l’ultimo scalino della realtà e l’eternità che è l’ultimo soglia della vita» (Kantor, 1986).
Forse perché non è più scambiabile e rientra nel mondo dell’uso, o del non uso, ma in esso si deposita la sua storia.
La dura guerra contro le istituzioni decontaminate inutili o nocive, frutti dell’igienismo medico-tradizionale, implica che l’istituzione inventata, che fa rivivere la ricchezza dell’oggetto povero, sia fatta di attraversamenti. Avremo, per questo, bisogno – per una pratica terapeutica – di artisti, uomini di cultura, poeti, pittori, uomini di cinema, giornalisti, di inventori della vita, di giovani, di lavoro, feste, gioco, parole, spazi, macchine, risorse, ingegni, soggetti plurimi, loro incontro.
Ne abbiamo avuto a Trieste e questa è la nostra fiducia. Tornando a Sartre:
«Tutti coloro che a partire da oggi aderiscono al punto di vista universalistico sono «rassicuranti»; l’universale è fatto da falsi intellettuali. Il vero intellettuale, cioè colui che si coglie nel disagio, inquieta: l’universale umano è da fare» (Sartre, 1965).
«E non si può fare», che a partire dalle singolarità degli individui. Da pratiche diverse: fare, inventare, rappresentare, ricostruire i rapporti tra sfere che tendono ad autonomizzarsi, come nella schizofrenia del singolo, cosi in quella generale. Noi non possiamo che fare questo: rappresentare per agire. Ma come ci ricorda ancora Musil:
«Rappresentare una cosa significa rappresentare i suoi rapporti con cento altre cose. Perché è oggettivamente impossibile fare diversamente. Perché non c’è altro modo per rendere comprensibile, percepibile una cosa qualunque essa sia. E anche se queste cento cose altre fossero a loro volta oscene o morbose, i rapporti con esse non lo sono, e la scoperta dei rapporti non lo è mai» (Musil, 1986).
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(1) La questione terapeutica è parte della questione sociale, come l’ambivalenza riconosciuta del corpo individuale è l’apertura al corpo sociale.
(2) Il termine “laboratorio” designa a Trieste una struttura complessa. Luogo di produzione di cultura, di lavoro, di scambi e relazioni tra artisti, artigiani, persone malate e non. Un luogo nel quale i ruoli sono intercambiabili e il lavoro degli operatori che li coordinano è finalizzato a sperimentare pratiche innovative.
(3) Ci si dice (mass-media) che fummo contrari a luoghi di ospitalità (centri crisi, luoghi di vita, ecc.) in omaggio ad una mistica del territorio. I nostri centri sono qui a Trieste da 10 anni a dimostrare l’infondatezza totale di questa accusa. Ci si è accusati di voler rinviare a un generico sociale il problema. Siamo in realtà qui da 15 anni ad intermediare una consapevolmente infinita e notoriamente interminabile restituzione.
Ma per noi si è sempre trattato di “istituzioni per la deistituzionalizzazione”. E in tutti questi anni abbiamo esteso la nostra intermediazione al carcere, alle perizie, alle giuridiche tutele, e abbiamo costituito cooperative, luoghi sociali, effimere estati, permanenti laboratori, intanto che i nostri censori scrivevano.
C’è un nonsenso in voga: “Il buon servizio è quello vuoto”. Credo che il buon manicomio sia quello vuoto, il buon servizio sia quello pieno. Quel che accade da Salonicco a Montreal è che si possono vedere (pessimi) manicomi pieni, e (splendidi) centri di terapia familiare o di salute mentale, vuoti. In un buon centro di salute mentale si affastellano, incrociano, moltiplicano le domande, come avviene nel mercato (scambi). (Che questo sia l’indicatore migliore di un buon servizio deriva dalla domanda: se non perché la gente ci andrebbe) né esiste per me un centro di salute mentale più bello di un mercato in Senegal o a Marrakesh. Vorrei capire meglio il perché, ma certo c’entra il fatto che le classi sociali si mescolano, si scambiano, gli individui si guardano, giocano e lavorano (e possono essere anche molto pazzi). E’ uno dei pochi posti, un buon mercato, dove il corpo sociale si riconosce, esiste intero ed è difficile per tutti sfuggire al fascino del suo brulicare (del mercato e del corpo). Dove ci si singolarizza attraverso la partecipazione.
(4) Strano destino quello della psichiatria, per il quale, incomprensibilmente assume dignità scientifica e plausibilità terapeutica la parola e non l’assume l’azione: il colloquio può essere terapeutico, ma non il fare un film insieme, cambiar casa, far teatro o leggere insieme poesie, cambiare lavoro o ottenerne uno nuovo, iscriversi ad un partito od uscirne, comprarsi un vestito nuovo o litigare, andare in barca o intervenire in una assemblea, avere degli amici o una nuova idea, avere una risposta al proprio bisogno di valore, poter esprimere un sentimento anomalo, usare la propria malattia come un vestito, un modo di comunicare, di dissentire o di dislocarsi, senza per questo essere istituzionalizzati in un’identità senza valore sociale, abbandonati a se stessi o trasformati in casi clinici. Per la psichiatria (in particolare per quella che oggi con termine un po’ comico si chiama hard) chissà perché tutto ciò non ha valore terapeutico in senso forte.
(5) Anche il divano è un’istituzione inventata, ma per un oggetto tutto interno all’autonomia dello psichico, ad una singolarità psicologica prima semplificata, poi resa infinitamente complessa (e perciò seducente). Qui la semplificazione originaria rende dubbio quanto ne procede e l’igienismo del setting, come quello ambulatoriale è non solo un modello della pratica ma è costitutivo dell’episteme psicoanalitico. “Le stesse teorie psicodinamiche, che pure hanno tentato di trovare il senso del sintomo attraverso indagine dell’inconscio, hanno mantenuto il carattere oggettivo del paziente, anche se attraverso un tipo diverso di oggettivazione: oggettivandolo cioè non più come corpo, ma come persona.” (Basaglia, L’istituzione negata)
(6) L’osservazione che ci viene da più parti (v. Mondo Operaio) di un nostro presunto amore per lo statalismo e disprezzo per il privato ci stupisce. Da 15 anni abbiamo animato cooperative di servizio, deistituzionalizzando servizi pubblici. Siamo sempre stati coscienti delle grandi potenzialità del privato sociale. Non crediamo invece alle presunte stimolazioni di una concorrenzialità tra pubblico e privato. Crediamo fermamente invece alla necessità di deistituzionalizzazione del pubblico, deistituzionalizzazione che non ha nulla a che fare con la deregulation così come nulla ha a che fare con la deospedalizzazione amministrativa. La questione è che occorre demolire la burocratizzazione, l’inerzia, la compartimentazione, l’irresponsabilità del Welfare, non il Welfare; vanno demoliti i controlli burocratici e partitici; vanno valorizzate responsabilità a tutti i livelli, libera iniziativa, produttività, singolarizzazione e professionalità. Più mercato nello stato (molto più mercato) se questo significa produttivizzazione delle funzioni. Questa è deistituzionalizzazione e insieme produzione di ricchezza, processo possibile di soggettivazione, Welfare altro.
Riferimenti bibliografici / References
De Leonardis O., Mauri D., Rotelli F. (1983) “Prévenir la prévention” in Information Psychiatrique, 4.
De Leonardis O., Mauri D., Rotelli F. (1986) “Deinstitutionalisation, a different path. The Italian Mental Health reform” in Health Promotion, WHO, Cambridge University Press
De Leonardis O. (1987) “Decostruzione, innovazione: strategie cognitive della deistituzionalizzazione” in La pratica terapeutica tra modello clinico e riproduzione sociale, Atti del Convegno di Trieste 22-23-24 sett. 1986, Collana dei Fogli d’informazione, Centro di Documentazione di Pistoia, Ed.
Galimberti U. (1984) Il corpo Feltrinelli, Milano
Musil R. (1986) L’osceno e il mostruoso nell’arte Mondadori, Milano
Piro S. (1986) Euristica connessionale Idelson, Napoli
Sartre J.P. (1965) “Plaidoyer pour les intellectuels”, in L’universale singolare, Il Saggiatore, Milano
Kantor T. (1986) “Intervista” ( a cura di P. Del Giudice), in Alfabeta, luglio