di MARCO BASCETTA*.

Riprendiamo dal manifesto di sabato 12 dicembre la recensione di Marco Bascetta al libro di G. Allegri e G. Bronzini, Libertà e lavoro dopo il Jobs Act (DeriveApprodi), davvero prezioso per le lotte di tutto il lavoro, precario, autonomo e/o subordinato ma precarizzato, verso un welfare del comune autenticamente universalistico . Segnaliamo che il libro sarà presentato lunedì 14 dicembre a Roma presso la Fondazione Basso (Via Dogana Vecchia 5), ore 17, con Maria Rosaria Marella, Stefano Rodotà, Giuseppe Roma, coordinati da Giacomo Marramao.

Che cosa sia il lavoro, fuori dalla retorica che lo celebra e dall’uso comune che banalizza senza chiarirlo il significato del termine, è altrettanto controverso di che cosa si debba intendere con l’idea di libertà. Certo è che entrambi si danno in forme storiche mutevoli, sostenute dalle ideologie

e radicate nei rapporti sociali, nei costumi e nel contesto culturale. Converrà limitarsi qui, senza prendere la strada lunga dell’antropologia filosofica, alle due grandi impostazioni di fondo, quella che tra lavoro e libertà istituisce un’antitesi (dominante nel mondo antico) e quella che stabilisce, almeno a certe condizioni, una continuità, se non proprio una identità. Nell’epoca moderna prevale la seconda, ma senza mai venire a capo di uno stato di tensione, di una persistente polarità.

È a partire da questa polarità che Giuseppe Allegri e Giuseppe Bronzini ricostruiscono la storia della «grande trasformazione» del lavoro che ha segnato gli ultimi decenni, delle politiche e delle scelte legislative che la hanno accompagnata, configurata, imbrigliata. (Libertà e lavoro dopo il Jobs Act. DeriveApprodi, pp.188, euro 13). Non senza cercare di rintracciare anche nella storia meno recente spunti, esempi, azzardi e sperimentazioni in grado di forzare l’assetto che ha finito col prevalere ai giorni nostri e la sua presunta mancanza di alternative. Quello che vede contrapposti il lavoro subordinato e «garantito» all’«imprenditore di sé stesso» e al libero investimento del suo «capitale umano», l’individuale al collettivo, l’innovazione alla tradizione. Per completare il quadro si dovrà però aggiungere a lavoro e libertà un terzo elemento, quello ossessivamente evocato della «sicurezza».allegribronzini1

La contrapposizione tra i difensori del lavoro dipendente e i fautori dell’«imprenditore» individuale si è prevalentemente data, sul piano politico e sindacale, come contrapposizione tra sinistra e destra. Solo l’elemento collettivo e omogeneo del lavoro subordinato, forte dei diritti e delle garanzie conquistate, avrebbe potuto rappresentare una condizione di «sicurezza», mentre il lavoro autonomo, pur godendo di maggiore libertà, sarebbe rimasto esposto alle incertezze del mercato e ai rapporti di forze sfavorevoli che ne determinano il corso. Condizione adeguata, semmai, ad avventurieri
e soggetti di dubbia socialità.

Fatto sta che il mantenimento del lavoro dipendente è stato condizionato da un costante
e progressivo smantellamento delle sue prerogative fino a renderne aleatoria la stessa «sicurezza»,
e sostanzialmente irreversibile l’imponente contrazione della sua estensione. Tanto che nemmeno la mascherata precarizzazione dell’impiego «a tempo indeterminato» allestita tramite i dispositivi del Jobs Act, sembra riuscire a invertire questa consolidata tendenza, se non ricorrendo a qualche trucco statistico. Cosicché il crescente numero di soggetti, soprattutto giovanili, esclusi dalla sfera delle tutele e da un welfare ampiamente disegnato a misura del lavoro subordinato, corrode
e scredita i tradizionali istituti della rappresentanza.
L’omogeneità, insomma, è definitivamente perduta. Ma se il lavoro subordinato ha smesso di essere «sicuro», il lavoro autonomo o indipendente non è in realtà affatto quella condizione di individualizzazione estrema e in fin dei conti «asociale» che si vorrebbe far credere. Il contesto in cui si sviluppa è un contesto fortemente «sociale» caratterizzato da fitte interrelazioni, cooperazione, circolazione di conoscenze, insomma da uno sfondo comune. Il lavoratore cognitivo non corrisponde affatto all’isolamento di un presunto innovatore in competizione con tutti gli altri, ultima reincarnazione dell’individuo proprietario.

Il cappio della committenza

Si è soliti considerare la sfera della libertà come distinta da quella della «solidarietà», tralasciando quanto la prima, nella sua orizzontalità antitetica alle gerarchie della subordinazione, sia spesso
e volentieri condizione della seconda. Ma queste qualità e potenzialità che si sviluppano «aldilà dell’impiego» sono fatte oggetto di un permanente sabotaggio. Non è la natura del lavoro autonomo, ma sono i meccanismi di competitività e concorrenza introdotti dai meccanismi di captazione del valore a istituire l’«imprenditore di se stesso» come una pura figura di mercato.

Sono la committenza e la concentrazione delle risorse in poche mani a individualizzare, frammentare e incentivare l’autosfruttamento. Cosicché a un lavoro subordinato sempre meno sicuro fa da contrappunto un lavoro autonomo sempre meno libero, esposto a ogni sorta di vessazioni e ricatti. Ed è dunque sul terreno di un universalismo che attraversi l’intero spettro dei «lavori», che gli autori sfidano la politica e il diritto a cimentarsi, enucleando, a partire dalla carta di Nizza e dalle intuizioni più avanzate del giuslavorismo, quelle piste che, nell’ambito della costruzione europea, potrebbero condurre in questa direzione, incentivando e tutelando le attività umane in tutte le loro sfaccettature.

C’è da dire però che da tempo le politiche di bilancio e le ricette ultraliberiste di Bruxelles hanno determinato non una estensione e articolazione del welfare state ma la sua contrazione, subordinandolo inoltre a criteri protezionisti di carattere nazionale. La libera circolazione delle persone e il riconoscimento incondizionato dei diritti dei cittadini europei sono oggi sotto attacco. Ma non è questa una buona ragione per ritornare alla fallace promessa di restaurare una «piena occupazione» fondata sulla subordinazione nello spazio e nella sfera di potere dello stato nazionale, così come era stata concepita nel secolo passato. Si tratta piuttosto, per dirla con una formula, di sottrarre la «sicurezza» al pactum subiectionis produttivista cui è stata lungamente vincolata, per estenderla a una condizione di maggiore libertà e molteplicità.

Scambio fondativo

E qui lo sguardo convintamente europeista di Allegri e Bronzini apre su una prospettiva che nel volume non è distesamente trattata, ma che promette sviluppi di grande rilevanza. A partire dallo scambio fondativo della dottrina politica moderna tra sicurezza e libertà si delinea una parentela assai stretta, sotto un segno identitario, tra il lavoro subordinato, con la sua omogeneità, le sue gerarchie e le sue tutele e lo stato nazionale con i doveri e la soggezione che esso impone. allegribronzini3

È indubbio che il lavoro dipendente è stato la forma di lavoro propria degli stati nazionali moderni nei quali è stato rappresentato anche a livello costituzionale. Consentendo quel compromesso tra le classi, a seconda dei casi e dei tempi sbilanciato a favore dell’una o dell’altra, che ha segnato il Novecento. Non è un caso che, a destra come a sinistra, i fautori della piena occupazione e della subordinazione come forma prevalente e garantita dell’organizzazione del lavoro siano anche i più convinti sostenitori di un ritorno alle sovranità nazionali.

Ma da questa posizione si finirà con l’accreditare la figura dell’«imprenditore di sé stesso» come acrobata che attraversa senza rete lo spazio insidioso dell’economia di mercato, e cioè la versione interessata che ne da la dottrina liberista, e col rilanciare, al tempo stesso, quella competizione tra nazioni che è sempre stata sinonimo di disciplina e sfruttamento.

*articolo apparso su il manifesto del 12 dicembre 2015

 

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